«[...] quando ci si vuole occupare di questioni scientifiche, si ha innanzitutto il dovere di imparare a leggere le opere che s’intende utilizzare, nei termini esatti in cui l’autore le ha scritte, senza vedervi cose che non vi si trovano» (F. Engels, Prefazione al III Libro).
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Non c’è quasi economista, sociologo, politologo, scribacchino a vario titolo (penso da ultimo a Piketty, che con le sue robinsonate ha raggiunto notorietà universale e sicuro benessere economico), che prendendosi la briga di citare singole proposizioni teoriche o facendo l’epitome delle posizioni attribuite a Karl Marx, non dica delle sciocchezze, quando va bene delle inesattezze.
In un’intervista lo stesso Piketty ammette candidamente di non aver mai veramente letto Marx perché “difficile” e “poco interessante” (*). Viva la franchezza, se dal lato scientifico ci si accontenta di questa. Un po’ come dire: trovo L’origine delle specie “difficile” e “poco interessante”, preferisco il racconto biblico della creazione, di modo che le mie opinioni sull’origine del mondo e dell’uomo non contrastino con la religione.
Non sembri l’esempio adotto stiracchiato: se la critica dell’economia politica condotta da Marx nelle sue opere non andasse a toccare il nervo scoperto dell’economia politica borghese (l’appropriazione di lavoro non pagato da parte del capitalista), Marx sarebbe diventato davvero oggetto di serio studio a livello universitario e specialistico. Marx invece è trattato come un paria perché svela il segreto della religione borghese: l’origine del profitto.
Di seguito prenderò in esame la distinzione marxiana tra capitale costante e capitale variabile, tra plusvalore e profitto, dando per scontato che il lettore possieda già chiari concetti come quello di valore d’uso e di scambio, lavoro concreto e astratto (che non è lavoro intellettuale o quello dei parlamentari).
Sui motivi per i quali Marx adotti una nuova terminologia a riguardo di alcune categorie e concetti economici, rimando a quanto ha scritto F. Engels nella Prefazione all’edizione inglese de Il Capitale scritta nel novembre 1886.
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Il capitalista che investe nella produzione di merci, lo fa all’unico scopo di ottenere lucro, valore aggiuntivo rispetto a quello anticipato (non tutto il capitale investito partecipa immediatamente al processo produttivo). Marx distingue nel capitale due parti: capitale costante e capitale variabile.
Capitale costante è la parte che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro, e che non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione.
Capitale variabile è la parte convertita in “forza-lavoro”, che cambia il proprio valore nel processo di produzione e che riproduce il proprio equivalente oltre a produrre un’eccedenza, ossia del plusvalore.
Questi due fattori partecipano in modo diverso alla formazione del valore del prodotto e, pur essendo entrambi necessari, solo uno è fonte di nuovo valore.
Il valore del capitale costante si conserva mediante il suo trasmettersi al prodotto, cioè riappare, pro rata, soltanto nel valore dei prodotti senza aggiungere alcunché. Ciò che trasmette al prodotto è ciò che perde nel processo lavorativo attraverso la distruzione/trasformazione del proprio valore d’uso.
Il valore del capitale variabile (mentre dal lato del suo specifico carattere utile, “col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo”), in quanto forza lavoro astratta, tempo di lavoro protratto oltre il punto della riproduzione del suo valore, crea un valore eccedente.
“Questo plusvalore costituisce l’eccedenza del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e della forza lavoro”.
In altri termini: solo il lavoro umano, in determinate circostanze, produce più valore di quanto ne consumi nel processo lavorativo. Con ciò s’intende che la forza-lavoro possiede un particolare valore d’uso rispetto a tutti gli altri elementi del processo produttivo. Del resto il capitalista non avrebbe alcun interesse ad acquistare forza-lavoro “al suo valore” se poi dovesse limitare il tempo di lavoro ridotto allo stretto necessario per la sua riproduzione (salario).
Scrive David Ricardo in apertura dei suoi Princìpi: “Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale si scambierà, dipende dalla relativa quantità di lavoro necessaria alla sua produzione, e non dal maggiore o minore compenso che per tale lavoro viene corrisposto” (ediz. Isedi 1976, p. 7).
Che il lavoro produca nuovo valore, che sia la sua quantità contenuta nelle merci a determinare il valore di queste, non è dunque una scoperta di Marx, il quale invece ha scoperto e descritte le effettive e causali determinazioni di tale eccedenza di valore creata dal lavoro umano (che Ricardo intuisce ma confonde con il profitto), e chiama tale eccedenza plusvalore (**).
La mancata distinzione tra capitale costante e capitale variabile, ossia la mancata definizione di “composizione organica” del capitale, e la confusione tra plusvalore e profitto, porterà gli economisti alle più stravaganti teorie su tutti gli aspetti decisivi dell’economia politica, non ultimo quello sulla caduta del saggio del profitto e le cause delle crisi.
L’aumento progressivo della composizione tecnica del capitale provoca (sorvoliamo qui sui motivi), necessariamente, un mutamento parallelo della sua composizione in valore, e, quindi, nella composizione organica, vale a dire un aumento progressivo del capitale costante in rapporto a quello variabile.
Come detto, per composizione organica del capitale s’intende il rapporto reciproco che si stabilisce tra composizione di valore e composizione tecnica. In altre parole, la composizione di valore riflette la proporzione in valore delle parti costitutive del capitale (abbiamo visto: capitale costante e capitale variabile); la composizione tecnica riflette invece il rapporto fisico tra materie prime, mezzi di produzione e lavoro e indica il livello tecnico raggiunto dalla produzione.
Non distinguere tra “composizione in valore” e “composizione tecnica”, riducendo la composizione organica a semplice “composizione in valore”, preclude qualsiasi possibilità sia di cogliere la contraddizione fra lo sviluppo storico-naturale delle forze produttive e la forma che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, sia di cogliere la vera ragione per la quale le modificazioni della composizione organica, provocando la caduta tendenziale del saggio di profitto, possano e debbano risolversi nella crisi dell’accumulazione capitalistica.
Prendiamo ora in considerazione i termini plusvalore e profitto, il saggio dell’uno e dell’altro. Il saggio del plusvalore è il rapporto tra plusvalore e capitale variabile (salari). Esempio: dato un capitale costante di 80 € e uno variabile di 20 €, posto un plusvalore di 20 €, il valore di una merce sarà = a 120 €. Ebbene in tal caso il saggio del plusvalore, ossia il rapporto tra plusvalore e capitale variabile (salari), sarà del 100% (20 € di plusvalore su 20 € di salario).
Il profitto è una forma secondaria, derivata e trasformata del plusvalore. Esso non è altro che il plusvalore rispetto al capitale complessivo anticipato, il suo saggio è il rapporto tra il plusvalore ed il capitale totale investito. Mi spiego: mentre il saggio del plusvalore è = pv/v, nel caso del saggio profitto esso è = pv/c + v, laddove c rappresenta il capitale costante e v il capitale variabile.
Ecco che seguendo l’esempio di prima, avremo un capitale costante di 80 € e uno variabile di 20 €, un plusvalore di 20 €, quindi il valore di quella merce sarà 120 €. Ebbene in tal caso il saggio del profitto, ossia il rapporto tra plusvalore e capitale complessivo, sarà del 20% (il profitto su 100 € di capitale complessivo). In altri termini, il saggio di profitto è determinato dal rapporto tra saggio del plusvalore e composizione in valore del capitale, cioè nella formula:
Le leggi del movimento del saggio di profitto non coincidono con quelle del saggio del plusvalore, da cui il saggio di profitto, come abbiamo visto, si distingue anche quantitativamente.
Pertanto la categoria del saggio del profitto svolge un ruolo fondamentale nell’economia politica, poiché il suo movimento è alla base della crisi del modo di produzione capitalistico.
Infatti, la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica consiste in un aumento della composizione organica del capitale e, di conseguenza, in una caduta del saggio di profitto. Questa legge, ci dice Marx, è “sotto ogni aspetto la legge più importante della moderna economia politica [...] È la legge più importante dal punto di vista storico”.
Domanda: lo sviluppo della tecnologia riduce la massa dei profitti? Assolutamente no. Il saggio del profitto, calcolato sul rapporto fra il pluslavoro (plusvalore) e capitale complessivo, decresce con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, ma ciò non inficia che i capitalisti continuino a fare profitti.
Il saggio di profitto può scendere, anche se il saggio del plusvalore reale sale. Il saggio di profitto può salire, anche se il saggio del plusvalore reale scende.
In proposito, Marx osserva che lo “stesso sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime quindi, nel progresso del mondo capitalistico di produzione, da un lato in una tendenza alla diminuzione progressiva del saggio del profitto, e dall’altro in un incremento costante della massa assoluta del plusvalore acquisito o del profitto ”.
Dobbiamo tener presente che le stesse leggi che provocano una diminuzione del saggio del profitto, producono per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto. Tuttavia esiste un limite tecnico: la produzione capitalistica tende continuamente a superare le proprie contraddizioni, ma riesce a superarle unicamente e momentaneamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.
Veniamo al dunque: com’è possibile che un numero (il saggio di profitto, esprimendo un rapporto tra due grandezze quantitative, è una percentuale) provochi la crisi di un sistema economico reale?
In effetti, scrive Marx, la “caduta del saggio del profitto è così soltanto un indice che rinvia alla caduta relativa della massa del profitto”. Infatti, il decrescere del saggio del profitto non implica la diminuzione della massa di plusvalore prodotto, poiché quest’ultimo può crescere in assoluto a condizione che “il capitale complessivo [cresca] in proporzione maggiore della diminuzione del saggio di profitto”.
Qui viene il bello. Poiché l’unica fonte di valore, e quindi del plusvalore, è la forza lavoro, la diminuzione relativa del capitale variabile implica che si giunga a un punto del processo di accumulazione in cui il plusvalore prodotto è divenuto così piccolo, relativamente al capitale complessivo accumulato, che non è più sufficiente per valorizzare l’intero capitale, facendogli compiere il necessario salto di composizione organica (in questo senso si spiega la lotta furibonda tra capitali e la necessità della loro concentrazione).
È scientificamente dimostrato che non ogni quantità di profitto (plusvalore) può trasformarsi in un aumento dell’apparato tecnico di produzione (i manager industriali lo sanno bene): per l’espansione, quantitativa e qualitativa, della scala della produzione è necessario infatti una quota minima di capitale addizionale, quantità che nel processo di accumulazione diventa, a causa della crescita accelerata del capitale costante, sempre maggiore.
L’aumento della composizione organica del capitale è una tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico e rappresenta la causa delle crisi di sovrapproduzione che investono periodicamente la società capitalistica. Ciò vuol dire che l’accumulazione capitalistica è un processo gravido di crisi, anche se questo non significa che il crollo del sistema capitalistico debba sopravvenire “automaticamente”.
Per chi volesse approfondire il tema della caduta del saggio del profitto, e non volesse prendersi la briga di leggere la terza sezione del III Libro de Il Capitale (peraltro limpidissima), può leggere una mia volgarizzazione (qui).
Tratterò in altra occasione della distinzione tra capitale fisso (che spesso gli economisti confondono con il capitale costante) e circolante, del ciclo del capitale e della sua rotazione, del prezzo di costo.
(**) Ricardo non sarà in grado di andare oltre nell’indagine sull’origine del plusvalore. Marx a tale riguardo osserva: «Da nessuna parte Ricardo tratta il plusvalore separandolo e distinguendolo dalle sue forme particolari – profitto (interesse) e rendita. Perciò le sue considerazioni sulla composizione organica del capitale, che è di così decisiva importanza, sono limitate alle differenze tramandate da A. Smith, quali risultano dal processo di circolazione (capitale fisso e capitale circolante), mentre da nessuna parte egli tocca o conosce le differenze della composizione organica entro il processo di produzione vero e proprio. Donde la sua confusione tra valore e prezzo di costo, l’errata teoria della rendita, le errate leggi sull’aumento e la caduta del saggio del profitto, ecc.» (Teorie sul plusvalore, Meoc, XXXV, p. 406; oppure: Storia delle teorie economiche, Einaudi, 1955, II, p. 93.).
oasi, grazie
RispondiEliminasembra cosa assai sofisticata ma alla fine ci sono modi ben rozzi per arrivare al cambio di scala necessario.
RispondiElimina(per Erasmo: cambi di Scala) ciao
Il tuo sforzo di spiegazione è lodevole. Tuttavia, il problema non è tuo ma di Marx, vissuto troppo presto. Solo nel secolo XX si è bene enucleata la distinzione fra microeconomia e macroeconomia. Per quanto Keynes fosse un fighetta, occorre dargli il merito di avere fissato tale distinzione in modo stabile. Marx ci era già arrivato in modo intuitivo, ma, a mio modesto parere, non in modo sistematico.
RispondiEliminaLe argomentazioni sul saggio di profitto ne sono un esempio significativo. La caduta del saggio di profitto, vera o falsa che sia, è argomento di macroeconomia. Non può interessare il singolo capitalista, che ragiona sulla propria azienda e sui valori assoluti. E’ significativo questo passaggio:
Poiché nella concorrenza tutto appare sotto un aspetto sbagliato, e, più esattamente, rovesciato, il singolo capitalista può credere:
1. che diminuendo il prezzo egli riduce il suo profitto per ogni singolo prodotto, ma aumenta il suo profitto totale tramite la vendita di una quantità maggiore di esso,
2. che egli determina il prezzo del singolo prodotto ed ottiene il prezzo della produzione totale tramite una moltiplicazione, mentre la prima operazione che si deve fare è una divisione (vedi Libro I, cap. X) e la moltiplicazione è giusta solo come secondo stadio, sulla premessa di tale divisione.
Poco prima, aveva scritto: opinione che si basa sull’idea di profitto che deriva dalla vendita (profit upon alienation) che a sua volta proviene dalla concezione del capitale commerciale.
A questo approccio un po’ sprezzante mi riferivo l’altro giorno quando citavo ironicamente Elon Musk: il meschino gode di mettersi in tasca miliardi di dollari, e non si rende conto della rovinosa caduta del suo saggio di profitto.
Fuor di ironia: il capitalista intende il profitto come differenza fra ricavi e costi, opinione che si basa sull’idea di profitto che deriva dalla vendita (profit upon alienation). Può capitargli di calcolare male i costi, o peggio, di ottenere ricavi inferiori alle aspettative. In quel caso ci perde, plusvalore o no. Diverso è il discorso macroeconomico: in quella sede, ossia per interi settori industriali, l’andamento del saggio di profitto può essere di interesse, anche se non ho mai visto statistiche sul plusvalore complessivo.
Né, se è per questo, ho notizie di singoli capitalisti che richiedano ai propri contabili simili statistiche relative alla loro azienda.
il singolo capitalista conta quel che conta
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