Se non siete troppo presi dalla mortale noia dei notiziari deliro-pandemici, dalla lettura di questo post si può imparare qualcosa di nuovo su cui riflettere e magari prendere spunto, con ultronea spruzzata di curiosità, per ricerche su personaggi e situazioni d’altri tempi che non si replicheranno più.
Le autorità federali americane stanno scoprendo che “i produttori di tutto il paese per troppo tempo hanno dovuto affrontare un mercato che avvantaggia poche grandi aziende rispetto a quelle che producono il nostro cibo”. Chi l’avrebbe mai detto. La faccenda non riguarda solo le “grandi aziende” locali, ma implicita in tali preoccupazioni è la rimodulazione delle relazioni di potere nell’economia politica globale del cibo, tanto da richiamare l’applicazione del Packers and Stockyards Act (1921). Chissà cosa stavano facendo di bello finora al Dipartimento dell’Agricoltura e al Dipartimento di Giustizia mentre avvenivano mega fusioni come quelle tra Dow-Dupont o Bayer-Monsanto.
Quello dell’alimentazione, sarebbe meglio dire della fame e denutrizione, è un problema antico che le ultime generazioni dei paesi economicamente più sviluppati non hanno più avvertito in modo pressante come accadeva per le generazioni del passato; tuttavia, in un futuro non lontano il tema del cibo, della sua produzione e distribuzione, tornerà ad avere un ruolo economico e politico, dunque strategico, rilevantissimo anche nelle società opulente, nella speranza che non saranno vermi e cavallette a sostituire a colazione ostriche e caviale.
Abbiamo ripetuto per decenni ai cinesi che il capitalismo è il sistema economico migliore? Ci hanno preso in parola e nel post-maoismo hanno messo in moto l’immensa riserva di manodopera, allora giovane e in gran parte non qualificata, diventando la fabbrica del mondo, con godimento dei global player di ogni dove, ma soprattutto di matrice statunitense, e degli indici borsistici cui anche gli occhi a mandorla (si può dire?) si sentono particolarmente applicati.
È un capitalismo secondo il modello cinese, ossia guidato dallo Stato e improntato al neomercantilismo, con tutti i pregi e i difetti che ciò notoriamente comporta. Fatto sta che la Cina è emersa come potente attore anche nell’ambito di un sistema alimentare globale sempre più multipolare. È anche un importante snodo di capitali, che facilita fusioni e acquisizioni agroalimentari, nuovi flussi di commercio agroalimentare, tecnologia e capitale.
Perché stupirsi? Se i vertici del sedicente partito “comunista” cinese vogliono rimanere al loro posto, a cominciare dal presidente Xi che accarezza l’idea di un terzo mandato al prossimo XX congresso (numero fatidico?), devono garantire più di 4 miliardi di pasti giornalieri alla popolazione, alimentazione che è molto più variegata di quanto comunemente si creda in Occidente (non solo riso, cani e topi) e mediamente molto più abbondante di un secolo fa o anche solo di quando vestivano tutti con giacca zhongshang (*).
Questo è uno dei motivi, non certo secondario, per cui grandi aziende agroalimentari e chimiche cinesi di proprietà statale s’espandono e diventano globali. Partiamo da un esempio concreto e cospicuo: l’8 maggio 2021 è stata costituita la Sinochem Holdings attraverso la fusione di Sinochem Group Co e China National Chemical Corporation, più nota come ChemChina.
Sinochem Holdings è un’impresa statale con più di 220.000 dipendenti, con sede a Pechino. Opera in otto vasti settori di attività, che vanno dalla chimica di base, gomma, pneumatici, materiali fluoro-silicio, tecnopolimeri e additivi (è il più grande conglomerato chimico del mondo), macchinari e attrezzature (principale attore di mercato nel settore dei macchinari per la plastica), opere urbane (la controllata China Jinmao) e finanza industriale. Possiede centri di produzione, un’estesa rete di marketing e strutture di ricerca e sviluppo in più di 150 paesi e regioni in tutto il mondo.
Per esempio, Sinochem è il principale azionista di Pirelli. È leader nel settore dei prodotti agrochimici e nutrizione animale. Esempio: fa capo a Sinochem la “francese” Adisseo, leader nel settore dell’alimentazione animale. Se i francesi fanno shopping in Italia (vedi Lactalis), i cinesi lo fanno in Francia e ovunque trovino opportunità. A proposito del gruppo Lactalis, credo sia interessante leggere un breve post di 5 anni fa.
Sarebbe interessante raccontare in dettaglio la vicenda personale di Margarita Olegovna Bogdanova, la vedova Robert Louis-Dreyfus, che non era solo il maggior azionista della squadra dell’Olympique Marsiglia, ma anche il nipote di Louis Louis-Dreyfus, il “Re del grano”, quello del gruppo omonimo che nel 1900 era il più grande distributore di cereali al mondo e che anche oggi è tra quelli che dettano legge. Una vicenda familiare e societaria che s’intreccia con la Rivoluzione del 1917. Quante storie potrei raccontare sugli “ebrei erranti”, sefarditi, askenaziti e altro (nel blog ho dedicato diversi post agli “ebrei”, basta cercare), o leggere il librino di Joseph Roth, oppure attingere con cautela dal simpaticissimo Riccardo Calimani, figura mitica in quel di Venezia.
Nemmeno gli Usa scherzano. Prendiamo la Cargill: 155.000 dipendenti in 70 paesi, non è quotata in borsa ed è considerata l’azienda a controllo familiare più grande del mondo. È attiva principalmente nel settore alimentare. L’ADM, con sede a Chicago, opera su colture e mercati in sei continenti, con vendite nette per il 2019 di 65 miliardi. La Bunge è leader nel settore agroalimentare, alimentare e degli ingredienti, vale a dire soia, grano e fertilizzanti. 32.000 dipendenti, fatturato di 46 miliardi (2018). Quindi la Corteva Agriscience, oltre 20mila dipendenti (nata da una costola della citata Du Pont), è il più grande produttore statunitense del pesticida clorpirifos (sperimentato sui cani di razza beagle e finalmente vietato dall’anno scorso perché sospettato di causare problemi allo sviluppo neurologico nei bambini). Eccetera.
L’ondata di mega fusioni che ha travolto l’industria alimentare, agroalimentare e dalle sementi, ha accelerato il consolidamento e concentrato il potere di mercato nelle mani di poche società dominanti, che tengono in pugno le commodities di tutti questi settori produttivi e merceologici, trasporti compresi. I regolatori politici hanno fatto poco per frenare le fusioni in questi settori, cosa che comporta l’abbassamento dei prezzi pagati agli agricoltori per i raccolti e il bestiame, aumenterà i prezzi che i consumatori pagano per il cibo e limiterà le loro scelte. Nei suoi diversi aspetti, questo fenomeno si chiama monopolio, ed era noto fin dai tempi di Diocleziano e anche prima.
Non si tratta di essere corteggiatori di una parte o dell’altra, tantomeno di essere fanatici di una determinata tesi, bensì di prendere atto che ognuno degli attori del grande gioco tira l’acqua al proprio mulino. In Italia solo mulinelli, quelli della pozzanghera politica dove ognuno gioca ad avvicinare o ad allontanare il momento delle elezioni.
(*) La Cina avrà un problema non da poco, disponendo solo del 7% delle riserve idriche del pianeta, ma il 18% della sua popolazione, come rilevava l’ultimo governatore britannico di Hong Kong in un suo articolo sul Sole 24ore di martedì scorso. Per non dire dell’invecchiamento della popolazione, il più rapido del mondo, come già rilevava Kissinger nel suo libro del 2011 (Cina, Mondadori, p. 468). Per quanto riguarda la produzione, il consumo e l’esportazione di cereali, carni, zucchero e altre derrate alimentari dei paesi asiatici, americani ed europei, sono utilissime le tabelle del rapporto 2020 della FAO, tenendo conto, nel confrontare i dati, che la Cina ha 3,2 volte la popolazione della UE e 4,3 quella statunitense.
L'importante è la libera concorrenza.... Il Dio Mercato...
RispondiEliminaE il bello è che ci crediamo pure.