La
produzione capitalistica tende continuamente a superare le proprie
contraddizioni, ma riesce a superarle unicamente e momentaneamente con dei
mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.
Avendo
il capitale come suo scopo l’accrescimento illimitato della produzione, ossia la
produzione come fine a se stessa, pone lo sviluppo incondizionato delle forze
produttive sociali del lavoro permanentemente in conflitto con il suo fine
ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.
Infatti,
non bisogna mai dimenticare che scopo della produzione capitalistica non è il
processo vitale della società dei produttori, bensì la conservazione e la valorizzazione
del capitale, dunque la produzione è solo produzione per il capitale.
Storicamente
il modo di produzione capitalistico è un mezzo potente per lo sviluppo della
forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato
mondiale, ma esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo
compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.
Ed
è proprio su questo punto che cade ogni illusione borghese, laddove si ritenga
che tale compito storico di sviluppo della forza produttiva materiale e di
creazione di un mercato mondiale possa proseguire indefinitamente. Per altri
versi è illusione che il “capitalismo crollerà spontaneamente”, di modo da dover
praticare una collaborazione col nemico di classe sul piano del riformismo.
† † †
Vediamo
come nell’evoluzione della forza produttiva si sviluppa anche la composizione
superiore del capitale, con la diminuzione relativa della parte variabile (v)
in rapporto alla costante (c). Si giunge così ad una
diminuzione del saggio generale del profitto, poiché il plusvalore cresce
sempre meno del capitale complessivo (c + v).
In
altri termini, una massa determinata di lavoro vivo (lavoratori produttivi)
mette in azione, con lo sviluppo della produttività sociale, una massa di
lavoro morto (macchine, materie prime, ...) sempre maggiore. Poiché il saggio
del profitto è calcolato sul rapporto fra il pluslavoro (plusvalore) prodotto
dalla forza lavoro ed il capitale complessivo messo in opera, esso decresce con
lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (vedi qui).
Com’è
possibile, tuttavia, che un numero
(il saggio di profitto, esprimendo un rapporto tra due grandezze quantitative,
è una percentuale) provochi la crisi di un sistema economico reale?
In
effetti, scrive Marx, la “caduta del
saggio del profitto è così soltanto un indice che rinvia alla caduta relativa
della massa del profitto”. Infatti, il decrescere del saggio del profitto
non implica la diminuzione della massa di plusvalore prodotto, poiché
quest’ultimo può crescere in assoluto a condizione che “il capitale complessivo [cresca] in proporzione maggiore della diminuzione del saggio di profitto”.
In
proposito, Marx osserva che lo “stesso
sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime quindi, nel progresso
del mondo capitalistico di produzione, da un lato in una tendenza alla diminuzione progressiva del saggio del
profitto, e dall’altro in un incremento
costante della massa assoluta del plusvalore acquisito o del
profitto”.
Se
siete arrivati fino a qui, potrebbe sorgervi la domanda: come può il movimento crescente del profitto dar luogo alla crisi?
Se
la caduta del saggio del profitto è compensata dall’aumento del saggio del
plusvalore, quindi, dall’incremento complessivo del profitto, al capitalista
non converrebbe accumulare con una
rapidità sempre maggiore di quanto diminuisca il saggio del profitto?
È
proprio così che ragionano i padroni e i loro leccaculi, e, paradossalmente, è
proprio per questo che i loro problemi anziché risolversi, si aggravano!
Poiché
esiste un limite all’ulteriore estensione del plusvalore assoluto e di quello
relativo, si giunge egualmente ad un punto del processo di accumulazione in cui
la massa del plusvalore è insufficiente a valorizzare una massa ancora accresciuta di capitale
accumulato.
Il
saggio generale del profitto cade, quindi, perché – come dice Marx – “la massa del profitto diminuisce relativamente
al capitale anticipato: la diminuzione del saggio del profitto esprime il
rapporto decrescente tra il plusvalore stesso e il capitale complessivo
anticipato”. Quanto più si sviluppa l’accumulazione, tanto più il saggio
del profitto cade, in quanto la massa del profitto, pur potendo aumentare in
assoluto, aumenta in maniera insufficiente a consentire la valorizzazione del capitale sempre
crescente sulla base precedente: “l’estensione
della produzione e la valorizzazione” entrano in conflitto.
La
legge dell’aumento della composizione organica, infatti, non va analizzata esclusivamente
dal lato del valore, solo come aumento di (c) relativamente a (v),
ma anche dal lato della materia, come aumento della grandezza fisica dei mezzi
di produzione (Mp) relativamente
alla forza-lavoro che li attiva.
Oltretutto,
dal punto di vista quantitativo, Mp
cresce rispetto a L più rapidamente
di quanto (c) cresca in rapporto a (v), dal momento che, a causa dei
progressi tecnici, il costo dei mezzi di produzione si riduce dal punto di
vista del valore.
Ad
un determinato livello dell’accumulazione, quindi, la scala della produzione è data tecnicamente: poiché per la sua
espansione è necessaria una quantità definita
di capitale, la grandezza del plusvalore che si richiede per consentire la
valorizzazione non è arbitraria, ma sottoposta a vincoli tecnici.
L’estensione
della produzione richiede, ad esempio, l’acquisto di tutta una serie di
macchine complementari che costituiscono un’unità, per cui l’espansione
produttiva può essere data solo da questa unità o da un suo multiplo.
Le
difficoltà di valorizzazione, nelle fasi storiche di crescita del capitalismo,
si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole,
quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario
salto di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione.
Per
sovrapproduzione di capitale, peraltro, non s’intende sovrapproduzione di merci
(benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di
merci) ma sovraccumulazione di mezzi di produzione e sussistenza in quanto
questi possano operare come capitale.
Il
concetto di sovrapproduzione di capitale, scaturendo prima di tutto dal
processo di produzione, mostra – come dice Marx – in che modo “il vero limite
della produzione capitalistica è il capitale stesso” e come la crisi scaturisca
“dalla natura stessa della produzione
capitalistica, come necessità logica”.
Lo
sviluppo logico delle categorie economiche dimostra il carattere storico del
sistema capitalistico, e ciò significa, tra l’altro, che la crisi di
sovrapproduzione è un fenomeno tipico del capitalismo. E tuttavia il limite che
segna l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, il destino del modo di
produzione capitalistico, nella realtà concreta non coincide con il “crollo
spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del
modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento
reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne
riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più ricco della legge” (*).
Le
contraddizioni operano all’interno delle leggi del modo di produzione
capitalistico, e giungono a maturazione (massima divaricazione) nella fase
della sua crisi generale-storica. Questo processo, mentre da un lato crea le
condizioni materiali a un nuovo modo di produzione, dall’altro fa
sorgere nelle masse proletarie, le cui condizioni di vita si fanno sempre più dure,
il bisogno vitale di una
trasformazione rivoluzionaria. Tale processo, dal lato della lotta di classe, ha
subito per diversi motivi una fase d’arresto, è entrato, per così dire, in sonno,
ma i segni di un risveglio dell’antagonismo sociale sono già nelle cose.
(*)
La teoria marxiana della crisi, nella misura in cui nega la possibilità di uno
sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, disperde
le nebbie delle concezioni che deducono il superamento del capitalismo
dall’ingiustizia e dalle disuguaglianze sociali, o dal semplice squilibrio nel
ricambio organico con la natura, oppure dalla pura volontà rivoluzionaria del
proletariato, sia esso chiamato “moltitudine” o in altro modo.
questo bel post mi conferma che l'opera marxiana sia ancora tutta da scoprire nella sua freschezza e radicalità, non accettando mai le opzioni date che oscillano tra idealità (ricomporre lo iato tra storia e logica) e materialismo volgare (la dura realtà dello iato)
RispondiEliminacome lo dici bene, ma di ricomporre mi sa che interessa ben pochi. un pragmatismo e un cinismo esasperati domina su tutto
Eliminatempi pesi per le colombe: durano come i gatti sulla Aurelia...
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