Complessivamente
le perdite sul mercato azionario cinese sono state di 3mila miliardi di dollari
di capitalizzazione con un calo di circa il 30 per cento del prezzo dei titoli rispetto
al picco di un mese fa. La quantità di denaro bruciato è superiore alla
capitalizzazione dei mercati francese e spagnolo insieme, e quasi equivalente
al prodotto interno lordo della Germania, la quarta più grande economia del
mondo. Questo per dare l’idea di cosa sta succedendo in Cina, una delle
maggiori economie del mondo, la fabbrica-mondo.
Il
meccanismo di trasmissione principale per il sell-off cinese, cioè la massiccia vendita di titoli, è stato il forte
calo dei prezzi delle materie prime, in particolare per il rame e il minerale
di ferro le cui quotazioni avevano raggiunto prezzi irragionevoli, oltre che a
scontare la crisi di domanda. Va ricordato che la Cina oltre a essere
il più grande produttore di rame ne è anche il maggior acquirente. Ad ogni modo
dal punto di vista tecnico credo che questo post di Phastidio possa offrire
almeno l’idea di ciò che sta accadendo nelle Borse asiatiche e segnatamente in
quella cinese. E mette in luce anche quanto sia velleitario inseguire la
speculazione borsistica e tentare di indirizzarla dove non vuole andare.
Le autorità finanziarie cinesi hanno vietato ai principali azionisti, dirigenti
aziendali e agli amministratori di vendere le loro quote in società quotate per
un periodo di sei mesi. Il divieto è l'ultimo di una serie di mosse sempre più
disperate per cercare di fermare il crollo del mercato azionario cinese. Secondo
la nuova normativa, gli investitori che detengono più del 5 per cento in una
società devono mantenere le loro quote, mentre il divieto di vendita ai
dirigenti e membri del consiglio si applica a prescindere dalle dimensioni
delle loro aziende.
La
mossa era stata annunciata a seguito di un ulteriore calo dei prezzi delle
azioni dell’altro ieri, che aveva visto l’indice Shanghai Composite chiudere a
meno 5,9 per cento, dopo aver perso fino all’8 per cento durante il corso della
giornata. L'indice Shenzen aveva perso il 2,5 per cento. Ieri c’è stata
un’inversione di tendenza – la Banca Popolare della Cina sta aiutando la
statale China Securities Finance Corporation con massicce iniezioni di
liquidità – ma le enormi perdite delle settimane precedenti non saranno
recuperate e soprattutto i piccoli speculatori non si riprenderanno dalla
batosta.
Circa
il rischio finanziario sistemico, ovverosia l’impatto che questa situazione di
panico avrà nel medio periodo sull’economia mondiale, è presto per dirlo e
bisognerà attendere che cosa diranno Wall Street e Londra innanzitutto. Com’è
ovvio in simili casi gli investitori azionari e gli speculatori cercano di
sostenere le loro posizioni di liquidità immediata, mentre è chiaro che il
sell-off produrrà una crisi nel sistema finanziario cinese, portando a una
flessione economica. In altri termini, per banalizzare con un esempio, chi in
Cina ha perso non solo i guadagni realizzati in passato ma anche buona parte
del capitale investito (per non dire delle operazioni a debito) si preoccuperà
molto meno di acquistare vini francesi e altri prodotti sia locali che occidentali.
E tutto ciò avviene in un quadro di rallentamento dell’economia cinese.
La
radice principale e fondamentale della crisi che ora investe il mercato
azionario cinese non va cercata solo nell'economia cinese come tale, ma nella
crisi del sistema capitalistico globale che ha avuto inizio con la crisi finanziaria
del 2008.
Il
suo impatto sulla Cina è stato immediato. Per affrontare una crisi sociale
potenzialmente esplosiva, il regime cinese ha risposto con un pacchetto di 500
miliardi dollari di stimoli, accoppiato a una massiccia espansione del credito
alle autorità governative locali per intraprendere progetti di infrastrutture e
sviluppo immobiliare. Nuovi complessi urbani e, in alcuni casi, intere città, sono
sorti quasi da un giorno all’altro. Un mercato che in Cina ha enormi
potenzialità, ma non infinite (del resto i consumi interni sono ancora molto
contenuti).
Senza
dimenticare che nel 2013 il regime ha dato avvio a un nuovo orientamento
economico, dichiarando ufficialmente che da quel momento le forze di mercato
avrebbe giocato ancora più un “ruolo decisivo”. Il nuovo orientamento verteva su
due componenti principali: il diminuito intervento dello Stato nel controllo del
sistema finanziario, sempre più aperto ai flussi di capitali internazionali (e
i risultati, appunto, si vedono); l’aumento del livello di spesa per i consumi interni
(senza alzare adeguatamente i salari?).
La
strana cosa cinese, capitalismo di Stato e libero mercato, ha dato buoni frutti
fin quando si prefissava di dare slancio all’economia e di aprire l’enorme
mercato delle braccia allo sfruttamento, ma nel quadro di un mercato globale
prima o poi i nodi vengono al pettine e le leggi di processo si fanno rispettare.
Il
regime cinese, come del resto in occidente, ha coltivato la speranza che
l'economia mondiale stesse vivendo un rallentamento congiunturale, cioè una
crisi tradizionale di ciclo, e che presto sarebbe ripresa l’espansione. Come
spesso mi capita di scrivere – ma non vi sono più contatti da Pekino con questo
blog da quando non tratto più dello sviluppo della marina militare cinese – non siamo in
presenza di una crisi di ciclo, non almeno in senso classico. Siamo entrati
nella fase storica della crisi generale del modo di produzione capitalistico. Il
che non significa – diamoci animo cara Rosa Luxemburg – il “crollo” famigerato, tantomeno per domani mattina.
P.S.
: per chi nutrisse insane curiosità circa i rapporti sino-americani, segnalo questo non comune articolo del New York Times.
I nodi tornano al pettine, sì, e son pieni di pidocchi.
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