di Federico Rampini, Repubblica di ieri
NEW YORK Pochi giorni prima che
Barack Obama annunciasse la nuova, storica apertura all’immigrazione, ho
ricevuto la cittadinanza americana. A differenza dei cinque milioni di
immigrati senza documenti, a cui Obama ieri sera ha annunciato che non potranno
più essere espulsi, io sono diventato americano entrando dalla porta
principale. Avevo avuto la Green Card, residenza permanente, nel 2006. In base
alla legge, automaticamente dopo cinque anni maturavo il diritto a chiedere la
naturalizzazione (che non implica l’addio alla cittadinanza italiana: Italia e
Usa consentono la “doppia cittadinanza”). Cinque anni di Green Card, e questa
fabbrica di nuovi cittadini che è l’America, ti spalanca le porte per sempre.
Con una piccola complicazione, nel mio caso. La mia procedura è durata il doppio rispetto a quella dei miei figli. L’iter per ottenere la cittadinanza è semplice. La documentazione sul tuo status d’immigrato legale la spedisci per posta ordinaria. Lo U.S. Citizenship and Immigration Service ti convoca entro poche settimane per le impronte digitali e la fotoscansione dell’iride. Altra breve attesa, e arriva il momento dell’“ interview”, il colloquio. Nel 99% dei casi è una formalità di cinque minuti: un test elementare di lingua inglese, alcune domande sulla Costituzione e lo Stato di diritto. Prima di arrivare al colloquio, però, bisogna riempire un questionario. Come tutti i candidati, ho dichiarato «di non avere evaso le imposte, non avere commesso reati, non avere praticato la poligamia, il gioco d’azzardo illegale, non essere un prostituto né uno sfruttatore di prostitute, non essere un narco-trafficante». Né di essermi reso colpevole di «genocidio, tortura, persecuzione religiosa, guerriglia armata». Poi la domanda fatidica, per me. Sono mai stato iscritto a un partito comunista? Dopo tanti “No”, una croce sul “Sì”.
Da quel momento la pratica ha
avuto un iter diverso. I tempi si sono fatti più lunghi. Ho superato l’esamino
di inglese, Costituzione, diritti-doveri del cittadino. Ma a quel colloquio ne è
seguito un altro, ben più approfondito. Stavolta non davanti a un semplice
impiegato ma a un dirigente, in una stanza separata. Il funzionario Hernandez,
di origine ispanica, trentenne. Molto cortese, ha cominciato a interrogarmi sul
mio passato comunista. Facile ricordare le date della mia iscrizione al Pci:
dal mio arrivo in Italia per l’Università (1974) alla morte di Enrico
Berlinguer (1984). Più difficile condensare la storia di quegli anni e di quel
partito. Spiegare che non eravamo bulgari, non prendevamo ordini da Leonid
Breznev. Che nelle contrapposizioni della guerra fredda ci fu un “eurocomunismo”,
uno scisma dalla Chiesa sovietica. Che l’attuale presidente della Repubblica
italiana apparteneva a quel partito là, e tuttavia venne invitato a Washington
dal Dipartimento di Stato. Che Berlinguer disse di «sentirsi più al sicuro da
questa parte dell’Alleanza atlantica» (tra i mal di pancia della base).
Tutto questo ho dovuto riassumerlo
in modo comprensibile a un funzionario pubblico trentenne, nell’America del
2014. Non tutto sulla difensiva, sia chiaro. Alla domanda su cosa mi avesse «spinto
a diventare comunista», ho potuto spiegare: grosso modo le stesse aspirazioni
di giustizia sociale per cui Obama ventenne faceva il militante di quartiere a
Chicago. Hernandez prendeva appunti, faceva domande, chiedeva precisazioni
sulle date. Quando ho creduto di avere finito, ha detto: «Lei è disposto a
ripetere tutto questo sotto giuramento? Significa che, in caso di falso, avrà
commesso un reato». Ho alzato la mano destra per il giuramento. Ho ricominciato
daccapo. Lui ha trascritto tutto. Ha stampato la mia deposizione, me l’ha fatta
rileggere e firmare. L’ha aggiunta ordinatamente a un grosso faldone sul mio “caso”,
che mi è apparso solo a quel punto nella sua dimensione: chili di incartamenti.
Il 7 novembre alle 10 del mattino
sono stato convocato per la Oath Ceremony. Se ne svolgono in tutte le città d’America,
ogni mese, affollatissime. Nell’aula di tribunale della U.S. District Court, al
numero 500 della Pearl Street, Downtown Manhattan, eravamo in duemila per il
giuramento finale. Tanti ispanici, asiatici, africani. Accompagnati dai
familiari, coi vestiti della festa. La giudice ha fatto un bel discorso: «Siamo
una nazione di immigrati, mio marito ha acquisito la cittadinanza da adulto
come voi. Da oggi avete tutti i diritti e tutti i doveri degli americani. Vi
ricordo il più importante: il diritto di voto, per far pesare la vostra volontà
in questa democrazia». In coro abbiamo pronunciato il giuramento. Applausi e
qualche lacrima.
Ho ripensato al mio iter un po’ più
lungo, al suo anacronismo. Burocrazie e tecno-strutture hanno le loro
pesantezze, tendono a combattere ancora la penultima o terzultima guerra. Oggi
i pericoli più seri per la sicurezza degli Stati Uniti non vengono da ex
iscritti a partiti comunisti scomparsi. Neppure, credo, da quello cinese: l’indomani
del mio giuramento partivo al seguito di Obama per Pechino. Dove con la Cina ha
raggiunto un accordo importante per la riduzione dei gas carbonici. Un collega
inglese, corrispondente dell’ Independent, ha scherzato: «Ti hanno dato il
passaporto Usa giusto in tempo, ora da americano puoi chiedere l’asilo politico
in Cina». No, da italianoamericano, come adesso vengo definito, resto in
ammirazione verso questa fabbrica di cittadini unica al mondo. In cui Obama
annuncia un nuovo livello di apertura, cancellando l’incubo dell’espulsione
dalle vite di cinque milioni di onesti lavoratori.
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