martedì 4 novembre 2014

Non un abracadabra filosofico


Si può essere manager di successo, persone d’indubbie capacità creative ed imprenditoriali, ma tutto questo non c’entra nulla se si ha la faccia del coglione e soprattutto se si parla di cose che non si conoscono dicendo bischerate. È il caso, tra i tanti, di Lawrence "Larry" Page, co-fondatore di Google, il quale ha affermato, per la gioia d’innumerevoli analfabeti di tutto il mondo, quanto segue:

Peccato, la sinistra ha perso perché Marx non poteva immaginare l'avvento del microchip.

Anzitutto va rilevato che la sinistra non ha perso per via di Marx, e con il Grande Vecchio è da circa un secolo che non ha nulla a che fare, tantomeno ora che è defunta e sepolta sotto le macerie del riformismo, così come già prima sotto quelle della socialdemocrazia d'antan e poi dello stalinismo nelle sue diverse espressioni.



Quanto a Marx, egli sapeva bene che l’innovazione tecnologica avrebbe progressivamente trasformato il lavoro. Così come Darwin non dovette attendere le scoperte della paleontologia per formulare la sua teoria, allo stesso modo Marx non dovette attendere l’invenzione del microchip per scoprire le leggi che stanno alla base del modo di produzione capitalistico e con ciò il carattere storico e transitorio della forma valore. Tanto gli bastò per immaginare il futuro quale puntualmente esso si conferma in toto. Di seguito un breve scampolo di tale consapevolezza, ma ho forti dubbi che gente come Page riuscirà a comprendere, senza peraltro conoscere il grande lavoro d’analisi che precede tali formulazioni:

La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore.

L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.

Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.

[Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario.


Non dunque un abracadabra filosofico,  c o g l i o n i.

1 commento:

  1. Lotteranno sino alla fine, sorveglianti e padroni del capitale, per impedire la diffusione di tal consapevolezza.

    RispondiElimina