Si può essere manager di successo,
persone d’indubbie capacità creative ed imprenditoriali, ma tutto questo non
c’entra nulla se si ha la faccia del coglione e soprattutto se si parla di cose
che non si conoscono dicendo bischerate. È il caso, tra i tanti, di Lawrence
"Larry" Page, co-fondatore di Google, il quale ha affermato, per la
gioia d’innumerevoli analfabeti di tutto il mondo, quanto segue:
Peccato, la sinistra ha perso
perché Marx non poteva immaginare l'avvento del microchip.
Anzitutto va rilevato che la
sinistra non ha perso per via di Marx, e con il Grande Vecchio è da circa un secolo
che non ha nulla a che fare, tantomeno ora che è defunta e sepolta sotto le macerie del riformismo, così come già prima sotto quelle della socialdemocrazia d'antan e poi dello stalinismo nelle sue diverse espressioni.
Quanto a Marx, egli sapeva bene che l’innovazione tecnologica avrebbe progressivamente trasformato il lavoro. Così come Darwin non dovette attendere le scoperte della paleontologia per formulare la sua teoria, allo stesso modo Marx non dovette attendere l’invenzione del microchip per scoprire le leggi che stanno alla base del modo di produzione capitalistico e con ciò il carattere storico e transitorio della forma valore. Tanto gli bastò per immaginare il futuro quale puntualmente esso si conferma in toto. Di seguito un breve scampolo di tale consapevolezza, ma ho forti dubbi che gente come Page riuscirà a comprendere, senza peraltro conoscere il grande lavoro d’analisi che precede tali formulazioni:
La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme
sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa
fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di
produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come
incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto
al processo di produzione come sorvegliante e regolatore.
L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato
come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il
processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo
fra se stesso e la natura inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si
colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale.
In questa trasformazione non è né il
lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma
l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della
natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale —
in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il
grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del
tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come
una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel
frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.
Non appena il lavoro in forma
immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di
lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di
scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la
condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei
pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della
mente umana. Con ciò la produzione
basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale
immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
[Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del
tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un
minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico,
scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi
creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo,
per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre,
d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro
necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo
quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione
(question de vie et de mort) di quello necessario.
Non dunque un abracadabra filosofico, c o g l i o n i.
Lotteranno sino alla fine, sorveglianti e padroni del capitale, per impedire la diffusione di tal consapevolezza.
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