Leggo che il feticismo
tecnologico ha contagiato un po’ tutti. A questo proposito ho dedicato numerosi
post, cercando di evidenziare che non è lo sviluppo tecnologico causa delle
crisi, sia per quanto riguarda le crisi del passato così come per la crisi storica
del modo di produzione capitalistico di cui possiamo apprezzare il dispiegarsi degli
effetti in modo così evidente, tanto che anche le teste di rapa cominciano a
sospettare qualcosa e taluni anche ad inquietarsi.
Tranquilli, non è la fine del capitalismo,
ma solo l’inizio, come direbbe il presidente del consiglio pro tempore. Portare
il progresso tecnico sul banco degli imputati della crisi del modo di
produzione capitalistico è un giochetto vecchio di quei birbanti di borghesi. Che
cosa diceva a tale proposito la vecchia barba?
Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere
sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della
produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali,
e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le
forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di
combatterlo.
Anzitutto va rilevato che il
cosiddetto "progresso tecnico" è semplicemente "progresso delle
tecniche capitalistiche", e ogni feticizzazione della tecnica serve alla
borghesia per mascherare il suo giuoco. Infatti, dal lato della classe operaia,
il "progresso tecnico" si manifesta come aumento della produttività e
dell'intensificazione del lavoro; dal lato del capitale, invece, come
accrescimento del tempo di pluslavoro. Come si vede, uno stesso fenomeno
provoca non solo differenti interpretazioni, per quanto la borghesia intenda
spacciarlo univocamente come “progresso sociale”, ma soprattutto due diverse determinazioni concrete.
A tale riguardo, è altresì
necessario rilevare che il modo di produzione capitalistico poggia su una
contraddizione essenziale, ossia quella tra valore d'uso e valore di scambio. A
sua volta questa contraddizione, reale, rimanda ad un’altra, che riguarda il
duplice carattere del lavoro, ossia di lavoro concreto e di lavoro astratto.
Il lavoro astratto prima di
essere una forma di pensiero è una forma della realtà oggettiva, una
“astrazione” oggettiva che si compie quotidianamente nella realtà stessa dello
scambio. Il lavoro astratto, universalmente umano, è quell’alcunché di comune –
il dispendio di forza lavoro umana – contenuto nei differenti lavori che
producono le varie merci, che crea valore di scambio ed opera nel processo di
valorizzazione. Esso fa la sua comparsa soltanto in una formazione sociale
storicamente determinata, quella capitalistica.
Come dice la vecchia barba già
all’inizio del suo inutile librone, “un valore d’uso o bene ha valore soltanto
perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente
umano”. Poco dopo, parlando del carattere feticcio della merce e del suo
arcano, scrive: “Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti
lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello
scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno”.
Come detto, ci troviamo di fronte
a una contraddizione reale, di cui peraltro il pensiero comune non ha chiara
consapevolezza: nella società capitalistica l’attività concreta dei produttori
non è direttamente lavoro sociale, ma privato;
è costituita cioè dal lavoro mediante lo scambio di un produttore individuale
di merci, che organizza autonomamente la propria attività economica. E questo
lavoro privato può diventare sociale solo in quanto viene equiparato ad ogni
altro mediante lo scambio dei prodotti come valori. Sociale è considerato il lavoro in rapporto al lavoro complessivo
della società.
In altri termini, nel
capitalismo, il lavoro privato non
diviene sociale in quanto lavoro concreto, che produce valori d’uso, ma in quanto lavoro astratto. Il lavoro
dell’operaio cinese che produce smartphone non diventa sociale perché il
telefono è utile per comunicare, ma solo perché quei telefoni vengono
equiparati come valori ad una data somma di denaro, e attraverso il denaro,
come equivalente universale, ad ogni altro prodotto.
Come insegna il Vecchio, il
lavoro diventa sociale solo perdendo la
sua forma concreta determinata, solo trasformandosi da lavoro concreto in
lavoro astratto.
Come ho già avuto modo di
scrivere, ma è sempre utile ripetere, l'opposizione interna tra valore e valore
d'uso rinchiusa nella merce riveste un’importanza fondamentale nel capitalismo,
sia perché è sulla distinzione tra valore
d'uso e valore di scambio della forza-lavoro che si fonda l'intera società
capitalistica, il suo sviluppo e la sua rovina, sia perché la
contraddizione interna alla merce rimanda al duplice carattere del lavoro di
cui s’è detto, vale a dire al movimento in senso inverso della massa dei valori
d'uso, da una parte, e dei valori, dall'altra, in seguito all'aumento della
forza produttiva del lavoro.
Con lo sviluppo della grande
industria e la sussunzione della scienza nel capitale aumenta enormemente la
forza produttiva del lavoro. Se la produzione di valori d’uso tende a scindersi
dal tempo di lavoro vivo, quest’ultimo continua tuttavia a permanere, in quanto
misura del valore di scambio, come unica fonte di valorizzazione del capitale.
Ma poiché nel capitalismo gli oggetti d’uso disponibili dipendono dalle
esigenze del capitale, il cui scopo è direttamente il valore e non il valore
d’uso, la produzione di valori d’uso si restringe quando le merci non possono
realizzarsi come valori, cioè quando il capitalista non è più in grado di
realizzare il plusvalore contenuto nelle merci.
Ed è questa la causa delle
periodiche crisi capitalistiche come le abbiamo conosciute in passato. La
ricchezza non viene creata non perché non ci siano bisogni umani da soddisfare (durante
le depressioni aumenta il numero dei poveri), ma perché non vengono soddisfatti
i bisogni del capitale. È il modo di concepire e di misurare la ricchezza che
impedisce il suo estendersi all’intera società come ricchezza reale, come “universalità dei bisogni,
delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc., degli individui;
pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze naturali, tanto su quelle
della cosiddetta natura, che su quelle della sua propria natura” (*).
La contraddizione tra valore
d’uso e valore è la contraddizione
fondamentale del capitalismo, che, con la crescita dell’accumulazione, pone
le premesse per la sua negazione, in quanto lo sviluppo delle forze produttive
entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di
produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti (**). “Questi
rapporti – scrive Marx –, da forme di sviluppo delle forze produttive, si
convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
(*) Il passo integrale tratto dai
Grundrisse è questo:
Ma in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è
la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti
delle forze produttive, ecc, degli individui, creata nello scambio universale?
Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della
natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria
natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative,
senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se
stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze
umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non
si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità?
(**) Poiché nel modo di
produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo per
il processo di valorizzazione (e in tal senso vanno viste le tendenze
necessarie ad accorciare il tempo di lavoro per mezzo dello sviluppo della
tecnica), ne consegue che la contraddizione tra valore d'uso e valore di
scambio tende a divaricarsi sempre più con lo sviluppo della tecnologia
applicato alla produzione. Tale dinamica
è alla base della crisi generale storica del modo di produzione capitalistico.
Ciò che è in radice alla crisi,
dunque, non è lo sviluppo tecnologico, ma il fatto che esso avvenga entro le forme del modo di produzione
capitalistico.
"Ciò che è in radice alla crisi, dunque, non è lo sviluppo tecnologico, ma il fatto che esso avvenga entro le forme del modo di produzione capitalistico."
RispondiEliminaCiò che è con evidenza in linea con l'asservimento della ricerca scientifica nell'invenzione di strumenti e armi sempre più potenti per il dominio di zone il più possibile estese del pianeta su cui viviamo - o la gara che c'è stata tra le due superpotenze per il dominio dello spazio sulle nostre teste. Si sa che molte scoperte che poi vengono affinate per usi civili sono state messe a punto dalla scienza applicata alla guerra. Gli stessi computer con cui stiamo comunicando hanno avi nati in questo modo.
Vero è che l'uso degli scienziati per la produzione di strumenti idonei al dominio da parte di chi aveva il potere di farlo è fenomeno antico.
Il grande Vecchio, come lo chiami, aveva ben altri orizzonti per la scienza, in un sistema come quello ora, ancora, dominante. "... il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura...". Il dominio sulle forze della propria natura suona meno bene del dominio sulle forze della natura, ma nel quadro dell'uomo che "produce la propria totalità" non sa di repressione come unica possibilità per noi umani di stare in società.
Olimpia, riflettevo su quanto avevi scritto e, a proposito di "... il lavoro dell’operaio cinese che produce smartphone non diventa sociale perché il telefono è utile per comunicare, ma solo perché quei telefoni vengono equiparati come valori ad una data somma di denaro, e attraverso il denaro, come equivalente universale, ad ogni altro prodotto." mi sono chiesto - non so rispondermi e ti chiedo: gli smatphones mi pare siano diventati uno strumento di controllo della popolazione, sia per scopi commerciali in base alle scelte di navigazione come avviene con i computers - su questa base stanno studiando il modo di allestire i negozi on line con esposizione personalizzata delle merci, così ti mettono sotto il naso quello che può agganciarti, personalizzazione impossibile per i negozi fisici - sia per scopi di spionaggio o di polizia - possono sapere dove stai anche se hai lo smartphone spento, l'unica possibilità di sfuggire al controllo è togliere la bateria. Cioè, diversi valori d'uso dello stesso oggetto-merce, per cui, oltre il valore d'uso di comunicazione tra persone, la produzione privata usa gli smartphones per uso privato, commerciale, e gli stessi sono usati anche dallo stato per controllo e spionaggio. Produzione privata, valore di scambio che astrae dall'uso pratico, e diversi valori di uso, sia privati che statali?
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