mercoledì 5 novembre 2014

Signori, non è solo un difetto di distribuzione


Quanto e come si è reso conto dell’ingiustizia che tutto quello rappresentava?
Molto tardi, lo confesso. È stato quando ho visto alcuni fare soldi mentre altri morivano nelle trincee. Lì, davanti agli occhi l’avevi, e non potevi farci niente. […] la coscienza sociale mi è arrivata davvero in ritardo. Non ne avevo, ero rassegnato.
Da un’intervista a Luis-Ferdinand Céline.

*

Non c’è giornale oggi che non pubblichi il suo bravo editoriale dedicato alla situazione economica e alle sue nere prospettive. Non c‘è uno solo di questi chiacchieroni che non abbia da proporre le sue ricette “per uscire dalla crisi”. E sappiamo bene di quale fascio di ricette si tratti. Non ce n’è uno che possa scrivere: da questa crisi non si esce con l’ordinario e nemmeno pensando cose straordinarie; il sistema non funziona, prendiamone almeno atto. Manca l’onestà per dire queste cose? Non è questa la ragione per cui in questo tempo disordinato si evita come la peste questa presa d’atto pubblica, e in fondo in fondo non si tratta neppure di coraggio e del più prosaico motivo che hanno tutti una famiglia.



Sono stupidi? Non direi, eccetto qualcuno, ma si comportano come se tutti lo fossero. E per quale motivo, allora? Cristo santo, sono spaventati, confusi, sperano nell’arma segreta, in un nuovo Messia. Prendiamo i leader politici, si riuniscono attorno a una tavolo, ognuno a recitare la parte in commedia, alle prese col proprio “marciume”, come l’ebbe a definire la Merkel, con lo zero virgola. La cancelliera è arrivata al punto di chiedersi se siano sbagliate le teorie economiche o se ci si sia rivolti alla persone sbagliate. Ciò rivela la misura delle loro contraddizioni, l’incapacità non solo di governare i processi, ma di comprenderli nella loro effettiva dinamica e realtà storica.

Sono queste “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie e l’audaci imprese” di un’epoca tanto singolare.

In Giappone, così come altrove, stampano moneta, ma questi soldi non finiscono nelle tasche della gente, entrano nel circuito finanziario, nel “marciume”, e non ne escono più. Alimentano la liquidità e questo eccesso fa cadere i tassi d’interesse, questa caduta provoca deflazione. È una spirale, da cui non si esce. Chi l’avrebbe detto solo qualche anno or sono: potessimo avere un po’ d’inflazione! Sono sempre e ancora quelli che credono di poter risolvere la crisi agendo sulla moneta e la sua circolazione.

*

Se l’uno per cento della popolazione mondiale più ricca possiede una ricchezza pari a quella di miliardi di persone più povere, è evidente che già questo fatto indica una contraddizione molto semplice: il capitalismo accelera la socializzazione della produzione portandola a livelli elevatissimi e storicamente inediti, ma la ricchezza sociale – quella creata da miliardi di salariati nella fabbrica mondo – continua ad essere appannaggio di pochi individui. Si tratta dunque di un difetto di distribuzione come intendono e vorrebbero farci credere in molti? Manco per idea. Ricchezza e povertà rappresentano i termini estremi di una contraddizione più profonda. Questa polarizzazione rappresenta il fenomeno nella sua casualità, non la causa nella sua necessità.

Poniamo pure che la distribuzione della ricchezza possa avvenire in modo più equo, che l’evasione fiscale sia ridotta allo zero, che i comportamenti dei cosiddetti agenti economici siano responsabili, poniamo insomma che tutto avvenga secondo le prescrizioni del gretto empirismo dei Gallino e dei Piketty, e secondo l’etica di santa romana chiesa. Ciò non sarebbe senza effetti, mettere mano sulla ripartizione del bottino non è cosa da buttar via, ma si tratterebbe di una condizione temporanea, posto che essa sia realizzabile. Tuttavia il carattere peculiare del modo di produzione capitalistico non verrebbe meno per questo impulso salvifico verso la “giustizia sociale” e per una più equa distribuzione dei profitti, né per altri versi sotto la stessa logica sarebbe possibile portare a livelli accettabili (per chi?) il tasso di disoccupazione.

Per rifarmi al post precedente, in tema di disoccupazione da un lato e innovazione tecnologica dall’altro, credo sia percepibile ormai anche dal senso comune che nello stadio del dominio reale del capitale la logica dello sviluppo (condizione, forme, settore di applicazione) delle macchine (siano esse quelle elettromeccaniche di un tempo o quelle computerizzate del presente), così come dell’applicazione tecnologica della scienza, è tutta interna al processo di valorizzazione. Tale logica risponde alla duplice esigenza di ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario, e di assumere il controllo sui lavoratori. L’aumento della forza produttiva del lavoro e la riduzione del lavoro necessario ad un minimo è la tendenza necessaria del capitale.

Si tratta di una tendenza esplosiva che porta in sé il germe della dissoluzione del capitale “in quanto forma che domina la produzione”. E ciò è prova ancora una volta, come sosteneva mio zio, di quanto il capitale sia esso stesso “contraddizione in processo”. Esso pone il tempo di lavoro come suo unico elemento determinante; ma, per accaparrarsi quote crescenti di plusvalore relativo, esso è costretto, in seguito all’assorbimento progressivo delle conoscenze scientifiche e applicazioni tecnologiche nel sistema delle macchine, a ridurre il lavoro produttivo a proporzioni sempre più esigue.

Nel momento stesso in cui s’accresce la massa dei valori d’uso in seguito all’aumentata produttività del lavoro, si riduce il tempo di lavoro necessario alla loro produzione e, dunque, il valore di scambio in essa contenuto. È a questo punto che il senso comune si smarrisce soggiogato com’è alla mistificazione dell’ideologia borghese. Poiché nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo per il processo di valorizzazione, ne consegue che la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio tende a divaricarsi sempre più.

E dunque, la dinamica divaricantesi tra valore d’uso e valore di scambio nella massa di merci prodotte, conseguente alla sostituzione di lavoro vivo con sistemi di macchine, è alla base della crisi generale storica del modo di produzione capitalistico. La Merkel, come chiunque, non può farci nulla, figuriamoci degli stupidi.

Per coloro che fossero presi da dubbi sul presunto carattere deterministico di quanto esposto, così come per coloro che stessero muovendo i primi timidi passi  incontro alla conturbante concezione dialettica della realtà, desidero rassicurarli: riconoscere la contraddizione dialettica, l’interazione reciproca tra forze produttive e rapporti di produzione, quale base oggettiva della crisi del modo di produzione capitalistico, non comporta alcuna concessione al determinismo, in quanto si tratta se non altro di prendere atto delle latenze già maturate e imprigionate dalla realtà.



4 commenti:

  1. Avendo perso la bussola probabilmente non conoscono altri strumenti per orientarsi.

    Michele

    RispondiElimina
  2. Probabilmente no. Pensano di riuscire a trovare un percorso che li porti fuori dai guai senza pero' mettere in discussione nulla.

    Michele

    RispondiElimina