Quanto e come si è reso conto dell’ingiustizia che tutto quello
rappresentava?
Molto tardi, lo confesso. È stato quando ho visto alcuni fare soldi
mentre altri morivano nelle trincee. Lì, davanti agli occhi l’avevi, e non
potevi farci niente. […] la
coscienza sociale mi è arrivata davvero in ritardo. Non ne avevo, ero
rassegnato.
Da un’intervista a Luis-Ferdinand Céline.
*
Non c’è giornale oggi che non pubblichi
il suo bravo editoriale dedicato alla situazione economica e alle sue nere
prospettive. Non c‘è uno solo di questi chiacchieroni che non abbia da proporre
le sue ricette “per uscire dalla crisi”. E sappiamo bene di quale fascio di
ricette si tratti. Non ce n’è uno che possa scrivere: da questa crisi non si
esce con l’ordinario e nemmeno pensando cose straordinarie; il sistema non
funziona, prendiamone almeno atto. Manca l’onestà per dire queste cose? Non è
questa la ragione per cui in questo tempo disordinato si evita come la peste
questa presa d’atto pubblica, e in fondo in fondo non si tratta neppure di
coraggio e del più prosaico motivo che hanno tutti una famiglia.
Sono stupidi? Non direi, eccetto qualcuno, ma si comportano
come se tutti lo fossero. E per quale motivo, allora? Cristo santo, sono spaventati,
confusi, sperano nell’arma segreta, in un nuovo Messia. Prendiamo i leader politici, si riuniscono
attorno a una tavolo, ognuno a recitare la parte in commedia, alle
prese col proprio “marciume”, come l’ebbe a definire la Merkel, con lo zero
virgola. La cancelliera è arrivata al punto di chiedersi se siano sbagliate le
teorie economiche o se ci si sia rivolti alla persone sbagliate. Ciò rivela la
misura delle loro contraddizioni, l’incapacità non solo di governare i
processi, ma di comprenderli nella loro effettiva dinamica e realtà storica.
Sono queste “le donne, i
cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie e l’audaci imprese” di un’epoca tanto
singolare.
In Giappone, così come altrove,
stampano moneta, ma questi soldi non finiscono nelle tasche della gente,
entrano nel circuito finanziario, nel “marciume”, e non ne escono più.
Alimentano la liquidità e questo eccesso fa cadere i tassi d’interesse, questa
caduta provoca deflazione. È una spirale, da cui non si esce. Chi l’avrebbe
detto solo qualche anno or sono: potessimo avere un po’ d’inflazione! Sono sempre
e ancora quelli che credono di poter risolvere la crisi agendo sulla moneta e
la sua circolazione.
*
Se l’uno per cento della
popolazione mondiale più ricca possiede una ricchezza pari a quella di miliardi
di persone più povere, è evidente che già questo fatto indica una
contraddizione molto semplice: il capitalismo accelera la socializzazione della
produzione portandola a livelli elevatissimi e storicamente inediti, ma la
ricchezza sociale – quella creata da miliardi di salariati nella fabbrica mondo
– continua ad essere appannaggio di pochi individui. Si tratta dunque di un
difetto di distribuzione come intendono e vorrebbero farci credere in molti? Manco
per idea. Ricchezza e povertà rappresentano i termini estremi di una contraddizione
più profonda. Questa polarizzazione
rappresenta il fenomeno nella sua
casualità, non la causa nella sua necessità.
Poniamo pure che la distribuzione
della ricchezza possa avvenire in modo più equo, che l’evasione fiscale sia
ridotta allo zero, che i comportamenti dei cosiddetti agenti economici siano
responsabili, poniamo insomma che tutto avvenga secondo le prescrizioni del
gretto empirismo dei Gallino e dei Piketty, e secondo l’etica di santa romana
chiesa. Ciò non sarebbe senza effetti, mettere mano sulla ripartizione del
bottino non è cosa da buttar via, ma si tratterebbe di una condizione
temporanea, posto che essa sia realizzabile. Tuttavia il carattere peculiare del modo di produzione capitalistico non
verrebbe meno per questo impulso salvifico verso la “giustizia sociale” e per
una più equa distribuzione dei profitti, né per altri versi sotto la stessa
logica sarebbe possibile portare a livelli accettabili (per chi?) il tasso di
disoccupazione.
Per rifarmi al post precedente, in
tema di disoccupazione da un lato e innovazione tecnologica dall’altro, credo sia
percepibile ormai anche dal senso comune che nello stadio del dominio reale del
capitale la logica dello sviluppo (condizione, forme, settore di applicazione)
delle macchine (siano esse quelle elettromeccaniche di un tempo o quelle
computerizzate del presente), così come dell’applicazione tecnologica della
scienza, è tutta interna al processo di
valorizzazione. Tale logica risponde alla duplice esigenza di ridurre
incessantemente il tempo di lavoro necessario, e di assumere il controllo sui
lavoratori. L’aumento della forza produttiva del lavoro e la riduzione del
lavoro necessario ad un minimo è la tendenza
necessaria del capitale.
Si tratta di una tendenza esplosiva che porta in sé il
germe della dissoluzione del capitale “in quanto forma che domina la
produzione”. E ciò è prova ancora una volta, come sosteneva mio zio, di quanto
il capitale sia esso stesso “contraddizione in processo”. Esso pone il tempo di lavoro come suo unico elemento
determinante; ma, per accaparrarsi quote crescenti di plusvalore relativo, esso
è costretto, in seguito all’assorbimento progressivo delle conoscenze
scientifiche e applicazioni tecnologiche nel sistema delle macchine, a ridurre il
lavoro produttivo a proporzioni sempre più esigue.
Nel momento stesso in cui
s’accresce la massa dei valori d’uso in seguito all’aumentata produttività del
lavoro, si riduce il tempo di lavoro necessario alla loro produzione e, dunque,
il valore di scambio in essa contenuto. È a questo punto che il senso comune si
smarrisce soggiogato com’è alla mistificazione dell’ideologia borghese. Poiché
nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo
come mezzo per il processo di valorizzazione, ne consegue che la contraddizione tra valore d’uso e valore di
scambio tende a divaricarsi sempre più.
E dunque, la dinamica
divaricantesi tra valore d’uso e valore di scambio nella massa di merci
prodotte, conseguente alla
sostituzione di lavoro vivo con sistemi di macchine, è alla base della crisi generale
storica del modo di produzione capitalistico. La Merkel, come chiunque, non
può farci nulla, figuriamoci degli stupidi.
Per coloro che fossero presi da
dubbi sul presunto carattere deterministico di quanto esposto, così come per
coloro che stessero muovendo i primi timidi passi incontro alla conturbante concezione dialettica della realtà,
desidero rassicurarli: riconoscere la contraddizione dialettica, l’interazione
reciproca tra forze produttive e rapporti di produzione, quale base oggettiva
della crisi del modo di produzione capitalistico, non comporta alcuna
concessione al determinismo, in quanto si tratta se non altro di prendere atto
delle latenze già maturate e imprigionate dalla realtà.
Avendo perso la bussola probabilmente non conoscono altri strumenti per orientarsi.
RispondiEliminaMichele
ma sanno dove stanno andando?
EliminaProbabilmente no. Pensano di riuscire a trovare un percorso che li porti fuori dai guai senza pero' mettere in discussione nulla.
RispondiEliminaMichele
infatti
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