Scrivevo ieri, a proposito di “libertà e uguaglianza”, che si tratta in genere di goffe esercitazioni scolastiche di coloro che vorrebbero, a parole e molto meno nei fatti, farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà.
Soggiungevo che senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico.
Esempi se ne potrebbero fare molti, uno dei più classici riguarda il rapporto tra padrone e salariato. Partiamo dal Codice Civile del 1804, detto anche Codice Napoleonico, che tanta parte ha avuto nell’informare il diritto civile moderno. L’articolo 1781 regolava i rapporti tra padrone e lavoratore: “Il padrone si crede sulla sua affermazione, per l’ammontare della paga, per il pagamento della retribuzione dell’anno trascorso e delle rate corrisposte per l’anno in corso”.
In altre parole, il padrone beneficiava di una presunzione di credibilità e spettava al dipendente dimostrare il contrario. Questa disuguaglianza di discorso tra padrone e lavoratore la dice lunga sulla visione del legislatore dell’epoca, più preoccupato degli interessi dei proprietari che di quelli dei lavoratori. Il diritto del lavoro verrà costruito lentamente, con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra padrone e lavoratore, allontanandosi dal diritto comune che si basa sul principio ottimistico che due contraenti sono su un piano di parità. Cosa che non avviene nel mondo del lavoro poiché il proletario è in una posizione di inferiorità rispetto a chi ha il potere di assumerlo e licenziarlo a suo piacimento.
Il diritto attuale, almeno in linea teorica e di principio, tende a tenere conto delle molteplici forme di disuguaglianze tra gli individui, e in qualche modo si sforza di limitarne le conseguenze più gravi, consolidando i diritti dei più deboli e attenuando la posizione egemonica dei più forti. Bellissima ambizione, che però non può in alcun caso superare la contraddizione che sta alla base dei rapporti sociali tra le classi.
Questo discorso sull’uguaglianza, tanto cara al liberalismo progressista, si può estendere a ogni aspetto dei rapporti di classe. Nella realtà di ogni giorno, le cose stanno diversamente. Basti pensare ai tagli di spesa che riguardano la sanità pubblica e al fatto che ciò favorisce quella privata. Nessun problema per chi è ricco o benestante, costoro possono accedere benissimo alle cure della sanità privata. Lo stesso vale per la scuola: che senso ha aiutare le famiglie dei bei quartieri a iscrivere i propri figli alle scuole private visto che comunque possono accedervi?
Ora, apparentemente, salto di palo in frasca, parando di diritti e di uguaglianza in rapporto alla vicenda che vede da quasi ottant’anni contrapporsi israeliani e palestinesi. Si tratta della stessa logica che sottende il diritto privato borghese, la stessa retorica sull’uguaglianza basata su una disparità di fatto che non può essere in alcun modo colmata nell’ambito dei rapporti di proprietà borghese.
La settimana scorsa, mentre noi tutti (o quasi) eravamo impegnati a stabilire se i fascisti nostrani siano davvero fascisti oppure solo l’espressione di una deriva fascistoide, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato contro un progetto di risoluzione che proponeva di garantire alla Palestina la piena adesione alle Nazioni Unite. Il che avrebbe portato al riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese. Gli Stati Uniti hanno usato il loro veto per opporsi all’adozione di questa risoluzione e il loro vice ambasciatore, Robert Wood, lo ha giustificato in questi termini: “Questo voto [statunitense] non riflette l’opposizione a uno Stato palestinese, ma tale riconoscimento può nascere solo attraverso negoziati diretti tra le parti”.
Non abbiamo l’impressione di leggere un passo dell’antico Codice napoleonico del 1804? Le controversie tra padrone e dipendente saranno risolte dai rapporti di forza tra loro, senza interventi esterni per riequilibrare le disuguaglianze tra le due parti.
Si tratta dello stesso ragionamento che il diplomatico americano ha adottato per palestinesi e israeliani: sono su un piano di (fittizia) parità e dunque solo dei “negoziati diretti tra le parti” decideranno l’esito della loro disputa. Nessuno terzo, nessun esterno al conflitto potrà agire per ristabilire un giusto equilibrio nelle loro relazioni. Che vinca il migliore, il più forte prevalga (tra l’altro con l’aiuto di armi e dollari statunitensi) e che il più debole scompaia per sempre.
Il liberalismo anglosassone si applica qui con incrollabile cinismo: ognuno deve difendersi da solo (se è palestinese), senza interventi esterni, senza l’aiuto di altri Stati, senza il sostegno di un’autorità internazionale riconosciuta. Il libero mercato in tutta la sua asettica crudeltà.
I palestinesi devono far valere i loro diritti contro lo Stato israeliano sulla base di una palese disuguaglianza, illustrata dalle decisioni della Corte Suprema israeliana che quasi sempre respinge i ricorsi presentati dai palestinesi espropriati delle loro terre dai coloni (coloni!). Poi, se reagiscono contro questi e altri soprusi e violenze, diventano dei terroristi che meritano l’annientamento con le armi generosamente fornite dai Ponzio Pilato statunitensi ed europei.
Magari fossero rami, purtroppo sono armi. (nel finale)
RispondiElimina😄
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EliminaE morale della favola: L'ONU può anche essere chiusa, abolita.
RispondiEliminaNon serve ad un casso, tranne che a dare una facciata di perbenismo e democraticita ai padroni del mondo!
🙃
EliminaUna volta, per combattere e cancellare uno stato di apartheid occorrevano un Fidel, un Arafat, un Gheddafi, gli unici amici al mondo di Mandela, (a suo dire!) ho la dichiarazione e le foto che lo attestano. C’è qualcuno oggi da queste parti che “onorerebbe” un Mandela?
RispondiEliminaBonste