Nel 1945, le capacità industriali degli Stati Uniti erano cresciute nel corso della guerra a tal punto che rappresentavano circa il 35% della produzione mondiale. Gli Stati Uniti furono in grado di usare la loro forza economica per ricostruire il capitalismo mondiale. Non lo fecero per altruismo, ma perché la stabilizzazione del capitalismo in Europa e in Asia si adattava agli interessi americani. Se l’Europa e il resto del mondo fossero stati riportati alle condizioni degli anni Trenta, l’economia americana, dipendente dall’espansione del mercato mondiale, avrebbe dovuto affrontare un disastro anche più grave di quello vissuto nel decennio precedente.
Nel marzo del 1945, William Clayton, sottosegretario di Stato agli affari economici, in un discorso al Congresso contro i sostenitori delle tariffe doganali elevate, avvertiva che “la pace nel mondo sarà sempre gravemente compromessa dal tipo di guerra economica internazionale che è stata condotta così amaramente tra le due guerre mondiali”, e che “la democrazia e la libera impresa non potranno sopravvivere a un’altra guerra mondiale”.
Da anni, gli Stati Uniti stanno portato avanti una guerra economica (ma non solo economica se facciamo mente alla vicenda del Nord Stream 2) che colpisce allo stesso modo alleati e rivali imponendo o minacciando tariffe doganali. Si tratta delle stesse politiche tariffarie che crearono le forti tensioni commerciali degli anni Trenta e che gli architetti dell’accordo di Bretton Woods avvertirono avrebbero portato a una nuova catastrofe.
Il sistema di Bretton Woods (1944) mirava a ripristinare il sistema finanziario internazionale distrutto dalla Grande Depressione degli anni ’30. Fu stabilito che il dollaro USA avrebbe funto da valuta globale, sostenuto dall’oro al tasso di 35 dollari l’oncia.
Il ruolo del dollaro americano ha fornito enormi vantaggi agli Stati Uniti, permettendo di accumulare deficit e debiti, gran parte dei quali sono stati utilizzati per finanziare le spese militari e le guerre, in un modo impossibile per qualsiasi altra economia.
Quel sistema era segnato da una profonda contraddizione che fu identificata all’inizio degli anni ’60. Il funzionamento del sistema richiedeva un deflusso di dollari dagli Stati Uniti verso il resto del mondo per finanziare il commercio e gli investimenti. Allo stesso tempo, l’accumulo di dollari al di fuori degli Stati Uniti minato la capacità americana di convertirli in oro. E accadde proprio questo: le banche centrali europee (ma non solo) iniziarono a riscattare dollari in oro alla fine degli anni ’60 (provocando una corsa al prezzo e il collasso del London Gold Pool), e in tal modo il sistema di Bretton Woods iniziò a sgretolarsi.
Il punto di svolta arrivò quando la bilancia commerciale degli Stati Uniti divenne negativa, portando il presidente americano Nixon a rimuovere la copertura aurea dal dollaro il 15 agosto 1971. Da allora, il mondo ha operato con il dollaro come valuta globale fiat (cartamoneta). A differenza dell’oro che incarna valore, i dollari cartacei non hanno alcun valore intrinseco. Possono funzionare come moneta mondiale, facilitando il commercio, gli investimenti, il credito e fungendo da riserva di valore nella misura in cui sono sostenuti dal potere economico dello stato americano e del suo sistema finanziario.
Il potere del dollaro è stato gravemente scosso dalla crisi finanziaria globale del 2008, originata dall’orgia speculativa delle banche statunitensi, che, senza il massiccio intervento della Federal Reserve, avrebbe portato al collasso del sistema finanziario mondiale.
Da allora si sono verificati altri shock importanti, tra cui quello avvenuto nel marzo 2020, all’inizio della pandemia. Il mercato dei titoli del Tesoro statunitense si è bloccato per diversi giorni – non c’erano acquirenti per il debito statunitense, ritenuto l’asset finanziario più sicuro al mondo – e la Fed è dovuta nuovamente intervenire per un importo di circa 4mila miliardi di dollari.
L’accumulo del debito pubblico statunitense sta diventando rapidamente insostenibile, supera il PIL combinato di Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito. Le più recenti proiezioni del Congressional Budget Office (CBO) collocano il debito degli Stati Uniti al 99% del PIL alla fine di quest’anno e oltre il 100% nei prossimi anni.
È vero che la metà dei titoli di debito sono detenuti dal settore privato statunitense (se c’è un grande debito c’è un grande credito, il grosso del malloppo è in mano a un esiguo numero di patrizi che controllano le società finanziarie), poiché è ritenuto un investimento a basso rischio (gli Stati ne beneficiano due volte perché gli interessi che pagano al settore privato vengono a loro volta tassati e la liquidità rimane entro i loro confini), tuttavia si tratta di un mercato due volte più importante di quello delle azioni e gli investitori, non solo quelli esteri, potrebbero allontanarsi dai titoli del Tesoro statunitense (con rendimenti che sfiorano il 5%, con riflessi su un’ampia gamma di asset) per diversi motivi legati al clima di incertezza sia interna che globale (*).
Può sembrare che il sistema finanziario operi in qualche modo ben al di sopra della realtà economica, assumendo addirittura una sorta di carattere illusorio poiché le banche centrali creano denaro dal nulla con la semplice pressione di un pulsante del computer. Tuttavia, in ultima analisi, prima o poi il sistema finanziario è chiamato a fare i conti con l’economia reale.
L’impennata del prezzo dell’oro, da circa 1.800 dollari lo scorso anno a quasi 2.400 dollari attuali, è un segnale da non sottovalutare e che ci parla, tra i tanti altri fatti, del “mondo nuovo” al quale stiamo andando rapidamente incontro.
(*) Parlando in generale, in passato il graduale aumento della spesa pubblica era controbilanciato dalle entrate fiscali (da qui la tenuta del livello del debito pubblico). A partire degli anni ’70, la spesa pubblica ha continuato a crescere, mentre le entrate fiscali sono rimaste stagnanti (da qui l’aumento dei livelli di debito pubblico). Negli ultimi decenni è stata la sostanziale stagnazione del gettito fiscale (in rapporto al Pil e al netto degli sgravi) e non l’aumento della spesa pubblica a portare all’accumulo di debito pubblico (anche in Italia, con pressione fiscale percentualmente elevata e però a fronte di una elevatissima evasione).
"Tuttavia, in ultima analisi, prima o poi il sistema finanziario è chiamato a fare i conti con l’economia reale."
RispondiEliminaDovrebbe fare un post su questo punto.
GGM