Il modo di produzione capitalistico ha cominciato a diventare dominante da un paio di secoli (un battito di ciglia nella storia del genere umano) ed è stato dato per spacciato più volte e ciò nonostante appare vivo e trionfante. Nonostante le sue ricorrenti crisi, alcune davvero devastanti, perché finora non è collassato? Marx, se fosse vissuto più a lungo, questa domanda se la sarebbe posta?
Marx non usa mai nei suoi scritti la parola “capitalismo”. Non nel Manifesto, né in Per la critica dell’economia politica, né nei tre libri de Il Capitale e nemmeno nella Critica al programma di Gotha, eccetera. Né mai si definirà “anticapitalista”. Fatto singolare, vero? Ma solo apparentemente.
Marx preferisce la locuzione “modo di produzione capitalistico”, specie quando fa riferimento alle sue “leggi”, che sono diventate tanto più “pure” quanto più il modo di produzione capitalistico si è sviluppato e quanto più completamente si è sbarazzato delle contaminazioni e complicazioni dei residui stadi economici precedenti [*].
Marx elaborò la parte fondamentale della sua critica dell’economia politica attorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, e pubblicò la sua opera più importante nel 1867. Allora il capitalismo era solo all’inizio della sua massima espansione e sviluppo, come ci ricorda Hobsbawm. Negli anni seguenti Marx dovette occuparsi dell’Associazione internazionale dei lavoratori e in generale della lotta politica, quindi dei suoi ricorrenti malanni fisici e dei suoi affanni familiari.
Dunque, Marx non si occupò del “collasso” del capitalismo, non solo perché sopraggiunse prematura la sua morte nel 1883, ma perché del modo di produzione borghese aveva messo alla luce il suo principale arcano, le conseguenti tendenze e contraddizioni, e pertanto bastava. Non era un profeta, ma un uomo di scienza.
L’essenza del capitalismo si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e dunque il capitalismo dovrebbe tendere verso una sempre maggiore privatizzazione della produzione, con sempre più mercati e sempre meno intervento statale. Marx sosteneva che la privatizzazione di tutte le condizioni per la riproduzione del capitale rappresenti un grado più elevato del suo sviluppo: “La rinuncia ai lavori pubblici da parte dello Stato e il loro passaggio nell’ambito dei lavori intrapresi in proprio dal capitale, è un indice del grado in cui la comunità reale si è costituita sotto forma del capitale” (MEOC, XXIX, p. 464).
Lo sviluppo del capitalismo presuppone l’estensione dei campi di redditività, come l’investimento nei servizi sociali, dalla sanità all’istruzione, quindi in tutti i settori spesso attribuiti allo Stato: «Il capitale raggiunge il suo massimo sviluppo quando le condizioni generali del processo sociale di produzione vengono istituite non ricorrendo al prelievo del reddito sociale, alle imposte dello Stato [...] bensì al capitale in quanto capitale» (Ibid., pp. 465- 66) [**].
Queste cose Marx le scriveva nei Grundrisse negli anni Cinquanta. Quanto a “visione” non era secondo a nessuno. A sentire oggi le sue parole sembra uno degli strenui fautori dell’iper-liberismo, ma in realtà Marx delineava il processo storico del capitale nella sua determinazione ineluttabilmente più avanzata.
Socializzandosi, il capitale si trasforma qualitativamente. La competizione produce il suo opposto, la concentrazione. La tendenza principale nella storia del capitalismo andrebbe dalla libera concorrenza, dal mercato dei produttori privati al monopolio e infine al capitalismo di Stato, forma di transizione verso il socialismo. Si dirà: predomina oggi il capitale, specie nella sua forma finanziaria, non la “politica”, ossia lo Stato. Apparentemente: meno Stato e più mercato è solo una balla. Il controllo degli istituti statuali è fondamentale sia nel processo di accumulazione e sia nell’organizzazione sociale. Cina, Usa, Russia e non meno le monarchie del petrolio lo stanno mettendo in chiaro.
Lungi dal realizzare la sua essenza, il capitale la demolisce attualizzandola: «Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito del modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da sé stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata» (Il Capitale, III, cap. 27).
Questa accozzaglia di titolari di funzioni è ormai estranea al funzionamento del capitale produttivo; nessuno è in senso stretto borghese, proprietario dei mezzi di produzione, ormai detenuti da grandi banche e società di investimento, persone giuridiche nel senso del diritto. Da tempo assistiamo, come Marx aveva intuito, a una nuova fase storica basata sulla subordinazione del capitale industriale a quello finanziario e al rafforzamento della sussunzione reale del lavoro da parte del management.
Noi vediamo chiaramente come il nesso sociale della produzione si impone esclusivamente come legge naturale onnipotente che si oppone non solo alla libera volontà dell’individuo, ma agli interessi della collettività nel suo insieme. Nella Cina odierna il capitalismo di Stato si coniuga efficacemente con il più sfrenato capitalismo privato. Lo schema della purezza impedisce la comprensione della storia del capitalismo, dell’alternanza di fasi di statizzazione e di “liberalizzazione”.
Lungi dall’essere un’anticamera del socialismo, il capitalismo di Stato fu fin dall’inizio un’alternativa interna a un capitalismo irriducibile alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Oggi il capitalismo di Stato cinese “riformato”, assimila socializzazione e nazionalizzazione, in favore di una definizione statalista del socialismo (il rovesciamento consapevole e intenzionale del capitalismo di Stato nel socialismo è una cazzata), che l’ortodossia credeva potesse essere tratta da Marx (sic!), e che si rivelò falsa fin dall’inizio della rivoluzione russa (almeno in ciò Trotskij ebbe ragione).
Il capitale si realizza attraverso l’autodistruzione, perché entra in contraddizione con il suo stesso scopo, lo sviluppo delle forze produttive sia materiali che sociali: “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono» (ibid., cap. 15).
Tradendo la sua missione storica, il capitalismo si condanna alla morte. I limiti della valorizzazione «si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a sé stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente» (Ibid.).
Il modo di produzione capitalistico ha già sviluppato le sue contraddizioni, non è certo ancora nel suo stato più puro di innocenza verginale, e tutti i suoi antagonismi sono stati sviluppati. Il capitale può avere un futuro, ma non può avere un avvenire, non può che ripetere i suoi antagonismi aggravandoli: “La produzione capitalistica tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più ampia» (ibid.; MEW, 25, p. 260).
Marx non ebbe occasione di vedere all’opera l’impiego dell’energia elettrica, senza la quale il capitalismo sarebbe rimasto un modo di produzione in embrione; tuttavia sapeva che non vi è alcun limite superiore all’espansione del processo di sviluppo, tra l’altro perché il capitale può sempre rilanciare la sua produzione producendo nuovi mezzi di produzione.
Le dinamiche del capitalismo oggi sono quelle previste da Marx. È l’articolazione di tutte queste tendenze che detta il movimento reale del capitalismo. Abbandonato al solo gioco delle leggi del suo dominio, il capitale si muoverebbe verso la regressione o la stagnazione, e invece combatte le proprie tendenze rilanciando l’accumulazione e la concorrenza su basi nuove. Producendo le proprie contraddizioni, il capitale non produce necessariamente la sua caduta, perché produce soluzioni che sostituiscono i suoi antagonismi.
Ma vi sono dei limiti reali e non solo logici, Marx ne era pienamente consapevole. Un esempio di ciò è dato dai limiti ecologici del capitalismo agricolo: «il sistema capitalistico ostacola una agricoltura razionale, ovvero quest’ultima è incompatibile col sistema capitalistico (benché esso ne favorisca lo sviluppo tecnico), e che ad essa sia necessaria l’opera del piccolo proprietario che lavora in proprio ovvero il controllo dei produttori associati» (III, cap. 6).
Il capitalismo può utilizzare soluzioni tecniche e delegare la cura del suolo ad agricoltori o cooperative responsabili, andando quindi oltre il modello di una agricoltura smodatamente intensiva, che avvelena la terra e i suoi prodotti? L’agricoltura capitalistica implica non un’impossibilità tecnica, ma il divorzio tra agricoltura razionale e agricoltura intensiva subordinata al vantaggio della grande proprietà fondiaria capitalistica, la quale «riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita» (III, cap. 47).
Il discorso sui “limiti” può ampliarsi e includere tutti i discorsi che ogni giorno facciamo sulla nostra situazione ormai disperata e disperante, che solo chi vuole essere orbo non vede. Il tema riguarda poi sempre la libertà dell’individuo: «Il regno della libertà comincia solo dove cessa il lavoro, che è determinato da una necessità e da una finalità imposta dall’esterno; esso si colloca quindi per sua natura al di fuori della sfera della produzione materiale propriamente detta».
Il capitalismo ha accresciuto la nostra dipendenza da questa necessità esterna naturale aumentando i bisogni: «Col suo sviluppo, questo regno della necessità si allarga con l’espansione dei bisogni; ma allo stesso tempo le forze produttive si espandono per soddisfarli», scriveva questo gigante del pensiero oltre 150 anni fa. Il modo di produzione capitalistico ha allentato la morsa della necessità, senza abolirla. Anzi, ha reso assolutamente necessario il superfluo fino all’inverosimile.
La prospettiva di Marx implicava una necessità storica lineare che portava il modo di produzione capitalistico al suo stesso superamento nella libera pratica umana, finalizzando la produzione materiale. Questa marcia necessaria alla libertà può essere solo il risultato di tendenze multilineari, della lotta che poggia sulla contingenza dei rapporti di potere, sempre se ci sarà dato il tempo e troveremo la volontà di trasformare i rapporti degli uomini con la natura e i rapporti degli uomini tra loro.
«La lotta delle classi come conclusione in cui si risolve il movimento e la soluzione di tutta questa merda» [***].
[*] Il modo determinato in cui gli uomini producono e riproducono la loro vita immediata, e cioè la struttura dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in cui essi operano ad ogni determinato grado di sviluppo delle forze produttive è ciò che chiamiamo modo di produzione. Tra i modi di produzione fondamentali che hanno preceduto quello capitalistico ricordiamo il modo di produzione della comunità primitiva, il modo di produzione schiavistico, il modo di produzione feudale. Altre aree come l’Egitto, l’India, la Cina, hanno conosciuto altri modi di produzione, come quello “asiatico”, ad esempio. La successione dei modi di produzione non segue un ordine ovunque necessario e non sono tutti necessariamente presenti in ciascuna linea di evoluzione delle formazioni sociali.
[**] MEW, 42, p. 437: «Die Ablösung der travaux publics vom Staat und ihr Ubergehn in die Domäne der vom Kapital selbst unternommnen Arbeiten zeigt den Grad an, wozu sich das reelle Gemeinwesen in der Form des Kapitals konstituiert hat».
Ibid., p. 438: «Die höchste Entwicklung des Kapitals ist, wenn die allgemeinen Bedingungen des geseüschaftUchen Produktionsprozeß nicht aus dem Abzug der gesellschaftlichen Revenu hergestellt werden, den Staatssteuern [...] sondern aus dem Kapital als Kapital».
[***] Lettera di Marx ad Engels del 30 aprile 1868. Nella MEOC, vol. XLIII, p. 81, i puristi traduttori italiani hanno svolto “merda” in “porcheria”: «... der Klassenkampf als Schluß, worin sich die Bewegung und Auflösung der ganzen Scheiße auflöst (MEW, 32, p. 75).»
molto bello. Si muove in contraddizione, si elide… Serve uno scatto umano infine, enorme
RispondiEliminaOstia, di solito capisco. Si vede che stavolta ero distratto. Riproverò.
RispondiEliminaHai ragione. Da domani i miei post saranno comprensibli anche senza leggerli.
EliminaA parte gli scherzi, l'ho riletto, e ho capito un po' di più. Mi pare che ci siano spunti assai interessanti, soprattutto sul tema della "socializzazione" e della finanziarizzazione. Effettivamente, i passi di KM che tu citi potrebbero essere esempi di preveggenza. Però, mentre Marx poteva permettersi di fare un ragionamento esclusivamente qualitativo, nel momento in cui le previsioni sembrano avverarsi non è sufficiente fermarsi lì. In particolare, mi piacerebbe vedere una quantificazione della socializzazione, ossia quanta parte del capitale costante e del profitto sia attribuibile al capitalismo di Stato, o come lo si vuole chiamare. (Tu certo ricordi il mio lamento di non avere mai visto, in un secolo e mezzo, uno straccio di dato sul plusvalore. Cazzo, se è "valore" sarà esprimibile in moneta, o no?)
RispondiEliminaTornando alla socializzazione, mettiamola così. In Italia la pressione fiscale è ufficialmente il 43%, ma sappiamo che è assai di più. Il ragionamento sulla "socializzazione " porterebbe a individuare in questo importo di 800-1000 miliardi la torta a cui accede il capitalismo socializzante (non tutto, visto che i vigili urbani e gli impiegati del catasto partecipano anche loro alla spartizione). Piacerebbe sapere quale porzione viene fagocitata, e come. È solo un banale conteggio degli appalti?
Il plusvalore c’entra ovviamente. Una parte va reinvestita nella produzione, il resto dipende da come lo utilizzi. Non è vero che non si può contabilizzare: profitti, quindi dividendi e rendita.
EliminaFacciamo l’esempio dell’Urss. Se parti da una situazione dove devi costruire su una società semifeudale e con decine di milioni di miserabili e analfabeti, uscita da un conflitto bellico sanguinoso, da una riduzione importante del proprio territorio, quindi da una guerra civile devastante oltre ogni dire; se devi impiantare un’industria di base e tutte le infrastrutture di una società civile, è chiaro che ti trovi di fronte a difficoltà a dir poco enormi. Non c’è margine per distribuire socialmente il plusvalore se non in servizi essenziali.
Se poi devi affrontare un’altra guerra, ancora più sanguinosa e devastante della precedente, seguita da un dopoguerra dove c’è da ricostruire mezza Europa, con un confronto con l’occidente che in realtà è una pace armata, c’è davvero da restare increduli che l’Urss ce l’abbia fatta. Pertanto, se le condizioni di partenza sono queste, non puoi pretendere che la struttura sociale e politica non ne risenta in maniera decisiva. Naturalmente non cerco di giustificare lo stalinismo e le gigantesche mende di quel sistema, ma è ovvio che su tali basi oggettive non costruisci il “socialismo”.