Uno dei Leitmotiv che accompagnano il trionfalismo ideologico neoliberista riguarda le migliori condizioni di vita raggiunte da gran parte della popolazione mondiale negli ultimi decenni. Cosa sostanzialmente vera, ma che non va accolta con troppo positivo semplicismo.
Se guardiamo il grafico del PIL relativo ai Paesi dell’Ocse, esso si presenta da decenni tendenzialmente in calo. Viceversa, il grafico che riguarda il PIL mondiale mostra tutt’altro. Ovvio che nei Paesi a più antica industrializzazione, dove le infrastrutture sono state in gran parte realizzate, dove la popolazione gode già mediamente di uno standard di vita migliore e dove le produzioni vengono delocalizzate, il tasso di crescita risulti molto meno accentuato che nei Paesi in via di sviluppo.
Tuttavia lo sviluppo non può essere ridotto alla crescita del PIL pro capite; la sua misurazione richiede un’ampia gamma di indicatori. Il PIL pro capite e i risultati in termini di benessere non sono sempre collegati. La misura in cui la crescita del PIL si traduce in progressi nel benessere varia in modo significativo. In alcuni casi, non ha nemmeno alcun impatto in questo senso.
Esempio, la Cina. Ha ridotto la povertà estrema della sua popolazione, riducendola dal 67% al 2% tra il 1990 e il 2013, ovvero da 755 milioni a 25 milioni di individui. Anche il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà estrema al di fuori della Cina è stato ridotto di 337 milioni tra il 1990 e il 2013, nonostante la rapida crescita della popolazione (dati della Banca Mondiale 2018).
Tuttavia, questi grandi progressi economici degli ultimi due decenni e la continua crescita di alcuni dei paesi più poveri del pianeta non sono sufficienti per superare la povertà estrema. In Africa, ad esempio, sebbene la popolazione in condizioni di povertà estrema sia diminuita in termini relativi (dal 56% nel 1990 al 43% nel 2012), è aumentata significativamente in termini assoluti durante questo periodo, sotto l’effetto della rapida crescita demografica del continente (dati 2016).
Secondo il World Poverty Clock (WPC), circa 630 milioni di persone vivevano ancora al di sotto della soglia di povertà estrema di 1,90 dollari al giorno. Più di un terzo di essi è concentrato in tre paesi: Repubblica Democratica del Congo, India e Nigeria. Nonostante una crescita del PIL superiore alla media globale del 3% tra il 2010 e il 2017 in diversi paesi in via di sviluppo, si prevede che il numero di poveri aumenterà ulteriormente in 15 paesi entro il 2030, anno target degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Inoltre, in 12 paesi, più della metà della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
La povertà non è l’unico fattore da considerare; la distribuzione dei benefici della crescita all’interno dei paesi gioca un ruolo altrettanto importante. La disuguaglianza di reddito è aumentata in paesi come Cina e India, nonostante la crescita del PIL. Il peggioramento della disuguaglianza, come è ormai noto a tutti, riguarda anche le economie più sviluppate, dove sono i più ricchi, ma non i poveri, a diventare più ricchi (*).
Dunque se è vero che in generale che la crescita economica ha un ruolo nella riduzione della povertà monetaria estrema, non meno vero è il fatto che in tutto il pianeta la forbice tra ricchi e poveri si sta divaricando sempre di più. Questo è anche un motivo per non classificare i paesi in base al loro reddito, che non è un buon indicatore del livello di disuguaglianza.
Non si osserva alcuna stretta correlazione tra il reddito nazionale lordo pro capite e il coefficiente Gini dei paesi, un indicatore standard della disuguaglianza di reddito. Non sorprende che il 13% dei paesi ad alto reddito presenti livelli di disuguaglianza che potrebbero essere riscontrati nelle economie a basso reddito. Inoltre, quasi la metà dei paesi a reddito medio presentano livelli elevati di disuguaglianza (con un coefficiente di Gini superiore a 0,4), tanto che diversi paesi che sono passati al gruppo a reddito medio negli ultimi decenni hanno registrato una crescita accompagnata da un aumento significativo della disuguaglianza.
Quando ci concentriamo sul benessere degli individui in una società, PIL e PIL pro capite sono concetti fuorvianti, senza perciò negare una correlazione trasversale tra PIL pro capite e indicatori di benessere, che però sono solo una parte dell’equazione (vedi l’aspettativa di vita). Ad esempio, il PIL pro capite non può essere confuso con il reddito, il calcolo del PIL include il reddito dei non residenti, in particolare delle società multinazionali che, come sappiamo, i loro profitti li fanno “viaggiare” come vogliono.
Il modo di produzione capitalistico, qualunque idea si possa avere di esso e in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, ha le sue inderogabili leggi. Tra esse, quelle della concentrazione e centralizzazione dei capitali, ma la più importante resta quella dell’accumulazione. E questa legge riguarda lo sfruttamento senza risparmio delle risorse naturali e la spremitura fino all’ultima goccia di sudore e sangue dei suoi schiavi. Che lo sviluppo della produttività del lavoro per mezzo della tecnologia possa comportare un aumento del benessere generale non rientra necessariamente tra gli obiettivi dei padroni e degli azionisti, i quali vedono nel formicaio umano solo dei produttori e poi degli acquirenti delle loro merci.
(*) In Cina, il benessere non ha mostrato quasi alcun progresso prima del 1940, ma la presa del potere da parte dei maoisti nel 1949 ha cambiato la situazione. Nel 1958, la Cina lanciò la politica del “Grande Balzo in avanti”, un vasto programma economico e sociale che ebbe termine nel 1962 con risultati disastrosi. In seguito l’aspettativa di vita cominciò ad aumentare drasticamente (da 33,7 anni negli anni ’30 a 65,4 anni negli anni ’70). Da allora l’incremento ha subito un rallentamento, raggiungendo i 73,9 anni nel 2000. Il livello di istruzione è il secondo fattore nel rapido progresso del benessere in Cina. Ciò si spiega con i massicci investimenti statali nell’istruzione e con l’importanza delle spese sostenute dai genitori cinesi per l’istruzione dei propri figli. Introdotta nel 1979, la politica del figlio unico è stata forse lo strumento più efficace per rafforzare gli investimenti familiari nell’istruzione.
riciclo unn mio vecchio commento:
RispondiEliminaLa Globalizzazione ha portato alla Glebalizzazione. È vero che ha fatto diminuire la povertà e distribuito la ricchezza, ma come sempre in maniera disuguale: È aumentata la ricchezza dei già ricchi, ed è stata redistribuita solo la parte che spettava ai lavoratori con una politica di diminuzione dello stato sociale, aumentando le disuguaglianze e producendo rabbia, rancore, livore, odio e razzismo. D’altro canto, la garanzia dei Diritti delle Persone(Dichiarazione Universale) è stata estesa a qualsiasi società di persone, gruppo associato, associazione, situazione patrimoniale, consorzio, società di capitali o altra organizzazione, o qualsiasi entità governativa, entità immortali enormemente potenti che sono in grado di pianificare e decidere isolati dalla fastidiosa influenza dei lavoratori. Redistribuire vuol dire estendere a tutte/i servizi sociali, leggi ambientali e diritti a scapito dei già ricchi.
Il problema non è solo la ridistribuzione, per come ci ha insegnato la titolare del blog: per come produci ridistribuisci.
EliminaAG
E Olympe ha ragione. Ha ragione se la ridistribuzione dovesse essere fatta, nel contesto descritto, dai pupazzi politici manovrati dai ricchi.
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