martedì 5 febbraio 2013

La fine della storia secondo le pantegane borghesi



Marco Aurelio nel VI libro osservava come alcune cose tendono a divenire, altre a essere divenute, e di ciò che diviene una parte è già spenta; ma proprio questo scorrere e mutarsi senza fine rinnova di continuo il mondo, come il perenne volgersi del tempo fa sempre nuova l’eternità infinita. Nonostante questa saggia riflessione, ogni epoca storica ha concepito se stessa come l’ultimo e definitivo gradino della storia, in salita ovviamente! Più corretto sarebbe dire che le classi dominanti concepiscono se stesse, e di conseguenza le forme sociali corrispondenti alla propria situazione storica, non come un grado di svolgimento transitorio, ma all'inverso come forma assoluta e definitiva d’approdo. Ciò appare tanto più vero – come ebbe a osservare Marx – nelle fasi nelle quali la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati (*).

Nell’Ottocento e nel Novecento, con il rapido sviluppo dell’industria e gli incredibili progressi della scienza, la percezione fu quella che il capitalismo, la società borghese, non potesse che riprodursi ed espandersi all’infinito. Una convinzione che si radicò tanto più dopo il superamento della grave crisi degli anni Trenta e la fine del secondo conflitto mondiale, ed ebbe poi un altro forte momento di enfasi – dopo il prolasso tra gli anni Sessanta e Settanta – ossia con la fine dei sistemi sociali dell’Est Europa. Si parlò allora della “fine delle ideologie” e qualcuno sproloquiò anche di “fine della storia”, come se quei sistemi fossero stati essenzialmente il portato di una determinata ideologia, genericamente intesa come ideologia comunista, cosa più apparente che effettiva. Che quei sistemi economici e sociali fossero invece il portato dell’ineguale sviluppo di un medesimo processo storico mondiale, a molti non pare possibile.

Non è però il caso di liquidare con troppa leggerezza le teorie borghesi che interpretano la storia dell'umanità come un unico processo di evoluzione che termina alla fine del XX secolo. Esse prendono spunto dal fatto che sarebbero i principi del liberalismo a dettare l'evoluzione, contrassegnata e spinta dalla forza della razionalità. Si tratta, come si vede, di un punto di discussione vero e che merita una riflessione anche perché si tratta di una concezione della storia, di una filosofia della storia, che trova numerosi proseliti e diffusori.

Partiamo dal concetto di razionalità sotto la cui spinta i principi del liberalismo starebbero a segnare l’evoluzione storica. Ciò che è razionale si rivela anche in ultima istanza come necessario, e noi sappiamo che tutto ciò che è stato reale nell’ambito della storia umana è diventato col tempo irrazionale, quindi già irrazionale in potenza, per proprio destino. Pertanto tutto ciò che è esistito in passato era degno di perire. E fin qui ci siamo. Tuttavia, secondo la concezione che conclama la “fine della storia”, tutto ciò è valido fino alla fine del XX secolo, cioè fino al momento in cui è giunta al culmine l’evoluzione umana, il punto d’approdo che guarda caso coincide con un determinato stadio dello sviluppo capitalistico.

Sì, lo so, quella di Fukuyama è una concezione filosofica da scuola media, ma vale la pena concludere.

In altri termini, secondo tale concezione il filo conduttore dell’evoluzione storica è la liberazione dell’uomo così come essa può dirsi raggiunta con i principi del liberalismo dati e raggiunti una volta per sempre nell’ambito del modo di produzione capitalistico (detto tra parentesi, Fukuyama è uno che non ha mai visitato – ripeto: visitato – un laboratorio manifatturiero). Anche se questa teoria non lo dice, nel far consistere la fine della storia nel fatto che il genere umano giunge al termine della sua evoluzione con la fine XX secolo, tale concezione pone un termine definitivo a tutti i caratteri del pensiero e dell’attività umana. Noi invece sappiamo che la liberazione dell’uomo è tutt’altro che raggiunta, avviluppata com’è nelle contraddizioni della società del profitto, e che resta fermo e inappagato il bisogno imperituro dello spirito umano, per dirla con la terminologia cara all’idealismo, di rimuovere tutte le contraddizioni che lo mantengono prigioniero dei più grevi interessi particolari.

La vera conoscenza positiva della realtà storica – ossia la concezione del mondo basata su una determinata interpretazione, vale a dire, da un lato, tra la materia e lo spirito, e, dall’altro, sui rapporti sociali effettivi – ha altri presupposti. Così come in natura, anche nella storia la realtà degli uomini, che pure in origine è un prodotto della natura, esiste indipendentemente da ogni filosofia, da ogni concezione assoluta e definitiva della storia stessa. La prossima rivoluzione sociale metterà d’un canto tutte queste idee definitive – tendenti ad avvallare il dominio di una classe sulle altre – con la stessa disinvoltura con la quale esse sono state partorite nei laboratori dell’ideologia borghese. La realtà della rivoluzione non troverà spiegazione nelle idee astratte ma dalla necessità stessa nata dalle contraddizioni della società attuale.

(*) Tale considerazione appare nel Poscritto del 1873 alla II ed. de Il Capitale. Critica dell'economia politica.

3 commenti:

  1. Per mia assoluta negligenza (l'ho abbandonato per oltre un anno) mi sono accorto solo ieri notte di un tuo commento sul mio misero blog, mi scuso per la maleducazione e ti ringrazio per la menzione d'allora, che giustamente (vista la staticità dei miei scritti) ora hai rimosso. Un saluto.

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    1. ma non tolgo nulla dal blog, maurizio. semplicemente quegli aggeggi sono un casino. per esempio devo aggiornare manualmente 4 o 5 volte al giorno. altra cosa: ti dirò che l'elenco dei commenti recenti dapprima diventò ingestibile e ora non risco nemmeno a scovare dov'è (se c'è ancora). è un po' tutto così. CIAO

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  2. Confermo, io ho aggiornato il mio blog l'altra notte e ancora non ho capito bene come funziona, di sicuro tu lo usi benissimo per quello che ci scrivi, saluti.

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