C’è su Repubblica un’intervista di Odifreddi ad Orhan
Pamuk, l’inventore del romanzo Istanbul,
che in un passaggio mi conforta. Scrivevo il 10 febbraio che l’architettura contemporanea è
realizzata con materiali talmente scadenti che per fortuna presto di
essa non rimarrà traccia. Mi pare, o così mi piace credere, che anche
Pamuk sia dello stesso avviso quando dice: «Io associo l'hüzün di
Istanbul, che significa appunto "tristezza" o "melanconia",
con il fatto di aver vissuto la mia infanzia, negli anni '50, attorniato dai
grandi monumenti ottomani che cadevano a pezzi e decadevano. Era un po’ come in
India oggi, dove a disfarsi non sono gli edifici di un passato remoto, ma
quelli della contemporaneità. Ed è vero che anche al Cairo succede lo stesso».
Succede lo stesso un po’ dappertutto, e
non solo per l’architettura vera e propria. Un tempo gli uomini avevano la
dimensione dell’eternità, quella effimera degli uomini e dei secoli, s’intende.
Si trattava di un respiro diverso dal nostro, avevano come compagna non
occasionale la cultura, fosse pure quella popolare delle esperienze minute e
dei cicli naturali, e pure fatta di certe credulità. Non voglio dipingere quel
mondo a tinte idilliache, non era certo in fondo più morale e giusto del
nostro, ma è certo che si vivesse per molti tratti una dimensione umana e
spirituale diversa. Il nostro rapporto con la vita di tutti i giorni, ma anche
con la morte – e non solo come ipotesi del dopo –, è affatto differente e
sarebbe ben arduo affermare che esso è migliorato.
Invece di diventare meno lupi tra i lupi,
gli uomini diventano sempre più spregevoli; qualsiasi arte e abilità sono
scadute a semplice segmento del commercio, e dobbiamo considerare che
l’artigiano e il più semplice contadino di un tempo, sebbene la loro situazione
domestica fosse più dura e forse il loro intelletto più semplice,
vivevano con la loro coscienza estetica su un piano superiore a quello comune a
noi moderni. Vi pare un discorso troppo moraleggiante? Credo che per una volta
ci possa stare.
Le scoperte, le acquisizioni, le vittorie
della scienza, il progresso economico, assumono significato solo se sono anche
agenti della trasformazione umana in un senso di effettiva liberazione, quale
compito supremo di ogni comunità e individualità, se riescono cioè a stabilire
un rapporto autentico con l’arte, la poesia, la "filosofia", come
creazione collettiva di ogni momento della vita. E invece noi vediamo che tutte
le nostre energie, non meno delle risorse naturali, sono incanalate in un’unica
direzione prestabilita e nel favorire il gioco di pochi.
Su un piano non molto diverso, noi vediamo
come il grande sviluppo materiale raggiunto nella nostra epoca serva per
stabilire il primato di una classe sociale cieca e devastatrice, invece di essere fatto
valere per favorire una cooperazione effettiva con l’obiettivo di superare la
crudezza della competizione economica, quindi le contraddizioni tra povertà
estrema e ricchezza abusata. Allo scopo di giustificare il proprio potere, tale
classe sociale si avvale dell’apporto non gratuito delle idee più fruste per
sancire il dogma della lotta per l’esistenza vigente nella natura più bruta,
per imporre il mito biologico della lotta degli organismi naturali, un mito che
trova l’equivalente nelle dottrine bellicose ammantate di un organicismo e
naturalismo fasulli che mascherano idee e pratiche reazionarie, sostanzialmente
fasciste.
P.S.: non c'entra niente con il post, ma credo interessante questo scambio epistolare.
Nessun commento:
Posta un commento