lunedì 24 gennaio 2022

A Roma se ne infischiano


Il 3 gennaio il Nasdaq quotava 15.832 punti, oggi è sotto 13.500. Vero è che il 20 marzo 2020 aveva toccato le Marianne a 6.879, tuttavia a novembre scorso aveva superato 16.000 punti. Un bel tonfo, ed è solo l’inizio probabilmente. La faccenda dell’Ucraina non c’entra nulla, non date retta. Se vi fosse la prospettiva di denaro a costo zero potrebbe scoppiare anche una guerra mondiale e ciò nonostante Wall Street se ne fotterebbe. Kohls Corp (KSS), catena di negozi al dettaglio, oggi ha fissato un più 32,83% dopo che si è sparsa la notizia che l’azienda di private equity Sycamore Partners si sta preparando a fare un’offerta di acquisto.

Quello che fa la differenza è l’inasprimento della politica monetaria, aggravata dall’inflazione e dai timori di un’escalation salariale.

Guardando ai particolari vi è anche dell’altro, che però funge da campanello d’allarme di una situazione generale. Venerdì scorso il calo borsistico è stato guidato da Netflix, che è sceso del 22% dopo la notizia che la crescita degli abbonati avrebbe rallentato. È bastato questo perché Netflix perdesse il 22,74%, a 392,66 dollari, a 20 minuti dall’inizio delle contrattazioni sul Nasdaq. Il prezzo è così tornato ai livelli di circa 20 mesi fa con un calo di oltre il 40% dal record stabilito a novembre. Il gruppo ha perso 49 miliardi di dollari della sua valutazione di mercato.

Standard & Poor 500, l’indice azionario statunitense formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione, in un mese ha perso quasi il 10% del suo valore. I grandi investitori e speculatori hanno “comprato il calo”, fiduciosi che il flusso di denaro ultra-economico della Fed avrebbe assicurato la continuazione del rialzo del mercato azionario. Ed è stato così dopo l’abisso del marzo 2020, ma con l’inflazione negli Stati Uniti al 7%, la Fed ha deciso ridurre i suoi acquisti di attività a un ritmo accelerato, terminandoli completamente entro marzo, e si prepara ad alzare i tassi d’interesse forse fino a quattro aumenti quest’anno, ciascuno di 0,25 punti percentuali. Pochi mesi fa l’aspettativa era che ci sarebbe stato un solo aumento nel 2022.

Tutto sommato un aumento dei tassi dell’1 per cento non dovrebbe preoccupare eccessivamente, e però la Fed ha deciso di ridurre il suo impegno in attività finanziarie, esplose a 9.000 miliardi di dollari come risultato del supporto fornito ai mercati finanziari dal crollo del mercato di marzo 2020.

Nel Regno Unito il tasso di inflazione ha raggiunto il 5,4 per cento a dicembre, il livello più alto degli ultimi 30 anni, e ulteriori aumenti sono previsti fino al 7 per cento. Invece la Banca centrale europea sembra aver escluso aumenti dei tassi di interesse per l’immediato futuro. Non perché l’inflazione sia inferiore in Europa, poiché i dati di dicembre mostrano che viaggia al 5 per cento, il livello più alto dalla creazione dell’eurozona e sopra del tasso obiettivo della BCE del 2 per cento, ma perché un aumento dei tassi, favorito dai paesi dell’Europa settentrionale, potrebbe creare problemi seri per i membri della zona euro altamente indebitati. L’Italia è il principale Paese che ne risentirebbe.

A Roma in queste ore (ma sempre) se ne infischiano di preoccupazioni del genere, hanno cose di più gran momento a cui dedicarsi. 

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