La rinuncia al terrorismo, questo viene insistentemente chiesto ai palestinesi. Sarebbe lungo e forse inutile, data la situazione e l’introiezione di certe semantiche, discutere su che cosa sia il “terrorismo”. Come scrivevo in un post recente, nella narrazione che si vuole debba sostituire la memoria storica non succede mai niente se non l’interminabile scontro tra buoni e cattivi, tra il Bene e il Male.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) accettò di riconoscere Israele e di rinunciare al terrorismo quando firmò, nella persona di Arafat, gli accordi di Oslo nel 1993. Ciò avvenne sui prati della Casa Bianca, presente la controparte israeliana nella persona di Yitzhak Rabin. Ricordo bene quel momento, e anche ciò che pensai allora.
Gli accordi avrebbero dovuto inaugurare uno staterello palestinese con capitale ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est, la cosiddetta soluzione dei due Stati. L’OLP avrebbe assunto il ruolo di Israele nel controllo delle masse palestinesi in uno stato binario, composto da una specie di “bantustan” non contigui, separati ma contenuti da Israele, sul modello Sudafricano. Ciò precludeva ogni possibilità di una vera autodeterminazione e di democrazia per i palestinesi (*).
Non si tratta di giustificare, bensì di capire ciò che sta accadendo: è l’immensa sofferenza di chi vive ghettizzato, discriminato e senza via d’uscita, situazione di cui non sembra si voglia prendere atto, che ha portato a ciò che è accaduto il 7-9 ottobre. Che poi vi sia chi, da parte araba, iraniana e altro, sfrutta la situazione palestinese per altri scopi politici e geopolitici, si può discutere, e dunque possiamo evocare e deprecare con raccapriccio quanto ha messo in atto Hamas, ma tutto ciò non può essere avulso dal contesto storico e contingente.
È la rivolta di un popolo oppresso, consapevole che va incontro a un massacro di massa, portato alla disperazione e deciso a fuggire dal campo di concentramento in cui Israele, con l’appoggio di tutte le maggiori potenze, lo ha rinchiuso.
Quanto alla democratica Israele, con la continua repressione dei palestinesi ha dimostrato di essere incapace di sviluppare una società autenticamente democratica. Stato presidio dell’imperialismo statunitense, ripetutamente in conflitto con i suoi vicini mediorientali (salvo stabilire lucrosi accordi economici con alcuni di essi) e in perenne guerra con i palestinesi, persegue una politica espansionistica del “Grande Israele”, appoggiandosi sempre più sui coloni nei territori occupati e sulle sovvenzioni militari statunitensi per compensare l’impatto destabilizzante di livelli di disuguaglianza sociale tra i maggiori del mondo.
La guerra di Israele contro Gaza è la dimostrazione definitiva dell’essenza reazionaria del sionismo. Un’ideologia che proclamava di voler fornire un rifugio sicuro agli ebrei ha invece prodotto decenni di morte, pulizia etnica, apartheid ed espropriazione dei palestinesi, mettendo gli ebrei israeliani, sotto la guida di governi di criminali fascisti (Netanyahu e i suoi tentativi di assumere poteri dittatoriali è l’esempio più recente ed evidente), in conflitto permanente con i loro vicini, e costretti a vivere armati e nella costante paura.
Quando parlo dell’essenza reazionaria del sionismo, intendo questo: lo Stato sionista rispetto alla popolazione palestinese può comportarsi soltanto da Stato sionista, cioè secondo un criterio etnico e religioso, poiché proprio tale criterio discriminatorio permette la distinzione e l’isolamento del non ebreo in generale e del palestinese in particolare.
Nel sionismo, per dottrina, non c’è spazio per l’uguaglianza. E dove non c’è uguaglianza come pretendere altri diritti effettivi? Vorrei ricordare, tra gli altri alle scimmiette televisive, che i diritti umani sono diritti politici.
Il modo di formulare un problema contiene già la sua soluzione: l’unica prospettiva praticabile non è una mitica “soluzione a due Stati”. La distinzione tra ebrei e arabi dovrebbe cessare riconoscendo come loro autentica aspirazione il superamento del proprio pregiudizio etnico (il travestimento etnico) e confinando la propria religione nel diritto privato, in modo che tutti i cittadini possano entrare tra loro in rapporti universalmente umani. Ciò non è possibile se non ponendosi l’obiettivo del superamento dell’ordine economico attuale da cui promana l’asservimento generale: l’interesse privato è l’essenza della distinzione e della separazione, del bellum omnium contra omnes.
(*) Gli ultranazionalisti israeliani e i loro rappresentanti politici nel Likud e in altri partiti religiosi e di estrema destra respinsero anche questa presa in giro di uno Stato palestinese. Due anni dopo, nell’ottobre del 1995, i nazionalisti religiosi di destra, istigati dai leader dell’opposizione guerrafondai Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, denunciarono Rabin come traditore durante una manifestazione rabbiosa a Gerusalemme. Un mese dopo, un fanatico religioso assassinò Rabin.
Israele ha utilizzato gli accordi di Oslo per espandere gli insediamenti in Cisgiordania, prendere il controllo dell’acqua e di altre risorse, costruire strade e installare più di 600 posti di blocco, interrompendo il libero movimento in tutta la regione e distruggendo la sua economia. Gli insediamenti, che ora ospitano almeno 500.000 israeliani, ovvero quasi il 20% della popolazione, controllano una percentuale molto maggiore della terra, comprese quelle più fertili e produttive.
Quello descritto è uno stato di fatto, non invenzione. L’annessione di Gerusalemme Est, ossia di ciò che non era stato ancora occupato della città da parte israeliana, quindi di parte della Cisgiordania, la costruzione di circa 200.000 case di coloni, il tutto in violazione del diritto internazionale. Lo sfratto delle famiglie palestinesi dai quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan per volere di gruppi religiosi e di estrema destra guidati da Ben-Gvir, hanno portato ripetuti scontri tra palestinesi e polizia.
Sulla base di queste premesse, vi fu la seconda Intifada nel settembre 2000, dopo la provocatoria marcia di Ariel Sharon attraverso il complesso della moschea di Al Aqsa sotto scorta militare per affermare il controllo di Israele sul luogo santo dell’Islam. L’Intifada fu allo stesso tempo una rivolta contro la leadership dell’OLP che aveva sancito i disastrosi accordi di Oslo.
Il numero dei palestinesi ora supera ancora il numero degli ebrei all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele e dei Territori occupati. Da ciò il tentativo di contrastare quella che i sionisti chiamano la “bomba a orologeria demografica”, la richiesta di “trasferimenti di popolazione” e misure volte a effettuare la pulizia etnica.
Sharon ordinò la costruzione della famigerata barriera di separazione che sequestrò un ulteriore 10% della terra palestinese per separare Israele dai palestinesi e tagliarne fuori migliaia dalle loro famiglie e dai posti di lavoro. Nel 2005, Sharon chiuse 14 insediamenti israeliani e ritirò l’esercito dalla Striscia di Gaza, pur mantenendo il controllo degli ingressi via terra, mare e aria. Gaza divenne di fatto in un ghetto impoverito, con la vita devastata dei suoi residenti.
Che cosa dovrebbe fare milioni di persone ristrette in un simile recinto? Come dovrebbe reagire la gioventù palestinese, in una situazione di alta densità urbana, dove viene fornito solo il minimo indispensabile dei servizi essenziali come acqua ed elettricità? Alla rivolta degli oppressi palestinesi, Israele ha risposto distruggendo gran parte delle infrastrutture pubbliche di Gaza, molti edifici residenziali, ospedali, scuole e moschee e attacchi omicidi.
Operazioni definite come “falciare l’erba”. Queste includono l’Operazione Piombo Fuso (2008-2009), l’Operazione Pilastro di Difesa (novembre 2012) e l’Operazione Margine Protettivo (2014), eccetera. Il bilancio complessivo delle vittime palestinesi in più di sette grandi attacchi contro Gaza da parte della più potente forza aerea del Medio Oriente è stato di almeno 4.164 morti, con la perdita di 102 vite israeliane.
La situazione economica di Gaza era disastrosa ben prima dell’attuale attacco. Circa tre quarti delle famiglie di Gaza dipendono da qualche forma di aiuto da parte delle Nazioni Unite e di altre agenzie, aiuti che secondo l’Unione Europea sono ora “sotto revisione”. Sono tali i livelli di povertà e disoccupazione che bande criminali rivali hanno preso il controllo delle città e dei villaggi arabi, provocando più di 180 omicidi dall’inizio dell’anno.
https://www.ossin.org/palestina/194-sionismo-e-apartheid
RispondiEliminaGrazie.
RispondiEliminaCerto la tracotanza sionista sarebbe impotente senza il sostegno finanziario internazionale e soprattutto senza il patrocinio di Washington. Non mi sembra trascurabile in particolare il contributo del sionismo cristiano anglosassone il cui fanatismo millenarista, già manifestatosi nelle amministrazioni Reagan, ci sta conducendo tutti ad una nuova Grande Guerra.
(Peppe)
Una domanda: perché si considera Israele uno stato democratico? Perché si vota? Ma chi vota? Mi si direbbe chi ha il diritto al voto! Ma tutti quelli che vivono sulla terra controllata da Israele hanno il diritto al voto? A me sembra di no! Quindi è una democrazia? No! E’ uno stato fondato su un pregiudizio religioso discriminante, come lo era il criterio razzista presunto dal nazismo degli ariani!
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