Benvenuti in Medio Oriente. Questa non è come una disputa sul confine tra Cile e Bolivia. E nemmeno tra Argentina e GB per le Malvinas. Questa guerra tra Israele e Hamas è un’escalation di follia, senz’altro, ma con attori perfettamente lucidi.
Le ragioni addotte da Hamas per questa guerra sono senz’altro la colonizzazione, le ingiustizie e le violenze indicibili di cui sono vittime i palestinesi, le provocazioni del governo di Benjamin Netanyahu, le passeggiate mattutine che il ministro israeliano per la sicurezza nazionale, il fascista pregiudicato Itamar Ben-Gvir, stava facendo attorno alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, oppure le misure per rendere più dura la detenzione dei palestinesi e per aver ordinato al suo ministero di acquistare 10.000 fucili d’assalto per armare le milizie dei coloni.
C’è tutto questo, ma perché Hamas ha deciso di giocarsi tutte le sue fiches a Gaza in un’unica partita? Nel contesto più ampio del Medio Oriente c’è anche dell’altro. La ragione principale per cui Hamas ha agito adesso, come molti commentatori hanno sottolineato, sarebbe dovuta al riavvicinamento tra Israele e gli altri Paesi arabi, segnatamente l’Arabia Saudita, che Iran, Hamas ed Hezbollah vedono come il fumo negli occhi.
Tutto vero anche questo, mi pare evidente che la questione palestinese e di Gaza in particolare c’entri fino a un certo punto se le cose del Medio Oriente si guardano da una prospettiva più ampia. Tuttavia per il successo dell’operazione di Hamas, esecrabile sia in termini morali e sia in termini di diritto (tuttavia, non sembri troppo cinico, ma da che mondo è mondo le guerre si fanno con quello che si ha a disposizione), si può adombrare anche un altro motivo.
Ciò che rende questa guerra diversa da qualsiasi guerra precedente è la politica interna di Israele. Negli ultimi nove mesi, un gruppo di politici israeliani di estrema destra e ultraortodossi guidati da Netanyahu ha cercato di sequestrare la democrazia israeliana (sia chiaro: democrazia per gli ebrei d’Israele, non per gli arabi sotto occupazione).
La destra religiosa-nazionalista dei coloni, guidata dal primo ministro, ha cercato di prendere il controllo del sistema giudiziario e di altre istituzioni chiave limitando fortemente il potere della Corte Suprema di esercitare un controllo giurisdizionale. Ciò ha aperto molteplici fratture nella società israeliana. In tal modo Israele è stato incautamente portato dalla sua leadership sull’orlo di una rivolta civile per un volo di fantasia ideologico.
Queste fratture sono state notate dall’Iran, da Hamas e da Hezbollah, e potrebbero aver stimolato la loro audacia. Il progetto di Netanyahu ha dato vita ad un fronte di opposizione senza precedenti, sia per la sua portata che per la sua natura. Si sono uniti nella protesta cittadini di sinistra e di destra, ma anche luminari del mondo scientifico, economico, intellettuale, politico, religioso e istituzionale.
Anche l’esercito, che rifiuta questo “colpo di stato che non solo mette in pericolo l’economia e i nostri diritti civili, ma costituisce anche un pericolo esistenziale per la sicurezza di Israele”, per usare le parole del generale Moshe Yaalon, ex ministro della Difesa. Una delegazione di piloti ha avvertito il capo di stato maggiore che se dovesse passare la riforma, la maggioranza dei riservisti si sarebbe rifiutata di volare. Non stiamo parlando di sindacalisti paffuti e nemmeno di “gilet gialli”, ma tra loro anche di reduci del raid sull’aeroporto ugandese di Entebbe, nel 1976, o del bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osirak, nel 1981. In altre parole, di eroi nazionali. Che Netanyahu ha chiamato “anarchici”.
Da notare che la riserva, come tutti sanno, è il cuore dell’esercito israeliano: nel 2022, l’Israel Defense Forces contava 169.500 militari attivi e 465.000 riservisti, ai quali si fa costantemente riferimento.
Altro esempio significativo: centinaia di ex agenti del Mossad hanno firmato una petizione contro il progetto di Netanyahu di concedere i pieni poteri al governo in carica, mentre Yoram Cohen, ex capo dello Shin Beth, i servizi di sicurezza interna, ha dichiarato in una conferenza stampa il 1° marzo scorso: “Se si verifica una situazione in cui il ministro dà un ordine a un comandante, o se la Knesset approva una legge e la Corte Suprema la dichiara incostituzionale, dobbiamo ascoltare la Corte”.
Questa rivolta totale e senza precedenti, la rabbia vulcanica nei confronti di Netanyahu per citare le parole del NYT (due giorni fa, Idit Silman, ministro durante il governo di Netanyahu Likud, è stata gettata fuori dall’ospedale Assaf Harofeh di Tzrifin mentre era andata a visitare alcuni feriti), dimostra che Israele al proprio interno è profondamente spaccata e perciò non serve essere inclini a facili dietrologismi per sospettare che la défaillance degli apparati di sorveglianza militare e d’intelligence potrebbe non essere dovuta del tutto a una casuale e deprecabile imprevidenza.
Faglie e frantumazione caratterizzano Israele e Palestina.
RispondiEliminaNulla di meglio che scaricare quelle tensioni sul nemico esterno.