Nella narrazione che si vuole debba sostituire la memoria storica non succede mai niente se non l’interminabile scontro tra buoni e cattivi, tra il Bene e il Male. Tanto più quando si ha a che fare con la questione palestinese, laddove le ragioni di un popolo sono rimosse, censurate, mistificate in uno sfondo di razzismo che risulta intollerabile.
Giuliano Amato, nel corso di un’intervista televisiva di martedì scorso, ha sostenuto la fiaba della “terra promessa”. Testualmente: «Che Israele e gli ebrei abbiano diritto di stare lì, viene da migliaia e migliaia di anni. Ma insomma, l’ebreo più famoso della storia si chiama Gesù di Nazaret, mica Gesù di Granada o di Bergamo. È tutta la storia ebraica, la terra promessa era quella».
Ecco un motivo per cercare di ritrovare con lo sguardo, in tempi sospetti come gli attuali, la vita dei palestinesi sulla terra da essi secolarmente abitata: con il passare del tempo, e soprattutto con la nascita dello Stato d’Israele, nel mondo occidentale le tesi sioniste sulla “terra promessa” e la “terra senza popolo” sono divenute dominanti.
Dunque è necessario fissare la Palestina “pochi attimi prima” che il nazionalismo arabo e il sionismo ebraico la trasformassero in un aspro terreno di scontro all’interno di un processo di dissoluzione dell’impero ottomano e del complementare processo di accaparramento delle sue spoglie da parte della Francia e della Gran Bretagna, processo questo culminato con la prima guerra mondiale e con la politica dei mandati conferiti dalla Società delle Nazioni.
Emergerà, con palmare chiarezza, un doppio processo, di espulsione degli arabi e di insediamento degli ebrei. Un processo che ha costretto un’intera comunità, la quale traeva le specifiche condizioni e le particolari forme della propria esistenza sociale da un radicamento antico quanto duraturo e continuato nel tempo sul suolo e nello spazio palestinese, ad assumere, dapprima l’eredità negativa di una “storia”, quella dell’antisemitismo europeo (dalle persecuzioni medievali ai pogrom zaristi e al genocidio nazista, passando per l’affare Dreyfus), poi quella di sempre maggiori insediamenti illegali secondo il programma sionista, che fu fin dall’inizio un programma colonialista.
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Nel 1880, la Palestina era una regione dell’impero ottomano, ed era generalmente considerata una parte della “grande Siria”. La Palestina era suddivisa in tre sangiaccati: Acri, Nablus (fino al 1888 chiamata Belqa, nelle trascrizioni inglesi Balqa), Gerusalemme, con cinque kaza (distretti): Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba. Gerusalemme, nel 1887, divenne un sangiaccato indipendente, in quanto sede dei Luoghi Santi, il quale rispondeva direttamente al governo centrale di Costantinopoli. Nel 1888, è stato creato il distretto di Beirut che, a sua volta, comprendeva i due restanti sangiaccati palestinesi di Acri e Nablus.
Pertanto, nel periodo in questione, la Palestina meridionale e centrale era governata da Gerusalemme e quella settentrionale da Beirut. I suoi abitanti erano in gran parte concentrati nel mutassariflick (sangiaccato indipendente di Gerusalemme). La comunità ebraica palestinese (vecchio insediamento con forte appartenenza sefardita), di circa 10.000 persone, era concentrata in massima parte nelle quattro città sante: Gerusalemme ed Hebron, Safed e Tiberiade.
Nel 1882 e nel 1903-05 si registrano le prime due aliyah ebraiche. In antico, con tale termine s’indicava il pellegrinaggio verso la Palestina, i sionisti, in epoca contemporanea, faranno di tale parola un sinonimo di “immigrazione ebraica” (1).
Nel rapporto del 1937 della Commissione reale per la Palestina presieduta dal Lord Peel, in un significativo passaggio si legge: «Per quanto fossero poveri e trascurati, per gli arabi che vi vivevano, la Palestina – o, più precisamente, la Siria, di cui la Palestina ha fatto parte fin dai tempi di Nabucodonosor – era pacificamente il loro paese, la loro casa, la terra in cui il loro popolo era vissuto e dove aveva lasciato le proprie tombe nei secoli passati».
La Palestina, dunque, alla fine dell’Ottocento era in una situazione per così dire relativamente “tranquilla”. Pochi anni dopo la situazione non sarà più la stessa. Due fenomeni emergeranno a caratterizzarla: il nazionalismo arabo e il nazionalismo ebraico, il sionismo. Nati in contesti lontanissimi tra di loro e da motivazioni ideologiche altrettanto diverse, questi due fenomeni s’incontreranno nel territorio palestinese e, pur evolvendosi in forme e con contenuti diversi, resteranno, fino i nostri giorni, continuamente intrecciati tra di loro.
Al centro, sempre, il popolo palestinese, protagonista dei momenti più alti dello scontro, emarginato e in balia di direzioni estranee, quando non straniere, nel momento in cui a prevalere è l’interesse di pochi o la politica delle grandi potenze.
Con la seconda aliyah giunsero strati sociali diversi, già toccati dal sionismo (dalle diverse facce del sionismo), che reagiranno, in funzione delle proprie aspirazioni e dei propri interessi, in modo diverso all’ideologia sionista e ai problemi imprevisti posti dalla concreta arabicità della Palestina. Va aggiunto che sulla Palestina, come su tutto l’oriente Ottomano, si appuntavano gli sforzi di penetrazione delle potenze occidentali. Per un tale progetto si dovevano usare tutti i mezzi a disposizione: classi privilegiate pronte a riciclarsi nel ruolo di compradores, minoranze religiose o tribali inclini ad appoggiarsi allo straniero per riaggiustare a proprio favore l’equilibrio intercomunitario, eccetera.
Va da sé che i sionisti dell’inizio del Novecento hanno continuamente fatto balenare davanti agli occhi dei loro interlocutori europei questa possibilità di utilizzazione della comunità ebraica locale per la realizzazione dei loro scopi di spartizione della “carcassa del turco”. Questa tattica, essenziale per ottenere il sostegno delle potenze occidentali al progetto sionista, fu però solo uno strumento, non la finalità, perché, per i sionisti, si trattava non di inserirsi nella società palestinese, ma di appropriarsi del suo spazio, del suo territorio, “rimandandola nel deserto”, come del resto la storia ha confermato.
La volontà di possesso esclusivo dello spazio, che fa pensare alla colonizzazione europea dell’America del Nord, costituisce la specificità del colonialismo sionista, che deve essere collocato nel quadro ideologico dell’imperialismo coloniale nella seconda metà del XIX sec.. Alla radice di questa rivendicazione sullo spazio, c’è il nazionalismo ebraico: la volontà di creare una società completa, dove gli ebrei occupino tutti i livelli dell’organizzazione economica, volontà derivante dalla logica statal-territorialista del sionismo politico. Di qui la necessità di negare il popolo palestinese; di qui la funzione dello slogan: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, che resta la favola per gli occidentali ad uso e consumo della loro cattiva coscienza (2).
In ciò c’è già la prefigurazione delle grandi linee della sintesi pratica del sionismo: soggettivismo ebraico e razzismo occidentale si articolano sul mito del “ritorno” (codificato nel 1950 dallo Stato d’Israele) per legittimare la presa di possesso esclusiva di un territorio già abitato. Svalutare gli arabi significava rivalutare sé stessi. A nulla varrà il grido del sionista francese Max Nordau rivolto ad Herzl: “Ma allora commettiamo un’ingiustizia!”, quando scoprirà con spavento l’esistenza degli arabi nel paese che sognava vuoto.
La prospettiva è quella di creare uno Stato ebraico che Theodor Herzl definisce così: «Costituiremo per l’Europa un bastione fortificato contro l’Asia e una cittadella avanzata di civiltà contro la barbarie». Questo è un classico tema coloniale, quello del “diritto dei popoli superiori”. C’è infatti una certa somiglianza con il movimento coloniale italiano all’inizio del XX secolo, da Crispi a Mussolini, passando per Giolitti.
I primi coloni sionisti che vennero a stabilirsi nelle “terre promesse” vi trovarono quindi degli abitanti autoctoni che si rifiutarono di andarsene. Si organizzano quindi per espellerli con la forza. A Foula, i mezzadri palestinesi furono espulsi dalle milizie armate di Ha Shomer (“i guardiani”, precursore dell’organizzazione paramilitare Haganah e del suo braccio terroristico, l’Irgun), formate con l’acquiescenza del potere ottomano, i cui agenti furono debitamente corrotti per farlo. Nell’immaginario sionista ufficiale ciò significava: Ha Shomer si oppone ai “briganti arabi”.
Per i sionisti, in ogni caso, le lotte per l’espulsione dei contadini dalle loro terre e la creazione della proprietà ebraica attraverso la corruzione dei funzionari ottomani, devono essere sostituite da formule più efficaci. Queste formule implicano la creazione di un’autorità ebraica sovrana e l’applicazione sistematica di una legislazione ispirata al liberalismo capitalista (3).
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I due fenomeni che vanno presi in considerazione, nazionalismo arabo e sionismo, sono molto complessi e la loro specifiche dinamiche non possono essere assoggettate a separazioni nette come quelle imposte da una data o da una periodizzazione. Tuttavia, la Prima guerra mondiale non è certo soltanto una data, né il successivo mandato britannico rappresenta una circostanza irrilevante per ciò che concerne le sorti della Palestina.
Siamo in piena guerra 1914-‘18. Mentre il governo britannico, per lottare contro l’Impero Ottomano, cercava alleati promettendo agli arabi la creazione di un regno arabo (il carteggio tra lo sceriffo della Mecca, al-Husayn, e Sir Henry McMahon, alto commissario britannico al Cairo), raggiunse un accordo segreto con i francesi per spartirsi il Medio Oriente dopo la guerra (accordi Sykes-Picot). Il governo s’impegnò anche in trattative con i sionisti: ho già raccontato in altro post come si giunse alla lettera del ministro degli Esteri britannico Balfour, politico dal noto passato antisemita, diretta a un privato cittadino. In essa si prometteva agli ebrei una patria nazionale, ossia si riconosceva il diritto alla libera colonizzazione, il che implicava il diritto di ignorare o, meglio, di sfollare la popolazione araba.
In quel momento in Palestina vivevano 80.000 ebrei, un terzo dei quali erano ebrei palestinesi. La lettera di Balfour nella corrispondenza ufficiale McMahon e Husayn non viene nemmeno citata. Ebbene, in tale corrispondenza ufficiale la Gran Bretagna affermava in modo solenne e con chiarezza, con Palestina e Mesopotamia quasi del tutto liberate dagli arabi dal dominio turco (vedi la vicenda Lawrence), l’incondizionato diritto dei popoli arabi all’indipendenza e all’autodeterminazione nazionale, senza far riserva alcuna sulla sorte della Palestina.
Insomma, contraddittoriamente Londra prometteva la stessa cosa a tutti in Medio Oriente. Gli inglesi, infatti, supervisionavano i contingenti arabi che inviavano contro le forze ottomane e, allo stesso tempo, organizzavano una legione ebraica e la rete di spionaggio ebraica Nili di Aaron Aaronsohn, un ebreo di origini romene che aveva lavorato nelle proprietà dei Rothschild in Palestina, il quale presenterà poi alla delegazione sionista alla Conferenza di Parigi le mappe che individuavano i tipi di terreno e i bacini acquiferi su cui mettere le mani.
Nel 1922, la Palestina, come una serie di altri ex territori ottomani, fu posta sotto mandato britannico dalla Società delle Nazioni. Tutti questi territori diventeranno successivamente Stati pienamente indipendenti, ad eccezione della Palestina. Il regime del Mandato britannico sulla Palestina instaurò condizioni completamente nuove per l’impresa sionista.
Nei primi dieci anni del mandato, l’Inghilterra è impegnata in una politica fondamentalmente pro-sionista definita da lord Balfour alla conferenza di Parigi del 1919: «In Palestina noi ci proponiamo di consultare anche gli abitanti del paese [...]. Le quattro grandi potenze si sono impegnate nei confronti del sionismo, e il sionismo (che sia buono o cattivo, che abbia ragione o torto) affonda le sue origini in una tradizione antica, in bisogni immediati e speranze a venire che sono molto più importanti dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che abitano attualmente in Palestina».
Le leggi fondamentali (Land Transfer Ordinance e Mahlul Land Law), che riguardano il diritto fondiario della Palestina, furono fatte passare dagli inglesi nel 1920, ancor prima della promulgazione del Mandato da parte della Società delle Nazioni. Ciò provocò uno sconvolgimento nelle forme giuridiche della proprietà fondiaria che rimosse gli ostacoli eretti dalla società tradizionale alla colonizzazione (la mobilità dei terreni nel circuito commerciale diventa sistematica).
Di questa nuova situazione s’avvantaggiano i grandi proprietari terrieri libanesi, ma anche i grandi feudatari palestinesi che vendono le loro terre a caro prezzo. E ovviamente i coloni ebrei ricchi in proprio o finanziati dall’estero. D’ora in poi, nei contratti di vendita, si stabilisce che “la terra dovrà essere consegnata vuota dei suoi abitanti”, cosa inconcepibile nell’antico regime comunitario della terra.
Le espulsioni dei contadini palestinesi avverranno legalmente grazie all’esercito o alla polizia britannica, assistita dalle milizie sioniste. L’inevitabile risultato di questo crescente movimento di espulsioni fu la recrudescenza del “banditismo arabo”.
Ad Haifa, nel 1920, si tenne il congresso del Partito dei Lavoratori di Sion, antenato del Partito laburista, guidato dal suo leader David Ben-Gurion. Lì venne creato anche il centro di lavoro ebraico (Organizzazione Generale dei Lavoratori Ebrei in Terra d’Israele). Dal congresso fu esclusa una minoranza internazionalista che voleva fondare un’organizzazione sindacale comune per ebrei e arabi. Questa minoranza era l’antenato del Partito comunista palestinese. Quest’ultimo, dopo i moti operai di Giaffa del 1921, venne messo fuori legge dalle autorità britanniche.
Grazie al Mandato britannico i sionisti riuscirono anche a instaurare l’abbozzo di un esecutivo, l’Agenzia Ebraica. Ora potevano procedere con più libertà di prima alla conquista della terra, al monopolio del lavoro e al boicottaggio della produzione araba. L’Agenzia istituisce un programma di compensazione per i padroni ebrei in proporzione alla differenza tra il salario di un lavoratore arabo e di un lavoratore ebreo. È progettato per perfezionare la segregazione e per permettere alla produzione ebraica di affermarsi. Gli ebrei devono muoversi in circuiti economici puramente ebraici e in una società puramente ebraica.
Da quel momento in poi, il divario tra ebrei e arabi divenne rapidamente irreversibile. Come detto, furono anche istituite organizzazioni paramilitari di tipo fascista, l’obiettivo era agire attraverso la provocazione per innescare reazioni degli arabi palestinesi contro gli ebrei e facilitarne così la repressione. L’obiettivo era creare un clima di guerra santa. Da questa corrente dall’estrema destra sionista proveniva il futuro partito Likhoud, e in particolare i futuri primi ministri Menachem Begin, Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu.
La reazione prese la forma di un movimento di sciopero generale degli arabi palestinesi. Questo sciopero fu in un certo senso un vantaggio per i datori di lavoro ebrei: privati dei lavoratori per diversi mesi, permise loro di sostituirli con nuovi lavoratori ebrei provenienti dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Romania, poi dalla Germania. Lo sciopero, reso così inefficace nel contesto sionista, fu seguito da una rivolta armata di contadini senza casa cacciati dalle loro terre. Da qui un ciclo di terrorismo e violenza, alimentato da entrambe le parti, che non si è mai concluso.
Al congresso Po’ale Tsiyon di Zurigo dell’estate 1937, il primo dopo la rivolta palestinese e le conclusioni della Commissione Peel, Ben-Gurion protestò contro l’idea di spartizione della Palestina: per lui la Palestina doveva essere esclusivamente degli ebrei, ma si accontentava, in mancanza di qualcosa di meglio, se si sarebbe permessa la nascita dello Stato ebraico. Già il progetto di un “trasferimento” degli arabi lo attraeva: «C’è nelle proposte della Commissione Peel la possibilità di trasferire le popolazioni arabe con il loro consenso, o altrimenti con la forza, e quindi di espandere la colonizzazione ebraica».
L’indipendenza di una Palestina ebraica era quindi legata all’idea del “trasferimento” degli arabi. Detto questo, il congresso mantenne la richiesta di uno Stato ebraico che si estendesse su tutta la Palestina mandataria, anche in Giordania (idea del Grande Israele). Una famosa deputata, Golda Meïr (all’epoca Golda Mabovič, prima della giudaizzazione del suo nome), giudicò con fredda determinazione che sarebbe stato essenziale espellere militarmente gli arabi. Ovviamente sorgeva la domanda su cosa si dovesse fare allora con gli arabi espulsi.
Un uomo ha svolto un ruolo essenziale nelle proposte che rispondono a questa domanda: Yossef Weitz. Direttore del Fondo Nazionale Ebraico per 36 anni (1932-1968), presiedette in gran parte all’acquisizione delle terre arabe dal 1932 al 1948; poi, una volta realizzato lo Stato d’Israele, ne fu per vent’anni il principale saccheggiatore. Letteralmente ossessionato dal desiderio di ottenere una terra d’Israele svuotata dagli arabi, cercò di reinsediarli nella Jazireh siriana, o in Iraq; considerò anche deportazioni lontane, in particolare in Argentina.
Il suo motto era: «È chiaro che non c’è posto per due popoli in questo Paese [...]. Non dobbiamo lasciare un solo villaggio, una sola tribù.»
Nel Programma Biltmore (New York, 1942), fu presa la decisione di creare uno stato ebraico indipendente. È la rottura irrimediabile con l’imperialismo britannico e l’inizio di un nuovo accordo focalizzato sugli americani. Questa nuova tappa coincide con una notevole evoluzione della società israeliana durante la guerra. Si verificò un forte impulso all’industrializzazione, favorito dalla richiesta di fornitura di viveri e attrezzature alle truppe inglesi e australiane di stanza in Palestina.
L’arricchimento e il finanziamento dall’estero consente anche un vertiginoso aumento del potenziale militare dell’esercito sionista, l’Haganah. Allo stesso tempo, il genocidio nazista aveva legittimato senza discussione agli occhi del mondo il progetto sionista. In definitiva, la legittimazione dello Stato di Israele da parte dei paesi occidentali è stata un processo di proiezione dei sentimenti di colpa, che però andava a gravare drammaticamente sui palestinesi che erano assolutamente innocenti dei crimini nazisti.
La rivolta ebraica rese impossibile la perpetuazione del mandato britannico e alla fine portò al piano di spartizione delle Nazioni Unite del novembre 1947 (vedi risoluzione 181). I notabili palestinesi che guidavano l’Alto Comitato arabo rifiutarono il piano di spartizione: così facendo, sposarono il sentimento degli arabi palestinesi che rifiutò lo smembramento della Palestina a beneficio degli occupanti coloniali.
I palestinesi furono incoraggiati dalla solidarietà verbale degli arabi per i quali Israele era l’incarnazione dell’imperialismo coloniale europeo. Da parte sionista ci furono esitazioni, ma Ben-Gurion alla fine accettò la spartizione, aspettandosi il rifiuto palestinese che avrebbe inevitabilmente provocato la guerra tra Israele e gli arabi solidali con i palestinesi, e quindi la possibilità di attuare il “trasferimento”, cioè l’espulsione dei palestinesi.
Grazie alla schiacciante superiorità militare israeliana, il rifiuto arabo fu per i sionisti la garanzia che un vero Stato palestinese non avrebbe visto la luce. Infatti, anche prima della guerra israelo-palestinese del 1948, Golda Meïr e il re Abdullah della Transgiordania si spartirono la torta palestinese. Israele prese il controllo del 77% del territorio del Mandato Palestinese, compresa la maggior parte di Gerusalemme. Più della metà della popolazione araba palestinese, nella paura e nella disperazione, fugge o viene espulsa, con la rabbia nel cuore contro gli ebrei. Ci furono rappresaglie contro gli ebrei, la più sanguinosa delle quali fu il massacro di 70 persone di un convoglio medico ebraico. Giordania ed Egitto condividono il controllo del resto dei territori assegnati allo Stato arabo dalla risoluzione 181.
L’apice del terrorismo sionista venne raggiunto con il massacro di Deir Yacine nell’aprile 1948, ancor prima della creazione dello Stato di Israele (15 maggio 1948) e del successivo scoppio della guerra. A Deir Yacine, l’Irgun massacrò 250 persone. Il capo dell’Irgun, Menachem Begin, già ricercato dai britannici in quanto terrorista, trovò una sola scusa: l’Haganah – l’esercito ebraico – non aveva nulla da rimproverargli perché, secondo lui, faceva ogni giorno la stessa cosa.
Aveva ragione Begin, lo dimostra, tra gli altri, il “massacro di Tantura”, del maggio 1948. Secondo un passaggio del diario di Ben-Gurion “la pulizia della Palestina rimane l’obiettivo primario del Piano Dalet” (Ben-Gurion usa l’espressione Mitzva biur Hametz (Operazione pulizia di Pasqua), laddove il termine bi’ur non significa altro che “pulizia”). Coloro che redassero il piano si impegnarono in un’azione psicologica basata sulla minaccia e sul terrore “in modo che sappiano che non abbiamo intenzione di lasciarli tornare a casa”.
Dei 375 villaggi censiti in questo territorio all’epoca del mandato britannico, 190 furono completamente abbandonati, distrutti con la dinamite e rasi al suolo nel 1948-49. Un altro centinaio (per un totale di 290) furono distrutti e rasi al suolo dal 1949 al 1953, ovvero più di tre quarti.
Il furto delle terre si trasformò in un fatto giuridico retroattivo. Particolarmente utilizzate sono state delle norme ad hoc (il cosiddetto regolamento 125), che autorizzava la decisione di rendere chiuso un territorio; vale a dire divieto di ingresso ma non di uscita. Ha permesso di svuotare intere regioni e di vietare il ritorno ai villaggi rasi al suolo. Nel gergo amministrativo israeliano, un villaggio raso al suolo era chiamato “villaggio migliorato”.
La legge del 1949, detta anche “legge dei presenti/assenti”: furono confiscati i beni e aboliti i diritti civili di ogni persona assente dal novembre 1947 al maggio 1948, vale a dire nel periodo compreso tra il piano di ripartizione delle terre stabilito dall’ONU alla creazione dello Stato d’Israele: è durante questo semestre che avviene la fuga dei palestinesi. Come affermò Ben-Gurion, “lasciando le loro case, gli arabi stessi rinunciarono ai loro diritti”. Tra il programma generale di conquista e pulizia etnica nazista e quello israeliano si possono rintracciare più analogie che differenze.
Nell’immaginario ufficiale israeliano, la guerra del 1948 è rappresentata come una lotta tra un Davide/Israele opposto a un Golia/Stati arabi. In realtà, al culmine della guerra, c’erano al massimo 40.000 soldati arabi scarsamente armati, con la sola eccezione della piccola legione araba della Transgiordania, contrapposto ai 60.000 soldati ebrei dell’Haganah, super addestrati e ben equipaggiati, per non parlare delle formazioni paramilitari (tipo l’Irgun).
Durante la guerra del 1967, Israele occupò i territori della Striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, che in seguito annesse. La guerra provocò un secondo esodo palestinese di circa mezzo milione di persone. Nella sua risoluzione 242, il Consiglio di Sicurezza stabilì il ritiro di Israele dai territori occupati durante il conflitto, una giusta soluzione del problema dei rifugiati e la cessazione di ogni affermazione di belligeranza o di stati di belligeranza.
Nel contesto delle ostilità del 1973, il Consiglio adottò la sua risoluzione 338, in cui chiedeva in particolare che le parti coinvolte avviassero negoziati di pace. Nel 1974, l’Assemblea Generale riaffermò i diritti inalienabili del popolo palestinese all’autodeterminazione, all’indipendenza, alla sovranità e al ritorno. L’anno successivo creò il Comitato per l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese.
Le risoluzioni citate e molte altre ancora non sono state prese in considerazione da Israele (4).
Per concludere, ciò che caratterizza attualmente lo Stato d’Israele è la persistenza di un colonialismo residuale del secolo scorso, che costringe gli israeliani a vivere nella paura del ghetto autocostruito e che continua a dominare e discriminare il popolo palestinese, a continuare a massacrarlo dopo averlo in gran parte espulso dalla sua terra e ghettizzato (giudaizzazione della Galilea, Yehud Ha Galil). Questa realtà coloniale, che si è tradotta anche in un rigoroso apartheid di fatto, fa parte della storia e caratterizza il progetto politico sionista fin dalle sue origini. Fu contro questa impresa coloniale che i palestinesi iniziarono e oggi continuano la resistenza.
(1) Questa comunità ebraica aveva un carattere coloniale tradizionale, in quanto, per lavorare le loro terre, i coloni facevano ampiamente ricorso allo sfruttamento del lavoro di braccianti arabi. Venuti per lavorare la terra con le loro mani, questi primi coloni si erano trasformati, grazie allo sfruttamento della manodopera araba, in piccoli proprietari agricoli, molto prosperi rispetto ai livelli di vita in Palestina a quell’epoca e che non si ponevano problemi di tipo nazionalistico. I vecchi ebrei palestinesi accolsero con ostilità e sospetto l’arrivo degli immigrati della prima aliyah (gli Amanti di Sion), vedendo in essi elementi capaci di sovvertire il loro tradizionale modo di vita, e concorrenti pericolosi nella distribuzione delle sovvenzioni inviate dagli ebrei della diaspora. Essi manifestarono apertamente la loro ostilità ai nuovi venuti e giunsero al punto, nel 1924, di firmare una dichiarazione antisionista congiunta con il Consiglio superiore musulmano di Gerusalemme.
(2) Nel 1911, 1.000 ettari furono acquistati dal Fondo Nazionale Ebraico dall’assente proprietario terriero di Beirut, tale Sursuk. Per questo furono pagate delle tangenti al walî (governatore) ottomano di Beirut che permisero di destituire il kaimakan (prefetto) di Nazareth, un palestinese che vi si opponeva. Si ottengono così titoli di proprietà privata di tipo occidentale. Ciò implica la fine del vecchio regime fondiario comunitario che, in precedenza, non consentiva l’alienazione della terra senza il mantenimento dei mezzadri che da tempo immemorabile la coltivavano di padre in figlio. Si trattava evidentemente di un acquisto che permetteva di sfrattare le comunità contadine che vivevano lì e ritenevano che la terra che coltivavano fosse loro.
(3) Alla forma prevalente di colonizzazione ante 1^ GM se ne affianca, dopo la seconda aliyah, una seconda, caratterizzata dalla sostituzione della manodopera araba con manodopera ebrea. Questo fatto comporta un notevole cambiamento, sia nei rapporti con i palestinesi sia nel rapporto all’interno del nuovo yishuv. La lotta contro il lavoro arabo e per la conquista del lavoro ebreo, condotta dagli “operai di Sion”, è una lotta aspra, violenta: si tratta di imporre agli imprenditori la segregazione razziale nelle assunzioni. Si svolge su due fronti: contro la borghesia ebraica che preferisce l’arabo all’ebreo e contro i lavoratori arabi che sono suoi strumenti e i suoi “alleati”.
L’esclusione sistematica degli arabi dal nuovo mercato del lavoro non risponde soltanto ad una necessità ideologica e politica del sionismo; costituisce anche un imperativo economico e sociale per le masse di nuovi immigrati provenienti dall’Europa centrale e orientale, che non hanno altro capitale che le loro braccia, ma che non sono competitivi rispetto ai lavoratori arabi. Nasce la dinamica che sovrapporrà il vuoto dello spazio sognato allo spazio reale palestinese; e sono proprio gli “operai di Sion” che elaboreranno gli strumenti dell’espulsione degli arabi, un’espulsione socio economica prima, spaziale poi.
(4) Nel giugno 1982 Israele invase il Libano con l’intenzione dichiarata di eliminare l’OLP. Dopo aver negoziato un cessate il fuoco, le forze dell’OLP si ritirarono da Beirut e si trasferiscono nei paesi vicini. Nonostante le garanzie fornite riguardo alla sicurezza dei profughi palestinesi rimasti sul territorio libanese, nei campi di Sabra e Chatila verranno perpetrati massacri su larga scala.
Nel settembre 1983, la Conferenza internazionale sulla questione palestinese adottò i seguenti principi: la necessità di opporsi alla creazione di insediamenti da parte di Israele e alle misure adottate da quest’ultimo per modificare lo status di Gerusalemme, il diritto all’esistenza di tutti gli Stati della regione entro confini sicuri e riconosciuti a livello internazionale e la realizzazione dei diritti legittimi inalienabili del popolo palestinese.
https://www.google.it/books/edition/L_invenzione_del_popolo_ebraico/xOccwPHBbsQC?hl=it&gbpv=1&printsec=frontcover
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=YSSRD40upac&ab_channel=FabrizioDeAndreVEVO
Il libro di Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010, viene da me citato in diversi post. Un rinvio a un articolo di Shlomo Sand (Le Monde Diplomatique/il manifesto del settembre 2008) sul tema è presente anche in un post al quale mi richiamo in questi giorni, ossia quello dal titolo: “Che c’entra l’acetone con la questione palestinese?” (17-12-2019). Un altro articolo di Shlomo Sand, “Il mito degli antenati ebraici”, rielaborazione di un intervento al FestivalStoria di Torino (il manifesto, 13-10-2011, p.11) è da me ripubblicato nel blog in data 4 ottobre 2011, mentre un mio post del 29 maggio 2017 ha per titolo “La vera storia di Lawrence d'Arabia”. E altro ancora.
EliminaIsraele, com’è incredibile la storia di questo Stato nato dal nulla ma non nel nulla, cioè in una terra abitata, densamente abitata, dagli arabi palestinesi. Com’è singolare poi la storia degli ebrei askenaziti, cioè degli ebrei dell’Est Europa, cioè la storia dei cazari. L’ebreo Arthur Koestler la racconta bene nel suo libro La tredicesima tribù, Utet. Ma quanti la conoscono?
Insomma, non scopro la questione palestinese oggi, e del resto in questo blog, per chi avesse voglia di leggere e qualche volta conoscere qualcosa di nuovo, trova materiale a badilate.
Grazie per questo articolo (altro che post) domenicale.
RispondiEliminaPietro
grazie Pietro. nel testo c'era qualche errore di battuta o di fretta che ora ho corretto.
EliminaInteressantissimo e documentatissimo. Ma dove lo trovi il tempo? :)
RispondiEliminaSu meteo.it 😄 ciao
EliminaGrazie, articolo interessantissimo per la sua focalizzazione sulla questione fondiaria.
RispondiElimina(Peppe)
Lo stravolgimento della legislazione ottomana sui terreni abbandonati (Mahlul) e in generale sui titoli di possesso fondiario, fu un fatto fondamentale e ciò vale per comprendere la situazione in cui si trovarono i contadini e proprietari palestinesi. Per esempio, solo raramente i palestinesi in Cisgiordania hanno un kushan (titolo di proprietà). Anche quando possiedono un kushan, spesso sono necessarie indagini approfondite per determinarne gli esatti confini dell'appezzamento a cui si riferisce un dato kushan.
EliminaDurante gli anni del dominio israeliano nella Cisgiordania, per esempio, Israele ha implementato una pratica che prima non esisteva, in cui migliaia di dunum (decine di migliaia di ettari) furono dichiarati territorio demaniale. Chiunque rivendicasse la proprietà del terreno in questione aveva ufficialmente diritto a farlo, ma questo diritto è stato negato agli “assenti”, cioè ai palestinesi fuggiti o espulsi da quei territori. “La mancata d’iscrizione nel catasto nella maggior parte della Cisgiordania costituiva una precondizione per dichiarare parti sostanziali della Cisgiordania come terra statale [israeliana]”.
Si legge in un approfondito studio norvegese (A Guide to Housing, Land and Property Law in Area C of the West Bank, February 2012) sulla questione: “È difficile capire come la politica di tali dichiarazioni sia coerente con la preoccupazione dichiarata per i diritti di proprietà degli assenti [che non erano assenti per proprio capriccio, ovviamente]. Inoltre, le autorità non hanno esitato ad assegnare terreni di proprietà degli assenti – interamente registrati nel Land Registro prima del 1967 – per la costruzione di insediamenti israeliani, anche se non era legale, anche secondo i propri standard”. Quindi: “la mancata iscrizione nel catasto costituiva un fattore determinante e alla fine permise a Israele di dichiarare centinaia di migliaia di dunum (decine di migliaia di ettari) di terreno in Cisgiordania come terreno statale negli anni '80 e '90”.
“… è stato dimostrato che durante gli anni del suo dominio in Cisgiordania, Israele ha preso il sopravvento varie misure per aumentare notevolmente l'estensione dei terreni definiti di proprietà demaniale o terreno demaniale. Nel 1967 la Cisgiordania (la cui superficie totale è di circa 5,7 milioni di dunum o 570.000 ettari) comprendevano meno di 530.000 dunum (53.000 ettari) di terreno statale registrato nel catasto. Entro la fine del 2009, la quantità di terreno statale in Cisgiordania ha raggiunto un cifra di oltre 1,4 milioni di dunum (140.000 ettari), mentre altri 500.000 dunum (50.000 ettari) sono definiti dalle autorità israeliane come Survey Land, ovvero terra di cui lo Stato rivendica la proprietà” (p. 59).
“Secondo la decisione del governo, le terre dello Stato possono essere assegnate ai palestinesi solo se si tratta di rifugiati”. In tutti gli altri casi, “Costruire alloggi per gli arabi che vivono nei campi profughi in Giudea, Samaria e Striscia di Gaza, in collaborazione con il Consiglio di Amministrazione, deve farlo la popolazione palestinese accontentandosi del terreno privato che possiede, mentre il terreno del governo – di cui decine di migliaia di ettari dichiarati da Israele come terra statale – sono riservati agli insediamenti e alle esigenze militari”.
Nello spazio di un post, già di per sé troppo lungo (per gli standard di lettura attuali), non è stato possibile trattare la questione se non in modo molto superficiale.
Grazie ancora per la puntualizzazione.
EliminaL'accuratezza della sua analisi era implicita già nel testo principale; quel riferimento alla qualità dei territori censiti dai sionisti mi ha impressionato quanto le statistiche sugli eccidi, che immagino fossero ad essa correlati.
(Peppe)
impressionante.
RispondiEliminal'analisi, intendo.
nonchè la capacità di distillare la formidabile quantità di informazioni derivante da un lavoro davèro ragguardevole.
👍
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