Sabato scorso, parlando della cometa C/2023 P1 e di uno strano oggetto che nel 2017 ha attraversato il nostro sistema solare, ho citato il telescopio Pan-STARRS 1, alle Hawaii. Mi piacerebbe dire qualcosa dei telescopi dell’osservatorio di Cima Ekar (Asiago), a pochi anni luce da casa mia, dotato del più grande strumento ottico presente su suolo italiano (penso venga dopo quelli delle Canarie a livello europeo), oppure della stazione radioscopica di Pôle des Étoiles, vicino al paesino di Nançay, nella foresta francese. Sarò per un’altra occasione, visto il successo di quel post (numerosissimi i commenti).
Invece torno a parlare delle Hawaii, ma non di telescopi. Con le sue 137 isole (solo sette abitate) le Hawaii (o isole Sandwich) sono considerate uno degli ultimi paradisi sulla terra. Ogni anno più di 9 milioni di turisti vanno lì ad assaporare l’esotismo dell’arcipelago. L’8 agosto un incendio ha devastato parte dell’arcipelago hawaiano, riducendo in cenere la località balneare di Lahaina, provocando 115 morti e 110 dispersi. Questo drammatico evento ha messo in luce il lato nascosto di queste isole paradisiache.
Dietro la natura rigogliosa, le acque turchesi che bagnano le spiagge di sabbia nera, i vulcani ribollenti, le ghirlande di fiori, le ballerine di hula e le melodie dell’ukulele, si nasconde una realtà molto meno idilliaca. Gli abitanti autoctoni delle isole sono sotto occupazione da parte degli Stati Uniti da oltre centoventi anni.
Prima che gli inglesi di James Cook, nel 1778, rendessero nota l’esistenza di questo Eden, e ben prima di diventare la cinquantesima stellina della bandiera statunitense, le varie isole dell’arcipelago e i loro abitanti – i polinesiani – vivevano una vita modesta, tranquilla e relativamente isolata in mezzo al Pacifico, punteggiata dai loro diversi rituali religiosi e dai capricci della natura.
I “bianchi” arrivarono con malattie sconosciute agli hawaiani, e la popolazione locale fu decimata. Quelli che sopravvissero furono espropriati delle loro terre più fertili. Il triste destino, purtroppo classico, di molti popoli sparsi per il mondo a contatto con la nostra sedicente superiore civiltà.
Europei e statunitensi individuarono molto presto le potenzialità di questo piccolo arcipelago: la fertilità dei suoli vulcanici, piogge abbondanti e un clima temperato con pochissime variazioni, facevano di quelle isole il luogo ideale per piantare canna da zucchero e ananas, due colture particolarmente redditizie all’epoca. Dall’inizio del XIX secolo, investitori di ogni ceto, tra i quali attivi missionari, si appropriarono, con la forza o a buon mercato (cosa che, per i primi abitanti, sembrò una fortuna), gran parte dell’arcipelago, lasciando ufficialmente che una famiglia locale, chiamata in seguito Royal Hawaii, amministrasse il territorio.
Avamposto yankee, scalo adatto al commercio con la Cina e stazione di reclutamento per le baleniere, nel 1881, il segretario di Stato, James Blaine, dichiarava che le Hawaii facevano parte del “sistema americano” ed annunciava che, ove l’indipendenza delle Hawaii fosse minacciata, gli Stati Uniti “avrebbero senza esitazione fatto fronte alla situazione così alteratasi, cercando una soluzione palesemente americana ai gravi problemi che sarebbero affiorati”. Venne ceduta a Washington, tra gli altri privilegi accordati, l’isola di Oahu, con Pearl Harbor.
Nel 1891, il re hawaiano morì durante una visita negli Stati Uniti. Gli successe la sorella Lili’uokalani, tentò di redigere una nuova costituzione che ripristinasse il potere della monarchia e il diritto di voto delle persone economicamente prive di diritto di voto. Perseguì una politica che mirava all’eliminazione dell’influenza americana; politica che, “minacciando i potenti elementi americani suscita una pronta controffensiva”. Infatti, latifondisti e affaristi americani la deposero e imprigionarono. Dopo che reparti di marina da sbarco furori scesi dalla nave da guerra Boston, fu formato un comitato di sicurezza costituito principalmente dai figli dei missionari, e il 17 gennaio 1893, la regina fu deposta. Si stabilirono negoziati per l’annessione agli Stati Uniti.
John Leavitt Stevens, ministro degli Stati Uniti presso il Regno hawaiano, scrisse: “credo che dobbiamo accettare il mandato come si addice a una grande nazione e non comportarci da prima e o da codardi”. Fece innalzare la bandiera americana sul palazzo del governo a Honolulu. Gli Stati Uniti annessero l’arcipelago in nel 1898 (*).
L’età dell’oro delle grandi piantagioni non durò oltre il secolo. A causa dei salari molto più bassi dei loro disgraziati colleghi caraibici e sudamericani, le culture hawaiane persero la loro redditività nel corso del XX secolo e sono state gradualmente abbandonate. Vennero sostituite da una nuova economia, quella del turismo. Ci si rese conto che quella singolare cultura autoctona poteva diventare una risorsa. Il problema, come sempre accade, è che di quella cultura ne venne fatto un prodotto di consumo attirando i gonzi con ghirlande di fiori e danze hula (**).
Oggi, nonostante ci siano 1,4 milioni di residenti hawaiani, si stima che solo il 10-20% di loro siano di origine indigena. E oltre a queste considerazioni culturali si aggiunge un problema fondamentalmente economico, perché se il turismo permette agli indigeni di guadagnarsi da vivere (il 35% di loro dipende da esso), buona parte di questi discendenti dei primi abitanti semplicemente non hanno più i mezzi per vivere in patria.
Il costo degli alloggi è altissimo, e per molti di loro è impossibile pagare l’affitto. Basta andare nei quartieri periferici delle località turistiche per rendersi conto da dove provengono i senzatetto, sempre più numerosi. Per il cibo è la stessa cosa. Prima del XIX secolo gli hawaiani eravamo autosufficienti e potevano sfamare tutta la nostra popolazione senza problemi. Oggi devono importare quasi tutto ciò che consumano. Dicono che pagano il prezzo del paradiso.
Secondo il Bureau of Economic Analysis del Dipartimento del Commercio americano, le Hawaii sono, tra tutti gli Stati, quello dove il costo della vita è più alto. E di gran lunga. Sempre più nativi hawaiani sono costretti all’esilio nel continente americano, soprattutto a Las Vegas – dove vive la principale comunità della diaspora, facendo i lavori, ancora una volta, più umili in hotel e ristoranti – o in California.
Oggi ci siano più nativi che vivono fuori dall’arcipelago che nella loro terra: nel 2021, 309.800 nativi vivevano alle Hawaii e 370.000 nel continente americano. Questa emarginazione degli indigeni e della loro cultura ha probabilmente giocato un ruolo significativo nella diffusione degli incendi dell’agosto scorso. I grandi proprietari di piantagioni per i loro scopi agricoli tagliarono l’approvvigionamento idrico di Lahaina, che ora Wikipedia presenta qual è, ossia una zona arida priva di acqua, tacendo però che questa città, dove tre settimane fa era impossibile trovare acqua per spegnere gli incendi, un tempo era soprannominata la Venezia del Pacifico!
All’epoca, Lahaina era la capitale del regno delle Hawaii in parte proprio perché c’era abbondanza di acqua. Le piantagioni hanno prosciugato queste risorse, i corsi d’acqua sono stati deviati mediante la costruzione di gallerie e canali, le falde acquifere venivano sfruttate mediante relativi pozzi di scrematura, ecc.. Quando le piantagioni furono abbandonate, le lasciarono a maggese, invase da piante introdotte anche da stranieri per ottenere foraggi di qualità (spinacio del faraone o erba di melassa, in particolare), che divennero piante invasive proliferanti di cui l’arcipelago non riesce più a liberarsi e ora trasformatisi in abbondante combustibile durante i recenti incendi.
(*) Morison e Commager, Storia degli Stati Uniti, La Nuova Italia, 1961, vol. II, pp. 232-24.
(**) Come insegna Debord, “sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è divenuto banale”, molto banale.
Se permetti, completo questa interessante carrellata con almeno due personaggi nati alle Hawaii. Il primo è il Premio Nobel per la Pace Barack Obama, attuale presidente degli Stati Uniti. Che dici? Non è l'attuale presidente? Mi sa che ti sbagli. Potevi farmi obiezioni più fondate sul Nobel.
RispondiEliminaLa seconda è Nicole Kidman, che nacque a Honolulu da genitori australiani che studiavano lì. Qui si incrociano due miei sogni non realizzati: il primo, studiare alla University of Hawaii. Il secondo... beh, lasciamo perdere.
con Nicole vorresti giocare al dottore
Eliminail post vuole sottolineare il diverso metro con cui misuriamo i diversi imperialismi, quelli di ieri e di oggi e sicuramente anche quelli di domani
oggi deprechiamo la Russia che vuole tenersi la Crimea, a ben vedere molto più a buon diritto degli Usa a riguardo delle Hawaii e di tanto altro.
non vedo l'ora che la guerra finisca anche perché voglio vedere che piega prenderà la sedicente democrazia in Ucraina