lunedì 4 settembre 2023

Il circo

 


Finalmente sappiamo a che cosa serve una legge che fissa il salario minimo.

Il carattere vago e l’opportunismo di Elena Schlein e di tanti altri come lei è ben raffigurato da ciò che dice e soprattutto da quello che non può dire, perché dubito che abbiano ben chiaro in alcun modo il contenuto reale della loro crisi di opzione politica e di ciò che si prospetta.

Chi ha ben chiara la propria strategia sono i detentori del capitale e i loro ideologi, ai quali è stato affidato il compito di mascherare la scelta politica di porre fine allo stato sociale. Compito fin qui svolto ammirevolmente. La sinistra moderata ha accompagnato questo progetto, ormai alle sue fasi finali, con entusiasmo.

Del resto non se la passano meglio gli altri, per esempio quello che fu il movimento politico post-ideologico (che cazzata) che doveva portare a un rinnovamento radicale della politica e della società italiana, la mitica democrazia diretta attraverso le reti sociali era solo un’apparenza della democrazia e, del resto, il suo fallimento è stato persino clamoroso.

Non mi nascondo le difficoltà e i cambiamenti della nostra epoca. Per esempio, ieri, mentre percorrevo alcuni quartieri punteggiati, anzi, costituiti prevalentemente da ville, villini e belle casette, pensavo alla vecchia classe operaia manifatturiera, che non esiste più (sia chiaro, la mia non è nostalgia). Non che non esistano più gli operai e i salariati, ma è il vecchio contesto sociale che è cambiato.

Hanno rotto le palle ad oltranza con il mito neoliberista della “globalizzazione” (la teoria dei “vasi comunicanti” di Eugenio Scalfari: cedere quote di benessere (congelare i salari) ed “esportare” i diritti sociali là dove il lavoro subisce lo sfruttamento più duro del capitale), quando in realtà le multinazionali hanno mantenuto un ancoraggio nazionale e ora si vorrebbe un ritorno al protezionismo perché fa agio a Washington ...

I profondi cambiamenti nelle strutture produttive e le linee di frattura tra le classi sociali rendono evidentemente impossibile l’attuazione delle politiche riformiste come i più volenterosi ed illusi potevamo ancora immaginare trent’anni fa. Ecco perché le ricette classiche e anche i simbolismi del passato non funzionano più.

Tuttavia, il disastro delle sinistre italiane è il più sorprendente, perché hanno dilapidato un capitale storico importante. Da molto tempo queste sinistre, ciò che oggi passa per essere sinistra, ossia sinistra-centro, centro-sinistra, sinistra radicale, sono ben oltre la crisi di rappresentanza e di esaurimento dei riferimenti ideologici operaisti.

Non ci s’interroga più su quali valori e quale strategia. Queste sinistre sono completamente integrate nel grande circo ideologico che fa il verso alla destra, ricorrendo certe forme di populismo apparentemente progressista (le divisioni tra eurocritici riformisti ed euroscettici totali), oppure abbracciando altre cause (femminismo, ecologia, LGTBI, ecc.), che comunque non si lasciano colonizzare politicamente.

Che fare? È questa la solita domanda alla quale, ripeto per l’ennesima, attualmente nessuno individualmente può pensare di dare risposta positiva. Il termine “rivoluzione” è praticamente scomparso dal gergo politico europeo ed è stato sostituito da eufemismi quali lotta alla globalizzazione, alle disuguaglianze, eccetera. E stiamo parlando di una frazione della sinistra, detta “radicale”, poiché la fanghiglia del Partito democratico e dintorni ha da sempre l’ambizione politica precipua d’incarnare una socialdemocrazia manageriale.

E, del resto, quale sarebbe il soggetto sociale che avrebbe interesse ad una reale alternativa? I cosiddetti extracomunitari, i nuovi paria della società? Nemmeno loro. La forte presenza rumena e dell’est Europa in genere, per esempio, oppure la comunità cinese, hanno come unico e giustificato obiettivo di migliorare le proprie condizioni e men che meno queste persone sono interessate, per note vicende storiche, a ciò che implica la parola “comunismo”.

È scontato e banale dirlo, ma siamo in un momento storico di transizione e che ci sconcerta come pochi altri, di quelli che accadono una volta ogni secolo e la cui portata, per così dire “olistica”, è di difficile decifrazione. Nel momento in cui venissero meno drammaticamente le ragioni individuali e di classe che garantiscono la stabilità al sistema, solo in quel caso potrebbe aprirsi un nuovo discorso politico. Sempre che l’estrema destra (ma non l’attuale circo Barnum) non giochi d’anticipo.

6 commenti:

  1. Non è che ci sia un automatismo perfetto, però bisogna ammettere che con il rimescolamento delle classi anche la sinistra deve ricollocarsi. La prospettiva neofeudale stratifica la società come segue: 1) un Primo Stato di capitalisti che sono diversi dal padrone brianzolo, sono pochi e immensamente ricchi; 2) un Terzo Stato fatto di ex benestanti in via di proletarizzazione e di già proletari preferibilmente meticci, dediti a lavori di merda o nessun lavoro; 3) un Secondo Stato (i chierici) fatto di "urban professionals", politicanti/burocrati, letterati/artisti/giullari e, perché no, i residui preti, preferibilmente gesuiti. Al Secondo Stato è delegato il compito di istruire il Terzo Stato sulla nuova ideologia liberal, ovvero desinistra.

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    1. 😄 dimentichi il quarto, i miei vicini di casa che non hanno voglia di fare un cazzo e io devo pulire i tombini dalle foglie per loro

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    2. seriamente allora: il padrone brianzolo e il padroncino veneto che fanno come cazzo gli pare (ne conosco tanti) in quale stato li piazzi? non mi dire nel terzo che sennò do le dimissioni

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    3. Morti/falliti, loro o gli eredi. Risucchiati nel terzo stato. In Inghilterra:yeomanry.
      Non ti dimettere, per favore. Sto parlando della seconda metà del secolo

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  2. È il postmoderno, baby!
    Pietro

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