Lo sviluppo capitalista, modificando i rapporti di forza tra i singoli Stati, crea le premesse dello squilibrio tra le potenze e i motivi dello scontro tra esse. In altri termini, lo sviluppo del mercato mondiale non è in grado di contenere la concorrenza tra potenze imperialistiche.
Gli accordi di Yalta, nel 1945, spartirono l’Europa tra Usa e Urss, ma non riuscirono a sancire l’assetto bipolare anche nel resto del mondo. La cosiddetta guerra fredda fu in realtà una guerra calda, combattuta soprattutto in Asia, ove gli Stati Uniti ebbero il 90% delle loro perdite dopo il 1945, e dove in totale si contarono 20 milioni di vittime.
L’Asia era è resta l’epicentro delle tensioni. Gli esiti della globalizzazione, segnatamente l’ascesa prorompente della Cina, segnano l’instaurarsi di nuovi rapporti di forza. L’idea di un capitalismo globale pacificato, di un ordine guidato dagli Stati Uniti, non teneva conto del ciclo strategico dell’imperialismo, ossia della storia.
Bill Clinton del 2000 esortava il Congresso ad ammettere la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio. L’ingresso della Cina arricchirebbe gli americani e aiuterebbe a convertire la Cina alla libertà, affermava: «Non c'è dubbio che la Cina abbia cercato di reprimere Internet», ammetteva Clinton ridendo. «Buona fortuna! È un po’ come cercare di inchiodare la gelatina al muro».
A ridere è il vecchio Marx: hanno scoperto che la crescita di un paese capitalista va a scapito di quella di un altro. L’obiettivo di integrare la Cina è stato sostituito da un dibattito su come disintegrare la Cina. Ecco che Washington punta a un disaccoppiamento, ovvero a una nuova industrializzazione americana basata su massicce sovvenzioni dell’economia, con l’Inflation reduction act (IRA), come esempio forte.
L’aumento della spesa federale per le infrastrutture, miliardi di dollari per sostenere la capacità dell’America di guidare il mondo nei semiconduttori e altre tecnologie, rendere le catene di approvvigionamento più autonome (il reshoring o friend-shoring che dir si voglia), insomma una nuova strategia che segna la fine del ciclo liberista per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Recentemente, presso l’Hutchins Center on Fiscal and Monetary Policy, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden, Jake Sullivan, ha delineato l’agenda economica internazionale dell’amministrazione e ha spiegato in che modo la strategia dell’amministrazione è stata modellata, di come la strategia industriale non sia solo un imperativo di politica interna, ma cruciale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Dice Sullivan: «Quando il presidente Biden è entrato in carica più di due anni fa, il paese ha dovuto affrontare, dal nostro punto di vista, quattro sfide fondamentali. In primo luogo, la base industriale americana era stata svuotata. La visione dell’investimento pubblico che aveva dato energia al progetto americano negli anni del dopoguerra – e in effetti per gran parte della nostra storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a una serie di idee che sostenevano il taglio delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione rispetto all’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio fine a sé stessa.
«In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li hanno realizzati, si sono spostate all’estero. E il postulato che una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, era una promessa fatta ma non mantenuta.
«C’era un presupposto al centro di tutta questa politica: che i mercati allocca sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che facevano i nostri concorrenti, indipendentemente da quanto crescessero le nostre sfide condivise e da quanti guardrail abbattessimo.
«Un altro presupposto implicito era che il tipo di crescita non aveva importanza. Tutta la crescita è stata considerata come una buona crescita. Così, varie riforme si sono combinate e si sono unite per privilegiare alcuni settori dell’economia, come la finanza, mentre altri settori essenziali, come i semiconduttori e le infrastrutture, si sono atrofizzati. La nostra capacità industriale, fondamentale per la capacità di qualsiasi paese di continuare a innovare, ha subito un duro colpo.
«Gli shock di una crisi finanziaria globale e di una pandemia globale hanno messo a nudo i limiti di questi presupposti dominanti. La seconda sfida che abbiamo dovuto affrontare è stata l’adattamento a un nuovo ambiente definito dalla competizione geopolitica e di sicurezza, con importanti impatti economici.
«Gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni si era basata sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo, che portare i paesi nell’ordine basato sulle regole avrebbe incentivato loro di aderire alle sue regole. Non è andata così. In alcuni casi lo ha fatto, e in molti casi no».
Come dicevo, l’unilateralismo di Washington puntava a fare degli Stati Uniti l’unica “Roma”, la superpotenza in grado di governare, oltre alla moneta mondiale, le dinamiche strategiche dell’economia globale, avendo come sue truppe scelte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. La geopolitica aveva perso la sua rilevanza, bastava ciò che veniva deciso nelle cattedrali americane del potere politico e finanziario.
Sennonché, come osserva Sullivan, mentre la Cina «ha continuato a sovvenzionare su vasta scala sia i settori industriali tradizionali, come l’acciaio, sia le industrie chiave del futuro, come l’energia pulita, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate», gli Stati Uniti «non solo hanno perso la produzione», ma hanno visto «erosa la loro competitività nelle tecnologie critiche che avrebbero definito il futuro».
Ecco che allo spirito liberale americano, buono solo quando fa comodo, è subentrata una lunga lista di diktat protezionistici e isolazionisti che ricordano ben altri tempi: non possono concludere accordi commerciali, non possono negoziare regole digitali globali, non possono attenersi alle decisioni del WTO e non possono contribuire alla riforma del sistema di Bretton Wood. L’America ha perso la fiducia nel multilateralismo economico nel momento in cui ha scoperto che il suo passato è un altro mondo.
Infine, la domanda a cui rispondere è: come può la Cina essere schiacciata in un ordine guidato dagli Stati Uniti in cui l’America stessa ha smesso di credere? Risposta: gli Stati Uniti, piaccia o no, non hanno alternativa, dovranno farlo dapprima con la propaganda e le provocazioni, quindi con la guerra, possibilmente mandando al macello altri, come gli ucraini. Ecco la necessità di risvegliare le coscienze intorpidite.
Bell'articolo, grazie.
RispondiElimina(Peppe)
grazie molte a te
Eliminahttps://www-thenation-com.translate.goog/article/world/china-war-taiwan-military-power-asia/?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc
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