venerdì 30 giugno 2023

La febbre non è una malattia, l'antipiretico non è una cura

 

Nessun organismo politico o monetario possiede il reale potere di regolare i prezzi, di muoversi all’interno delle leggi capitalistiche e di porsi come correttivo degli squilibri. In ogni caso non si deve esagerare il risultato finale di queste strategie di “riequilibrio”, poiché esse agiscono contro gli effetti, non contro le cause di questi effetti.

Quando l’impennata dell’inflazione si manifestò ai quattro angoli del mondo, gli economisti e le autorità monetarie affermarono che si trattava di un fenomeno temporaneo. Fiduciosi nella saggezza e nell’efficienza dei mercati, hanno visto nell’aumento dei prezzi un’oscillazione temporanea legata a un’impennata della domanda, sullo sfondo di una ripresa economica post-Covid. La “mano invisibile” del mercato avrebbe presto risolto questo problema: l’offerta si sarebbe adeguata alla domanda, il che avrebbe ridotto l’inflazione.

In realtà, come poi è risultato palese, l’inflazione stava generando ripercussioni lungo tutta la filiera produttiva, dalle materie prime ai prodotti finiti. Diversi fattori concorrevano a rendere duraturo questo trend inflazionistico:

1) la ripresa economica, segnata da un rimbalzo della domanda.

La ripresa dei consumi dopo la revoca delle restrizioni sanitarie, ha portato a un massiccio aumento della valuta circolante nell’economia, in un contesto in cui la produzione non è riuscita a tenere il passo, a causa di numerose rotture nelle filiere produttive e di approvvigionamento. In altre parole, una minore circolazione di valori (merci) è rappresentata da una maggiore circolazione di denaro, che provoca un aumento generale dei prezzi.

2) la scarsità di componenti e materie prime, difficoltà nei circuiti di approvvigionamento internazionali (i metodi di produzione “just in time”), l’aumento dei costi di produzione legato all’aumento del valore di alcune merci, cioè al tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione.

Negli ultimi decenni, la globalizzazione ha svolto un ruolo importante nella pressione al ribasso sui prezzi. Da un lato, integrandosi nel mercato mondiale, Cina, Russia ed Europa orientale hanno portato nuove risorse e un vasto bacino di manodopera a basso costo. D’altro canto, lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, nonché la concentrazione della produzione nelle mani di colossi multinazionali hanno generato significative “economie di scala”. Questo aumento della produttività e i bassi salari hanno esercitato pressioni al ribasso sui prezzi.

Ora questa tendenza si sta invertendo. I nazionalismi economici, il protezionismo e la balcanizzazione del capitalismo aggravano le rotture nelle catene di approvvigionamento globali, portano a cali di produttività e quindi a prezzi più elevati causati da un aumento della quantità di lavoro socialmente necessario per la produzione dei beni in questione.

3) non ultimo motivo, la gigantesca liquidità (capitale fittizio) con cui gli Stati e le banche centrali avevano invaso l’economia mondiale dalla crisi del 2008.

Marx spiega che il capitale fittizio «non rappresenta altro che l’accumulazione di diritti, di titoli legali su una produzione futura, il cui valore monetario o valore-capitale a volte non rappresenta affatto capitale, come è il caso dei titoli del debito pubblico, a volte è regolato da leggi indipendenti dal valore del capitale reale che esse rappresentano.»

La crisi del 2008-2009 ha messo in luce il ruolo di questo capitale fittizio nella formazione di enormi bolle speculative. Da allora, queste bolle sono state gonfiate iniettando quantità di liquidità senza precedenti nell’economia, con il rischio di aggravarne gli squilibri interni e prefigurare una crisi ancora più grave.

Da questo punto di vista, la risposta delle classi dirigenti alla crisi sanitaria, a partire da marzo 2021, ha giocato un ruolo importante nella crisi inflazionistica. Dall’inizio della pandemia, più di 16 trilioni di dollari sono stati iniettati nell’economia globale sotto forma di vari sussidi e spese pubbliche. Le banche centrali ne hanno aggiunti altri 10 trilioni.

Negli Stati Uniti le varie misure di “stimolo” hanno riguardato il 25% del PIL del Paese. Risultato: mentre nel 2008 la Fed deteneva il 7% dei buoni del tesoro americani, ora ne detiene circa il 40%. Allo stesso modo, le attività della Banca centrale europea ammontano ora al 60% del PIL della zona euro, rispetto al 20% nel 2008.

Nei Paesi più avanzati è l’aumento dei prezzi dell’energia il responsabile di una grande frazione dell’inflazione (più della metà). Nell’Eurozona, l’energia e il cibo rappresentano i tre quarti della spinta inflazionistica. La guerra in Ucraina, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non ha innescato la crisi inflazionistica, ma ha indiscutibilmente peggiorato la situazione costringendo molti paesi ad acquistare a prezzi maggiori a causa di un’offerta ridotta.

Ciò che possono fare gli organismi politici e monetari è agire sui meccanismi del credito e della creazione di moneta, che è proprio ciò che stanno facendo con l’aumento dei tassi, raffreddando la domanda di beni e di credito. L’obiettivo è provocare una recessione “limitata e controllata”.

Si tratta di una scelta politica ancor prima che economica. C’è un motivo di fondo, e la cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza tra le parti in causa, ossia tra il capitale e il lavoro. C’è una relazione diretta con le dinamiche di valorizzazione del capitale, in particolare con la caduta del saggio di profitto, la cui esistenza le imprese tendono a negare mantenendo i propri margini, ossia rifacendosi sui prezzi. Si tratta di una tendenza generale della produzione capitalistica, quella di un rastrellamento sempre più esteso di plusvalore sociale che poi viene a distribuirsi sia secondo rapporti di forza tra i diversi capitali in lotta tra loro e sia secondo criteri di classe sempre più rigidi.

1 commento:

  1. "La guerra in Ucraina, contrariamente a quanto si pensa comunemente, non ha innescato la crisi inflazionistica, ma ha indiscutibilmente peggiorato la situazione costringendo molti paesi ad acquistare a prezzi maggiori a causa di un’offerta ridotta." Sennonché, pur essendo per un verso esogena, in quanto fattore propriamente causale, rispetto alla dinamica inflazionistica, la guerra si configura, per un altro verso, come un evento propulsivo nell'innescare la dinamica degli investimenti. Gli esempi non mancano: dai reiterati stanziamenti di miliardi e miliardi di dollari che l’amministrazione Biden ha varato a favore dell’invio di armi in Ucraina al robusto programma di riarmo della Germania (e di altri paesi europei, fra cui il nostro). Insomma, come è accaduto molte altre volte nel corso della storia, la guerra è una protesi preziosa per correggere la tendenziale caduta del saggio di profitto e per impedire il crollo del modo di produzione capitalistico. Trova perciò conferma la tesi leniniana secondo cui una tendenza tipica di questo periodo storico è la tendenza alla guerra. E però, dal momento che siamo di fronte a una crisi strutturale del modo di produzione, il pericolo è che una guerra locale, come quella ucraina, non sia sufficiente a permettere la ripresa. In tal caso, infatti, sarebbe necessaria una guerra generalizzata.

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