Persone benestanti alla ricerca di una misura oggettiva della povertà altrui, fattuale e percepita. Una misura dal punto di vista della società, ossia sull’idea e gli elementi di benessere più apprezzati dalla società, cosicché la dimensione della povertà, del benessere e della ricchezza, viene a corrispondere al carattere proprio del confinamento degli individui nei modelli di esistenza stabiliti dall’ordine sociale dominante.
Il sistema di correlazione tra il tenore di vita e gli altri indicatori, le “soglie” soggettive e relative, le variabili socio-demografiche e situazionali, il prevalere della componente individuale, culturale (un tempo anche biologica) e dei legami familiari e sociali. È precisamente in questo genere di merda sociologico/statistica che sguazzano sia la scienza accademica e sia i gestori della povertà al servizio dei padroni del mondo.
Spostando il discorso sulle generali, nonostante oggi nessuno possa più credere nel progresso sociale come orizzonte naturale della società, è pieno di gente che ti parla seriamente di “merito” e della “libertà delle opportunità”, che chiede ai poveri di assumersi la responsabilità di sé stessi cogliendo le opportunità che il sistema sociale può offrire loro; in caso contrario, sono legittimamente giudicati incapaci, irresponsabili o pigri.
Dunque, non solo come accumulo di handicap sociali, ma come nozione funzionale per assegnare un’identità negativa a chi non è disposto ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione. Non li sfiora minimamente il dubbio che la povertà, reale o percepita che dir si voglia, è anzitutto l’assenza di mezzi propri adeguati di sopravvivenza, ed è dunque consustanziale alla riproduzione contraddittoria dei rapporti di classe. Nulla di così difficile da comprendere.
Torniamo sempre al solito discorso, la negazione dello sfruttamento quale meccanismo fondamentale che consente alla classe dominante di appropriarsi del surplus sociale, generatore delle disuguaglianze materiali e dei rapporti di potere tra le classi. Ma i “dati” su base rigorosamente e asetticamente “scientifica” (ascisse, ordinate, torte e tortine), di tutto ciò non parlano.
Sia chiaro (lo dico per questi sapientini seduti in cattedra) che ciò non equivale a negare l’esistenza di altri meccanismi produttori di diseguaglianze e di altre forme di sfruttamento all’interno delle società capitaliste (pensiamo solo al lavoro delle donne), né a rivendicare che tutte le differenze negli stili di vita possono essere spiegate dallo sfruttamento capitalista; si tratta più semplicemente di ricordare che le forme di appropriazione e di espropriazione associate a questa forma principale e generale di sfruttamento sono essenziali per chiarire la struttura delle nostre società, sia dal punto di vista delle disuguaglianze materiali che dei rapporti di forza.
Come osserva lo stesso Marx, l'elemento originale del pensiero suo e di Engels non è la scoperta delle classi sociali, cosa evidente come il Monte Everest molto tempo prima che loro si mettessero a scrivere. E' invece la tesi che nascita, sviluppo e declino delle classi sociali, così come le lotte tra di esse, siano legati allo sviluppo di modi storici di produzione materiale. Da questo punto di vista, si tratta allora di spiegare in qualche misura le nefandezze morali qui segnalate in termini non morali: nei termini, ad esempio, del tipo di condizioni materiali che producono uno stato permanente di guerra, che dànno origine ad uno Stato oppressivo e che rendono norma lo sfruttamento umano. Non occorre immaginare che tali condizioni diano ragione di 'tutta' la malvagità umana o esentino i singoli individui dalla responsabilità morale. Si tratta solo di riconoscere che per essere buoni occorre essere benestanti, anche se l'essere troppo benestanti è fonte di vizi specifici. Del resto, gli esseri umani messi in condizioni di povertà e di oppressione tendono per lo più a non comportarsi nel modo migliore, e chi lo fa sarà tanto più lodevole.
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