Con l’introduzione dell’euro contante non fu più possibile svalutare la nostra moneta in chiave competitiva. Data la forte dipendenza dai mercati finanziari a causa del debito e la scarsa propensione media per l’investimento innovativo (leggi: il capitalismo con le pezze al culo ma al timone di superyacht), dunque la ristagnante produttività del lavoro (nonostante mediamente il monte ore lavorate da un italiano sia superiore a quello di un tedesco o di un francese), per mantenere competitive le merci italiane si è ricorsi alla svalutazione dei salari, ovvero alla loro mancata adeguata rivalutazione, e alla proliferazione del precariato.
La “moderazione salariale” (così la chiamano i fetenti), quale meccanismo di aggiustamento, è stata la più importante “riforma” di questo primo quarto di secolo alla quale hanno aderito, in ossequio all’euro e cioè con esclusiva attenzione al deficit e al debito, tutte le compagini politiche “scese in campo”, senza eccezione.
L’aggiustamento deflazionistico attraverso i salari, ossia la strategia dei bassi salari, non ha certo favorito le famiglie e la natalità, viceversa ha incentivato massicciamente il fenomeno della cosiddetta “fuga dei cervelli” (anche di “buone braccia”). Per usare un’espressione matematica applicata a una legge economica: la grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa.
Che cosa abbiamo ottenuto? Meno crescita ma non meno deficit di bilancio e debito pubblico, per i noti e storici “disallineamenti” italici: gli interessi di classe e di casta, l’ignoranza e l’orgoglio personale, il fraintendimento dei fatti economici fondamentali. Per questo, anche tutte le decisioni che saranno prese in futuro sono destinate ad essere cattive, né giova mascherare il fallimento invocando motivi come il dumping fiscale, ovvero il mancato coordinamento delle politiche fiscali in ambito UE, e altre questioni consimili.
Scriveva Bernard de Mandeville nel primo quarto del secolo XVIII nel suo The Fable of the Bees: «Coloro che si guadagnano la vita con il loro lavoro quotidiano, non hanno nulla che li stimoli ad essere servizievoli se non i loro bisogni che è saggezza alleviare, ma sarebbe follia curare. L’unica cosa che possa rendere assiduo l’uomo che lavora è un salario moderato. Un salario troppo esiguo lo rende a seconda del suo temperamento o pusillanime o disperato, un salario troppo cospicuo lo rende insolente e pigro ... Da quanto è stato svolto sin qui consegue che in una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi.»
E quando non si trovano in loco abbastanza “lavoratori laboriosi e servizievoli”, s’importano come qualsiasi altra merce (quali che siano le tutele legislative, la forza-lavoro è merce). Per far fronte al problema demografico e della carenza di forza-lavoro a bassa o nessuna qualificazione e dunque a buon mercato, si è puntato su degli avatar, ossia sull’immigrazione di poveri disgraziati disposti a farsi schiavi pur di sopravvivere, con tutti gli squilibri e i drammi che simili migrazioni comportano, compresi i barconi affondati sui quali anche la sinistra chiagne e fotte (un Minniti vale qualunque altro). Quando mai la “filosofia” dell’integrazione, spesso intesa come assimilazione, è stata accompagnata da una vera riflessione sul ruolo e l’impatto strutturale dell’immigrazione? (*)
Altra importante “riforma”, via via rinnovata con l’incalzare dei governi e dei ministri, è stata quella della scuola e dell’università. Anche l’istruzione è diventata una merce come un’altra. Quella pubblica è stata sistematicamente degradata e impoverita in ogni modo (si va verso il merchandising di deficienti Made in Italy), ed è invece stata favorita l’istruzione privata, finanziata anche con denaro pubblico. Deteriorato in radice il principio del libero accesso, in tal modo si pratica una selezione in base al censo, salvo poi decantare il “merito” dei figli di papà.
Sempre Mandeville, quando ancora la finzione democratica non impediva di scrivere la verità sullo stato delle cose: «Per rendere felice la società (composta naturalmente di coloro che non lavorano) e per render il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera.»
È ciò che succede quando prevale la logica del valore di scambio anche nei servizi pubblici. Il “rispondere alle esigenze del mondo dell’impresa” induce effetti perversi nella formazione in settori non immediatamente produttivi in termini di profitti e di posti di lavoro: che ce ne facciamo di un corso di formazione sulla storia dell’Assiria in una università o, nei licei, dell’insegnamento del latino?
Stessa cosa è avvenuta e sta avvenendo per la sanità pubblica a favore di quella privata: lo smantellamento a rapidi passi dello statuto dominante del sistema sanitario: quello di servizio pubblico. Anche questa “riforma”, come quelle del lavoro, della scuola e altre, è d’ordine sia economico che ideologico, ossia insegue il principio liberale di “libera” concorrenza (sotto la spinta del “mercato” siamo diventati tutti liberali, volenti o nolenti in concorrenza con tutto e tutti).
L’insieme di tali “riforme” rientra in un progetto eversivo (nel senso pieno del termine), conseguenza del trionfo della grande, media e piccola borghesia parassitaria, e del mutamento dei rapporti di forza tra le classi che ne sono scaturiti (l’odio per la giustizia sociale, la cancellazione di una coscienza di classe, che, lo rammento ai professorini, non è solo coscienza “critica”), al quale si sono prostituiti attivamente, scientemente e volgarmente le compagini politiche (sedicenti democratiche, conservatrici o palesemente reazionarie) e le lobby nazionali ed internazionali (europee, atlantiche, ecc.) contando sul fatto che non vi fosse valida opposizione di cui tener conto. E quando c’è stato un pur timido tentativo di opposizione sociale, più estetica che fattuale, essa è stata soffocata brutalmente e nel sangue (es.: Genova 2001, governo Berlusconi-Fini).
Quali conclusioni trarre? Una lunga notte è appena cominciata e temo che il peggio debba ancora arrivare per questo Paese in grandissima parte normalizzato, arreso, analfabeta e sempre più di merda. Per quanto mi riguarda personalmente la sbrigo con una famosa citazione: «Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.»
(*) Una effettiva “integrazione”, cioè una cittadinanza realmente condivisa di popolazioni culturalmente tanto diverse (mentalità, costumi, religione, divisioni etniche tra gli stessi immigrati, ecc.) è spesso frustrata se non resa impossibile, come del resto dimostrano altri casi in Occidente. A ciò si aggiungono le segmentazioni sociali che fanno parte del circolo vizioso della povertà, e altre rigidità discriminanti del meccanismo del riconoscimento sociale, tanto più per quanto riguarda l’immigrazione extraeuropea.
Moldo bello post,badrona.
RispondiEliminaIo schiavo anche se bianco bianco
E il tutto rispettando la costituzione, che mi dicono sia antifascista
RispondiEliminaPietro
Mercificazione infinita:
RispondiElimina“Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati”.
Assolutamente condivisibile! Tragico il destino che attende questo paese, anche una secessione delle zone più ricche potrebbe essere possibile.
RispondiEliminaoh sì, in certe circostanze non solo possibile ma in un certo buon grado di probabilità.
Elimina