Perché un capitalista dovrebbe impegnare i propri capitali in un’attività editoriale che a priori sa essere economicamente fallimentare e che nei fatti contraddice il razionalismo mercatista? Evidentemente perché considera la produzione delle aziende editoriali, segnatamente quella di giornali e riviste, come un prodotto originale rispetto ad altre produzioni economiche, ossia un’attività che non garantisce un utile economico ma di tutt’altra natura. E quale può essere questo ritorno positivo se non di natura politica?
Senza tante mene assiologiche o divagazioni sulla struttura del mercato della stampa e di altri media, ciò chiarisce quali siano i limiti effettivi della libertà di stampa e quale sia invece il ruolo dei sottaciuti ma evidenti interessi (e del loro conflitto) delle “famiglie” in rapporto al potere politico (Fininvest, Gedi, Cairo, Mainetti, Angelucci, Caltagirone, Confindustria, Eni, eccetera), quindi la selezione dei “fatti” e i rapporti di forza tra stampa e governo o i mercati.
In realtà si tratta di stabilire quali sono le condizioni oggettive di esercizio dell’attività di giornalista, tenendo conto della necessità dei giornalisti di guadagnarsi il pane e dunque, nella stragrande maggioranza, di dover scrivere con una sorta di palla al piede.
Sia chiaro: i quotidiani non sono un prodotto del recente capitalismo. In origine le notizie che pubblicavano erano di natura politica, ma la loro predilezione era per le notizie insolite provenienti da tutto il mondo. Il giornalismo sensazionalistico è una costante storica, e se oggi tale tendenza è diventata prevalentemente trash, ciò dipende dal fatto che la società nel suo insieme gradisce ed è trash. Non è una novità che lo spettacolo dell’informazione/intrattenimento è modello e allo stesso tempo immagine riflessa della società.
Quanto alla réclame è essa stessa da molto tempo diventata un settore specifico dell’attività economica ed è quindi lo sviluppo di questa settore economico che instaura tra giornali e inserzionisti una ineludibile dipendenza.
Tuttavia dire la stragrande maggioranza non significa includere tutti i giornalisti. Vi sono delle eccezioni: gli editorialisti, vale a dire le grandi firme e le vedette televisive del giornalismo, che hanno prevalentemente funzioni di diversione.
Sono dei divi ben pagati, i loro nomi stampati in grassetto, gli editoriali sono articoli di lusso, le loro comparsate televisive le più gettonate. Possono scrivere e dire quello che vogliono, così s’ingenera l’impressione che si possa scrivere e dire quello che i giornalisti vogliono. Sono dei capitani nella loro vasca da bagno: la loro indipendenza recintata dà l’odore dell’indipendenza, la loro stravaganza dà un tocco di brio, il loro indomito coraggio nel sostenere opinioni a volte impopolari dà l’impronta dell’anticonformismo. Se poi a causa di un editoriale o di un report televisivo si perdono anche dei contratti pubblicitari, questa diventa la prova dell’indipendenza della testata. Il rovescio della libertà dell’editorialista è la non libertà della redazione.
Dopodiché si dovrebbe passare all’esame del ruolo culturale, vale a dire ideologico, svolto dalla stampa (magari sui cambiamenti in atto e sulle tendenze di sviluppo), quindi della neutralità, scientificità e legittimazione delle metodologie delle scienze sociali e della loro produzione di dati, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano, e so bene che la curva dell’attenzione è già sull’orlo dello strapiombo.
Il giornalista italiano si muove entro tre fondamentali settori d'informazione - il quotidiano, la televisione e la Rete -. Il quotidiano resta, tutto sommato, il più prestigioso dal punto di vista politico e professionale, ma al tempo stesso è anche il più asfittico, quello meno suscettibile di espansione; la Rete è un collettore della disinformazione e del risentimento sociali, incapace come è di esprimere grandi figure e grandi modelli sul piano professionale; la televisione ha dato spazi giganteschi all'informazione, agendo però come fattore di restringimento del settore riservato alla carta stampata. In una situazione come questa, il quotidiano, poiché è impensabile ormai che rivaleggi nella diffusione con la televisione e con la Rete, dovrebbe accentuare il suo ruolo di informatore critico, di fonte della notizia "al secondo livello", dove non si cerca il dato in sé, già ampiamente noto, perché colto al volo da un notiziario televisivo o radiofonico, ma il dato elaborato e sistemato (il che non vuol dire necessariamente manipolato), contestualizzato insomma in un modo che nessun altro strumento d'informazione può effettivamente offrire. Sennonché per capire che cosa il giornalista italiano può fare, bisognerebbe capire innanzitutto che cos'è. Questo è però un discorso senza alcun dubbio più complicato, perché involge fattori di tradizione, di formazione, di cultura e di ideologia, che sono i più difficili da sceverare.
RispondiEliminaeditorialisti: para..culi usati come para..venti dalle famiglie per i propri interessi politici.
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