martedì 30 maggio 2023

Una sola opzione

 


Quando le maggiori potenze guidate dagli Stati Uniti imposero sanzioni economiche e finanziarie contro la Russia all’inizio della guerra in Ucraina, ritenevano che queste misure avrebbero rapidamente paralizzato l’economia russa, portando a una capitolazione o a un cambio di regime dall’interno dell’oligarchia dominante.

Le decisioni più significative sono state l’esclusione della Russia dal sistema di pagamenti globali SWIFT e il congelamento dei 300 miliardi di dollari di attività finanziarie detenute dalla banca centrale russa.

Tuttavia il tracollo russo non c’è stato, e Mosca ha trovato il modo di aggirare le sanzioni, almeno finora. Ma le misure imposte dagli Stati Uniti (l’Office of Foreign Assets Control del Tesoro sovrintende alle sanzioni) hanno avuto conseguenze indesiderate, e non solos in l’Europa, che resta comunque la più colpita.

Queste misure di ritorsione contro la Russia, che da anni subisce le provocazioni e l’aggressione della NATO, hanno potuto essere intraprese grazie al ruolo del dollaro come valuta di riserva globale del mondo. Il congelamento dei beni delle banche centrali russe ha provocato un’onda d’urto in tutto il sistema finanziario globale, andando ben oltre la Russia, perché è stato riconosciuto che un’azione del genere poteva essere intrapresa contro altri Paesi renitenti al diktat imperialista degli Stati Uniti.

Da qui un crescente allontanamento dalla dipendenza dal dollaro come valuta globale preminente da parte di Paesi importanti. La Russia, la Cina, l’Arabia Saudita e il Brasile, tra gli altri, hanno cercato di concludere accordi commerciali nelle proprie valute, piuttosto che in dollari. Le mosse fatte finora sono ben al di sotto della sostituzione del dollaro, ma non ci sono dubbi sulla tendenza, che se continuerà, potrà avere gravi conseguenze.

Di questo pericolo ne è consapevole, ovviamente, anche il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen: “Quando utilizziamo sanzioni finanziarie legate al ruolo del dollaro, c'è il rischio che nel tempo possa minare l'egemonia del dollaro”, anche se poi ha aggiunto in tono rassicurante (che altro doveva dire?) che “il dollaro viene utilizzato come valuta globale per ragioni che non sono facili per altri paesi nel trovare un’alternativa con le stesse proprietà”.

L’aumento del prezzo dell’oro e, soprattutto, l’aumento degli acquisti di oro da parte delle banche centrali, esprimono bene lo stato di preoccupazione generale. Lo scorso anno le banche centrali hanno acquistato 1079 tonnellate di lingotti, il massimo da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950.

All’indomani della seconda guerra mondiale, il dollaro divenne la principale valuta globale e riserva di valore, in grado di svolgere questo ruolo grazie alla vasta supremazia economica statunitense e alla decisione presa alla conferenza di Bretton Woods nel 1944 affinché i biglietti verdi fossero convertibili in oro al tasso di 35 dollari l’oncia.

Com’è noto, quel sistema terminò nell’agosto 1971, e da allora il dollaro ha funzionato come valuta fiat, cioè senza il sostegno di una sottostante materiale, come l’oro, che incarni un valore reale. La forza del dollaro si basava sul potere economico-finanziario e politico degli Stati Uniti, in altri termini sul suo status di economia più grande del mondo, sulla pervasività e ampiezza dei suoi mercati finanziari e la maturità e stabilità istituzionale quale garanzia del rispetto per lo stato di diritto.

Le tre condizioni per la stabilità del dollaro sono state scosse dalle fondamenta: gli Stati Uniti saranno presto superati dalla Cina come prima economia mondiale (se già ciò non è avvenuto); i mercati finanziari sono stati soggetti a shock sempre maggiori, minacciando l’intero sistema finanziario globale.

Senza entrare troppo in dettaglio e rifare la storia della crisi finanziarie dal 1987 al 2008, è sufficiente prendere in considerazione che nel marzo 2020, il mercato del Tesoro statunitense, che vale 22.0000 miliardi di dollari, base del sistema finanziario statunitense e globale, si è bloccato in modo tale che per diversi giorni non ci sono stati acquirenti per il debito del governo statunitense, considerato ufficialmente come il più sicuro strumento finanziario del mondo.

La disintegrazione dell’intero sistema finanziario è stata scongiurata solo da un massiccio intervento della Fed, che ha acquistato altri 4.000 miliardi di dollari di asset finanziari. Poi, a partire da marzo 2022, gli aumenti dei tassi d’interesse della Fed hanno dato il via a tre dei quattro più grandi fallimenti bancari nella storia degli Stati Uniti, dimostrando che le misure normative post-2008 erano sostanzialmente prive di valore. Solo il ripetuto intervento delle autorità governative impedisce di volta in volta una rottura “sistemica”.

Quando all’idea che gli Stati Uniti godano di stabilità istituzionale e di rispetto per lo stato di diritto, questa è stata infranta dal tentativo di colpo di stato del 6 gennaio 2021 da parte di Trump (tentativo ben più grave di quanto i media siano autorizzati a raccontare). Quindi il ripetersi del conflitto sul tetto del debito degli Stati Uniti, la situazione sociale interna, l’inflazione più alta degli ultimi quattro decenni, eccetera.

La dura realtà degli Stati Uniti e di gran parte dei Paesi europei è che hanno più debito che PIL. Una crisi del dollaro, a causa di uno shock inaspettato, come un ampio ritiro dal mercato del debito statunitense da parte di un importante investitore come la Cina o il Giappone, o per altre cause, avrebbe implicazioni finanziarie e politiche di vasta portata. Finora la Fed ha affrontato i crolli finanziari grazie allo status globale del dollaro, ma se tale status svanisce, l’America affronterà una resa dei conti che la scuoterà dalle fondamenta.

Né la cooperazione globale né il dominio occidentale sembrano reggere. Quando le cose prenderanno una certa piega, possibile e di alta probabilità, resterà only one option.

2 commenti:

  1. Only one option, revolution?

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  2. Il tema è la crisi economica mondiale e l’immagine che si può prospettare come cifra interpretativa è quella di un treno che deve passare su un ponte che sta crollando. In effetti, non sono mancati in questi ultimi anni fenomeni che, per ampiezza, profondità e durata, hanno confermato che la crisi mondiale del capitalismo, che ebbe inizio negli anni ’70 del secolo scorso dopo il lungo ‘boom’ del secondo dopoguerra, non solo è ben lungi dall’essersi conclusa (si pensi ai saliscendi mozzafiato delle borse mondiali e ai sussulti che le hanno seguite), ma è destinata ad aggravarsi ulteriormente, come ìndicano l’ascesa dei giganti asiatici (Cina e India) e la conseguente ristrutturazione, non lineare né indolore, che essa necessariamente determina, attraverso i crescenti conflitti bellici, nella spartizione planetaria dei mercati e delle sfere d’influenza. È nel corso di questo ciclo di espansione limitata e di bassi aumenti della produttività, che dura da più di trent’anni e sta entrando nella quarta e ultima fase del ciclo Kondratiev (caratterizzata dal collasso e dalla depressione), che il capitale attua le strategie a breve termine per tenere alti i profitti, la principale delle quali è la centralizzazione dei capitali e la formazione di monopoli. Mentre le schiere di esperti al servizio del grande capitale finanziario somigliano ad altrettanti idraulici che non riescono più a tamponare le sempre più numerose falle che si aprono nei tubi degl’impianti che sono stati chiamati a riparare, appare con sempre maggiore chiarezza che solo la teoria marxista è in grado di spiegare le crisi capitalistiche, collegando categorie concettuali ed evidenza empirica. Come dimostrano i fatti recenti, dalla concorrenza dei giganti asiatici sul mercato mondiale all’alto costo del denaro, dall’andamento del tasso d’interesse e dall’aggio decrescente del dollaro alla crescente estensione del lavoro improduttivo, la causa strutturale (non congiunturale) della crisi va ricercata nelle contraddizioni che nascono dai processi di produzione, di realizzazione e di accumulazione e si manifestano, come altrettante bolle di sapone che si formano, si gonfiano e poi scoppiano, nell’abnorme dilatazione della sfera del credito e del capitale fittizio, autentico tumore generato da un sistema capitalistico che non trova più sbocchi per valorizzarsi, ossia creare plusvalore e saggi di profitto adeguati. La previsione secondo cui il capitalismo va verso il crollo non è pertanto una profezia, ma il risultato di un’analisi scientifica e di una constatazione storica: la crisi del capitalismo genera inesorabilmente la tendenza alla guerra imperialista (ecco la "only one option"). Quali che siano i saliscendi delle borse mondiali determinati dalla plètora di capitali in eccesso da smaltire, a sua volta determinata dalla crescente sovrapproduzione di merci, forza-lavoro, capitali e mezzi di produzione, quali che siano le diverse puntate che i vari giocatori fanno sul banco del ‘capitalismo da casinò’, ciò che risulta ineluttabile è la dinamica della svalorizzazione delle forze produttive e la correlativa distruzione di risorse materiali ed umane in cui la crisi consiste: è quindi altamente probabile che il gioco del cerino acceso, che le classi dirigenti del mondo capitalistico stanno praticando sia nell’economia sia nella politica sia nella guerra, non permetterà di salvarsi a nessuno di lorsignori, poiché si sta svolgendo all’interno di una polveriera. Dal canto loro, le grandi masse popolari, se resteranno vittime inerti e acefale delle contraddizioni del capitalismo imperialistico e non si eleveranno al livello di agenti risolutori delle medesime, non potranno che condividere la tragica sorte che questo sistema sta preparando all’intera umanità.


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