Così segreta che anche in redazione sanno tutto.
Wuhan è nota ai più per via del famigerato coronavirus. Uno dei capitoli meno conosciuti della seconda guerra mondiale riguarda alcuni tragici episodi avvenuti nel dicembre 1944.
Il 16 dicembre, le forze giapponesi che occupavano Wuhan catturarono tre avieri americani. Tolsero loro le uniformi, li legarono e li trascinarono per le strade, bastonandoli e prendendoli a calci. In un tempio giapponese fuori città li impiccarono e bruciarono i corpi. Quando la notizia dell’esecuzione raggiunse il comando statunitense in Cina, fu pianificata immediatamente la vendetta. Questo almeno è quanto sostengono alcune fonti, ma le ragioni del bombardamento di Wuhan furono anche altre.
Il generale Curtis LeMay aveva deciso di sperimentare il bombardamento a bassa quota su Wuhan come una prova di concetto per i bombardamenti sul Giappone che fino ad allora non avevano dato risultati apprezzabili. Nome in codice dell’operazione: Matterhorn. Il 18 dicembre 1944, 77 giganteschi bombardieri B-29 Flying Super Fortress, cui si unirono centinaia di altri aerei della 14a Air Force, oscurarono il cielo di Wuhan.
Furono sganciate 500 tonnellate di bombe incendiarie M-69, un cocktail estremamente letale di fosforo e napalm appena sviluppato allo scopo dagli scienziati dell’Università di Harvard, che provocarono 40.000 vittime civili. Leggo da una tesi universitaria di un laureando in Storia della Sam Houston State University: l’esito “piacque a LeMay e fornì un modello per la sua sistematica distruzione del Giappone”. Pochi mesi dopo LeMay sarebbe diventato famoso per aver diretto il bombardamento di Tokyo e di un centinaio di altre città giapponesi (oltre 100.000 civili morti nella sola capitale).
Il 21 dicembre, gli aeroplani della 14a Air Force in coordinamento con Super Fortresses sganciato più di 1.000 tonnellate di bombe su Hankou, uno dei tre distretti principali della città di Wuhan. Hankou bruciò per tre giorni.
Ufficialmente (**) il bombardamento americano ebbe lo scopo di bombardare le basi aeree giapponesi (una a Hankou, l’aeroporto di Wangjiadun e l’altra dall’altra parte dello Yangtze, l’aeroporto di Nanhu) e le linee ferroviarie di Wuhan (anche importante centro siderurgico). In effetti, Wuhan, hub di rifornimento, comando e controllo giapponese, era stata un trampolino di lancio particolarmente importante per l’ultima grande offensiva giapponese, iniziata nella primavera del 1944, nota agli storici come la campagna di Ichi-go. Questa campagna sembrava minacciare Chongqing in novembre-dicembre, dopo la caduta di Guilin (***). Tuttavia il raid giungeva troppo tardi per salvare la Cina centrale.
“L’attacco devastante sembrava un atto cinico di distruzione arbitraria fine a sé stesso”. Conclude l’autore della tesi: “But it is the bombing of Wuhan, and with it, the seeming disregard for civilian casualties there, that is the hardest to reconcile with the idealistic early days of 1941 and 1942. China would never be the same”.
(*) Secondo dati ufficiali, Wuhan ha subito un totale di 151.607 vittime durante l’intera guerra anti-giapponese. Di questi, 96.557 sono stati uccisi, mentre 22.389 sono rimasti gravemente feriti e 32.661 hanno riportato ferite lievi. Secondo le statistiche sulle vittime compilate dal distretto di Hankou nel 1946, solo in quell’area 20.000 persone furono uccise o ferite nei bombardamenti di dicembre del 1944. Furono bombardati 7.515 edifici, di cui 554 prima della caduta della città (nel 1938), e 6.951 dopo.
(**) United States Strategic Bombing Survey – Military Analysis Division – USSBS Report 67, Air Operations in China, Burma, India, 1947. p 90 Sezione XI – XX Bomber Command.
(***) Chongqing era ed è la città più importante lungo il corso dello Yangtze, fiume Azzurro, famoso per le sue gole e in passato per la grande pericolosità nella navigazione. L’ammiraglio Alberto Da Zara fu il primo occidentale a risalirlo con la cannoniera fluviale Ermanno Carlotto (il resoconto dell’intrepida impresa si può leggere nel suo Pelle d’ammiraglio, Mondadori, 1949, ristampato di recente a cura dello SM della Marina Militare). Nel 1928, l’impresa fu ripetuta, sempre con la Carlotto, dal diplomatico Daniele Varè, il quale descrive il viaggio ne Il diplomatico sorridente. Varè, che pubblica nel 1941, non menziona l’impresa di Da Zara.
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