Nel 2000 il chimico olandese Paul Crutzen, premio Nobel per le sue ricerche sullo strato di ozono, e l’ecologo americano Eugene F. Stoermer avevano avanzato la tesi che le attività umane avessero trasformato la Terra a tal punto da definire la nostra epoca col nome di “Antropocene”, “l’era dell’umano”.
Non vi sono dubbi sul forte impatto delle attività umane sull’atmosfera, l’idrosfera o insomma sulla biosfera del pianeta. Di là del cambiamento climatico, tali attività hanno fatto deragliare il corso naturale dell’evoluzione spostando le specie tra i continenti e inondando il pianeta di sostanze chimiche che lasceranno la loro presenza a lunghissimo termine.
Tuttavia le cose non sono così semplici. Secondo la scala temporale geologica, viviamo nel periodo interglaciale dell’Olocene, iniziato 11.500 anni fa, a sua volta compreso nel Quaternario di 2,6 milioni di anni, una suddivisione dell’era cenozoica, iniziata 66 milioni or sono. Introdurre ufficialmente l’Antropocene equivale ad accettare l’idea che in meno di un secolo l’uomo sia riuscito, con le sue macchinine e le sue lattine di Coca-Cola, a porre fine all’Olocene, cioè a quasi 12.000 anni di storia geologica, segnato dal ritiro delle calotte glaciali, dall’innalzamento del livello degli oceani e da un clima temperato, ossia una situazione che ha favorito in modo decisivo lo sviluppo della nostra civiltà.
A tale riguardo, si deve parlare anche di un’epoca, di un periodo o di una semplice tappa di passaggio? Se esiste l’Antropocene, quando sarebbe davvero iniziato? Crutzen propone il 1780, che segna l’inizio della rivoluzione industriale. Per l’Anthropocene Working Group (AWG), un panel scientifico che si occupa alla questione, l’Antropocene è iniziato nel 1950, durante la “grande accelerazione”. Fu in quel periodo che tutti gli indicatori iniziarono ad innalzarsi vistosamente: il PIL, l’inizio dei test nucleari e la demografia alle stelle, consumo energetico, CO2 nell’atmosfera, temperatura globale, acidificazione degli oceani, devastazione della foresta amazzonica e tutto ciò che ne consegue.
Ci sono dei siti che si prestano ottimamente per lo studio di tali mutamenti su scala temporale molto lunga. L’inizio del periodo Giurassico, ad esempio, è ufficialmente rappresentato da un sito nelle Alpi austriache, dove alcune specie di ammoniti – un mollusco marino – appaiono per la prima volta come fossili.
C’è un lago nell’Ontario canadese, il Crawford, più profondo che largo, il quale ha la particolarità che le sue acque superiori e inferiori non si mescolano mai (è un lago “meromittico”). A 24 m di profondità è come un archivio naturale, nessun organismo disturba i sedimenti, che si accumulano da 13.000 anni come una torta millefoglie (stratificazione dette “varve”).
Quei materiali forniscono la prova delle condizioni ambientali passate, registrando i cambiamenti di ph, livelli di nutrienti, ciclo del carbonio e clima. Tutto è lì, immutato da millenni: residui di polline di mais, fagioli e semi di zucca testimoniano la presenza di popolazioni indigene che vissero lungo le sponde del lago tra la fine del XIII secolo e il XVI secolo. Nel XX secolo, le tempeste di polvere, le piogge acide, la malattia dell’olmo olandese (una malattia fungina dell’albero), il traffico automobilistico o l’improvvisa comparsa del plutonio 239 nel 1952, tutti questi eventi hanno lasciato il segno il fondo del lago.
Spostiamoci quasi agli antipodi, ossia nella baia di Beppu (una piccola città), situata sull’isola di Kyūshū, in Giappone. Circondata da terme, industrie chimiche e frutteti, con una popolazione insolitamente concentrata di dinoflagellati, un fitoplancton noto per prosperare in acque sature di azoto e fosforo, di origine antropica. I dinoflagellati sarebbero già sufficienti per definire e rappresentare tutte le stimmate dell’Antropocene.
Per quanto riguarda le due barriere coralline in Australia, a prima vista sembrano perfettamente preservate da qualsiasi presenza umana. Ma i campioni prelevati dicono tutt’altra cosa. Cambiamenti nella salinità degli oceani e nei cicli dei nutrienti, assorbimento di carbonio dai combustibili fossili, resti di test nucleari e fertilizzanti: le attività umane dalla fine del XIX secolo non hanno segreti per questa zona paradisiaca.
Come non bastasse, recentemente è stata rilevata una nuova specie di sedimento in un corso d’acqua dolce del fiume Hongshui, a Hechi (4 milioni di ab.), nel sud della Cina. Allo spettroscopio, i campioni di roccia raccolti su questo fiume hanno rivelato tracce di pellicole di polipropilene, componente elementare dei sacchetti di plastica, e di polietilene, quel materiale utilizzato dai contadini per coprire le colture di cui anche qui da noi viene fatto largo uso. Ebbene, gli atomi di carbonio sulla superficie dei film plastici si trovano legati chimicamente al silicio della roccia, utilizzando atomi di ossigeno. Questo inestricabile legame roccia-plastica su scala atomica potrebbe essere stato causato dalla luce ultravioletta del Sole o dall’attività metabolica dei microbi che vivono sulla roccia, ma è comunque una contaminazione degna del più grande significato in termini di modificazione ambientale e geologica.
L’elenco di questo impatto antropico potrebbe continuare ancora a lungo, all’infinito, e forse basterebbe dare un’occhiata ai dintorni di casa nostra. Pertanto ritornando alla questione dell’Antropocene, si deve parlare di un’epoca, di un periodo o di una semplice tappa di passaggio?
Sta di fatto che l’impatto delle attività umane è tale che sta sconvolgendo tutti i cicli naturali. Questo fatto non si può ignorare e tantomeno negare. Poi si può discutere a lungo su quale sia quantitativamente l’importanza di tale impatto antropico sul cambiamento climatico, ma certamente non è trascurabile e va a sommarsi a dei fenomeni naturali di cambiamento di per sé preoccupanti, soprattutto perché sempre più frequenti, persistenti e in accelerazione.
Fenomeni naturali come il campo magnetico terrestre. La presenza di questo campo naturale (grazie al flusso connettivo di metallo liquido all’interno del suo nucleo che produce una corrente elettrica come una gigantesca dinamo) genera una sorta di scudo elettromagnetico che devìa i raggi cosmici e tutte le particelle cariche, azzerando quasi completamente la quantità che raggiunge il suolo (il fenomeno si manifesta con le aurore polari).
In assenza di tale campo magnetico, che si estende per svariate decine di migliaia di chilometri nello spazio, formando una zona chiamata magnetosfera, il nostro pianeta finirebbe come Marte (*). Ebbene, è un fatto che il campo magnetico terrestre è diminuito di intensità del 10% negli ultimi 150 anni, e sta cambiando 10 volte più velocemente del previsto, ed è stato osservato che il Polo Nord magnetico si sta spostando velocemente e dal Canada ha raggiunto la Russia di Putin. Dal 1904 esso iniziò a spostarsi a nord-est di circa 15 km all’anno. Nel 1989 si è avuta una prima accelerazione e nel 2007 una seconda, quando il polo si è mosso verso la Siberia alla velocità di 55 km. Ciò potrebbe significare che siamo vicini a un’inversione dei poli.
Fossi in voi non farei programmi di vacanze a lunga scadenza.
(*) Marte è probabilmente caratterizzato da un nucleo non liquido ma allo stato viscoso, quindi da un campo magnetico poco apprezzabile né da attività geologica di rilievo (pur sismicamente attivo). Esposto al vento solare, il debole campo magnetico l’ha privato di un’adeguata protezione, cosa che, detta in breve, l’ha reso arido e con un’atmosfera quasi inesistente, mentre un tempo era ricco di acque in superficie e forse di forme di vita (quanto eventualmente evolute al momento non è dato sapere, ma di alieni in circolazione se ne vedono sempre di più).
https://www.isc.cnr.it/public-outreach/divulgazione/introduzione/
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