lunedì 24 ottobre 2022

Quella volta che de Gaulle fuggì dall’Eliseo

 

Il 2 maggio 1968, un giovedì, alle ore 7.45 scoppia un incendio nell’ufficio della Federazione generale degli studenti di Lettere, alla Sorbona. Siamo vicini al dramma, perché sopra l’ufficio c’è un’abitazione. Sul posto intervengono i vigili del fuoco. Sulla parete un cerchio con una croce celtica rivendica l’attentato.

Gli studenti si mobilitano. Alain Peyrefitte, uomo di De Gaulle e ministro dell’Educazione Nazionale nel quarto governo Pompidou, fa chiudere la facoltà di Nanterre. Il giorno successivo, gli studenti tengono un meeting tempestoso nel cortile della Sorbona. Il preside Grappin fa intervenire la polizia che arresta tutti. Questo è l’episodio che scatenerà la rivolta studentesca e l’inizio degli scontri di strada.

Tralascio la ricca cronaca di dettaglio di ciò che accadde nelle settimane successive, e cioè fino al 29 maggio, quando viene indetta una grande manifestazione e si parla di una presa dell’Hotel de Ville (municipio) e dell’Eliseo. Voci allarmanti parlano di blindati che cominciano ad attorniare Parigi.

Quel giorno, il Generale annulla il consiglio dei ministri. In un camion, nel quale è stato caricato l’archivio della presidenza, lascia l’Eliseo passando dalla porta principale, davanti ai giornalisti. L’automobile ufficiale del presidente segue, vuota, mentre altre due automobili escono discretamente dal palazzo presidenziale dal cancello della Grille du Coq, alla fine del parco: nella prima, il Generale, sua moglie e il suo aiutante di campo; nella seconda, l’ufficiale incaricato della sicurezza presidenziale e il medico del capo dello Stato. Destinazione ufficiale: Colombey-les-Deux-Églises, residenza privata del presidente.

A Parigi è il panico generale. La radio annuncia che il presidente è sparito, non si sa dove si trovi. Si parla di sue dimissioni. In realtà è andato a Baden-Baden, dal generale Massu, comandante delle forze francesi in Germania. In tal modo de Gaulle si assicura della fedeltà dell’esercito al regime.

Il 30 maggio il presidente ricompare, riceve Georges Pompidou, convoca un consiglio dei ministri, quindi annuncia alla radio lo scioglimento dell’Assemblea e le elezioni legislative. Una manifestazione organizzata in sostegno del Presidente della Repubblica ha riunito la sera stessa duecentomila persone sugli Champs-Élysées e su Place de la Concorde.

I ceti borghesi si sono ricompattati, avvertono il pericolo che la protesta studentesca e operaia possa sfuggire di mano. Meglio tenersi De Gaulle, per il momento.

Con il decreto del 12 giugno 1968 sono sciolte le organizzazioni studentesche e i gruppi politici, vietate le manifestazioni a livello nazionale. Il 16 giugno, la Sorbona e l’Odéon sono sgombrati. Riprendono le lezioni nelle scuole superiori.

Il 23 e 30 giugno, nelle elezioni legislative grande vittoria per i gollisti dell’UDR e dei loro alleati, che ottengono la maggioranza assoluta dei seggi.

*

Il maggio francese mise in chiaro i reali rapporti di forza tra le classi sociali, e come la loro composizione fosse profondamente cambiata rispetto al passato e dunque anche le motivazioni che avevano acceso la protesta. Gli studenti rivendicavano un’università meno rigida, elitaria e meritocratica (leggere le biografie di Cohn-Bendit, Sauvageot, Geismar e altri), e quanto ai lavoratori, condizioni di lavoro meno dure e una società meno autoritaria.

Più in generale, sebbene migliaia di studenti avessero potuto, individualmente e attraverso la loro esperienza di quegli anni, distaccarsi dal ruolo che era stato loro assegnato nella società, la massa degli studenti non ne fu trasformata se non superficialmente.

Nel cotesto geopolitico e sociale italiano, le cose andarono in modo diverso. Si rispose alla contestazione studentesca e agli scioperi operai con le bombe e le stragi. I fascisti fornirono la manodopera per l’esecuzione, i servizi americani e italiani l’organizzazione e i mezzi, l’avvallo tacito o esplicito venne da settori importanti delle istituzioni, quindi le coperture e i depistaggi.

In quel clima sociale e politico cupissimo, bisognava dare risposta alle stragi, ai golpe (minacciati, tentati, simulati che fossero) e alle provocazioni, o fingere che nulla stesse accadendo, limitandosi al cordoglio per le vittime e ai comizi dei leader politici e sindacali?

Come ebbe a dire nel 1998 l’allora presidente della Camera Luciano Violante: “Non si possono scrivere libri solamente perché si è ucciso Moro”. La storia di quegli anni è stata raccontata secondo il canovaccio della cosiddetta “strategia della tensione” (Minoli, Zavoli, Lucarelli), e anche dal punto di vista cinematografico la narrazione è caricaturale e ridicola (Giordana e altri).

Quella robaccia è stata certificata ufficialmente dalla televisione e dal cinema in anticipo sui testi scolastici, e ciò non deve apparire strano perché quella versione andava solidificata definitivamente nella testa degli spettatori sotto forma di emozione collettiva e poi tradotta per gli studenti come linea interpretativa storico-scientifica, con l’aggiunta di quel pizzico di accademico che rende la narrazione più oggettiva e credibile. Non c’è quasi persona nata in quegli anni e dopo che conosca un’altra versione.

Nessuno si è voluto chiedere, in modo non strumentale, perché migliaia di giovani sotto i trent’anni decisero di giocarsi l’età della spensieratezza e il proprio domani su quel crinale così rischioso. Accecati dall’ideologia? Suvvia, c’erano anche quelli, ma anche tanti giovani che vedevano le cose con i propri occhi e pensavano con la propria testa.

Ciò che è seguito a quella temperie sociale, già a partire dagli anni Ottanta, è stato in primo luogo il ridimensionamento dell’intervento dello Stato nel settore economico. Si disse che quelle operazioni di vendita erano dettate da un intento di risanamento finanziario ed economico, in realtà l’intento principale che impose il passaggio del controllo dal settore pubblico a quello privato fu squisitamente politico-affaristico.

Si è passati a un sistema totalizzante basato sul mercato, rifondando la società secondo nuovi scenari dispotici, con al vertice l’élite tecno-politica sovrannazionale, viscida mafia delle più potenti consorterie del grande capitale finanziario, incaricata delle decisioni.

Lo spazio del “sociale” è stato ridefinito sullo schema di un universo assolutamente prevedibile, non inquietante nella sua quiete coatta, regolato da dispositivi adibiti alla neutralizzazione di ogni reale conflitto, anche di natura politica, che possa perturbare l’ordine neoliberista.

Pertanto e a titolo d’esempio, non deve meravigliare che anche altri aspetti dell’ideologia che accompagna tutt’ora questa trasformazione abbiano avuto strada, quale il “merito”, chiamato a prevalere sui diritti (istruzione, lavoro, tutele), eccetera. L’ultimo passo sarà adeguare la costituzione formale a quella socialmente in essere.

Quanto ai partiti politici, l’unico scopo ormai rimasto loro è quello di essere strumento di simulazione della democrazia: un caravanserraglio chiamato a ratificare ciò che è deciso dagli esecutivi, a loro volta tenuti a seguire le linee di politica economica tracciate altrove a porte chiuse.

In buona sostanza le forme del politico seguono il movimento dell’economia. Tuttavia non bisogna cadere in un determinismo meccanico: forme economiche e forme politiche, in virtù della loro formale e relativa autonomia, interagendo senza mai identificarsi, consentono al sistema borghese di fornire di sé un’immagine illusoria, vale a dire di far operare i rapporti di dominio in forma mascherata.

Ciò significa che lo Stato e gli organismi sovrannazionali ai quali sono demandate le decisioni più essenziali, se da un lato operano in un rapporto di dipendenza sostanziale dal movimento del capitale, dall’altro mascherano questa dipendenza finché è possibile, apparendo in superficie come formalmente indipendenti.

Lo sfruttamento capitalistico e la dittatura borghese vestono i panni della “democrazia” e, usando una metafora si può dire che la commedia replica finché le plebi restano al posto loro assegnato, pur applaudendo o fischiando ai vari atti che si susseguono sul palcoscenico.

È viepiù stucchevole vedere come ogni nuovo esecutivo sembri un manicomio che parte alla riscossa di quello che l’ha preceduto; ma più in là gli esecutivi nazionali non si possono spingere, essendo un altro il livello al quale la grande borghesia, conoscendo i suoi polli, ha deciso di governare i suoi affari e garantire la riproduzione dei rapporti sociali secondo il proprio ordine d’interesse.

Fatti salvi finché si può gli interessi corporativi più forti e quelli delle consorterie tecnico- amministrative più potenti, tutto il resto è confusionismo interessato, intrattenimento e spettacolarizzazione a gettone, ripetizione sostanziale di ciò che dai “rappresentanti del popolo” ci si aspetta di sentir dire (vuoi “anche i ricchi piangono”, o per contro “dio, patria e nutella”), ma in concreto nessun partito o governo può offrire risposte alla crisi storica del capitalismo nel suo complesso.

20 commenti:


  1. https://aldogiannuli.it/la-politica-della-paura-il-modello-greco-e-la-strategia-della-tensione-in-italia-1969-1974/

    https://www.andreabellelli.it/StraTens.html

    https://www.patriaindipendente.it/interviste/la-strategia-della-tensione-e-la-missione-anticomunista/

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  2. nel c+v era saltata una frase del post, che alle 8.30 ho inserito evidenziandola in giallo.

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  3. sempre meno gente va a teatro

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    1. Platea semivuota, non si vede né si sente più nulla dalla piccionaia. O come terzo anello a San Siro, si è più vicini alla luna che al pallone. Solo lo stolto scorge ancora dito meloni.

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    2. bello meloni che rpedica libertà nel deserto. Dove nessuno sa bene che è, neanche il berlusca; o come ricordava povero letta "la libertà è il vaccino"...
      Buffa e tragica retorica, nei fatti aveva ragione bojo sulle restrizioni italiane, purtroppo. Il resto son battaglie di retroguardia, made in italy, nel fango.

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    3. tonono cmq andava al cinema (anche il malibran divenne cinema) qui finiremo su tiktok, pare

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  4. lo scollamento fra politici e lavoratori vabbè, figurati, ma l'inconsistenza di questo quadro si determina nello scollamento fra attori politici e prassi. Loro stessi non seguono il rito! Sicché la rappresentazione è incredibile e dopo aver travolto la costituzione per il covid arrivano a ratificare guerra quando tutta Italia la ripudia.

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  5. Credo che l’occasione scatenante di questo pregevole post sia la menzione della parola “merito” nella denominazione del Ministero dell’Istruzione. E di questo vorrei parlare, anche se mi consentirai di prenderla un po’ alla lontana.
    Innanzitutto, vorrei farti i miei complimenti, perché il post è un efficace condensato di un periodo storico, con le sue conseguenze o, meglio, strascichi. Tu sai che non mi scomodo facilmente a complimentarmi, per cui sarai già all’erta: in cauda venenum. E in effetti il veleno c’è, perché io ho visto un film diverso. La sintesi la prendo da una pièce di Dario Fo: "Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?". Temo però che Fo avesse in mente contenuti diversi da quelli che ho in mente io: io dico che fin dall’inizio i cosiddetti sessantottini fossero, coscienti o no, preda di un afflato reazionario. La causa era la matrice cattolica. Come è noto, la gran parte dei sessantottini italiani (*) proveniva da ambienti cattolici, anche organizzati. Il principale punto di contatto tra cattolicesimo italiano e quella particolare forma di “marxismo” che pervase la contestazione italiana sta nel solidarismo, in opposizione al capitalismo calvinista. Nel frattempo, a partire forse dagli anni ’60, il capitalismo italiano si stava appunto, e faticosamente, muovendo verso un modello anglosassone, che possiamo definire meritocratico. Il ’68 ha incarnato una controriforma che mutuava i modi di quella cattolica del secolo XVI, con rituali “antirevisionistici”, ossia antiriformisti, ossia -devi perdonarmi- reazionari. La sostanza, poi, è sempre più banale: il Sessantotto ha cavalcato lo slogan “no alla selezione” che dalla scuola si è esteso a macchia d’olio ai luoghi di lavoro e alla società tutta. Non riesco a comprendere come a te risulti il contrario. I governi che si succedettero dal ’69 al principio degli anni ’80 fecero proprio questo, e -si deve dire- con il consenso di pezzi importanti della c.d. “società civile” (per esempio, l’idolatrato Giovanni Agnelli come rappresentante della parte più retriva della grande industria). Il difetto di modernità, di efficienza, di trasparenza, di onestà, di legalità e anche di laicità che affligge oggi la società italiana, con annessa e dilagante burocratizzazione, ha preso le mosse dall’aborto della modernizzazione degli anni ’60. E i cucchiai d’oro si sa chi sono stati: quei sessantottini di estrazione cattolica, che poi si sono assicurati congrue posizioni nella società non più meritocratica, ma certo sensibile alla cordata e alla raccomandazione (vuoi i nomi? No, non ne hai bisogno) (**). 50 anni di ingrippamento socioeconomico, di schietta marca cattolica. Perché la DC non chiedeva di meglio. E così il PSI, il PCI e tutti gli ascari.

    (*) a differenza dei francesi.
    (**) Non farò finta di non capire che quando tu parli di “migliaia di giovani sotto i trent’anni [che] decisero di giocarsi l’età della spensieratezza e il proprio domani” ti riferisci ad altri. Domandiamoci però come mai la maggioranza non rischiò un cazzo, anzi.

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    1. Sostenere che la gran parte dei sessantottini italiani proveniva da ambienti cattolici, in un paese peraltro ancora fortemente cattolico negli anni Sessanta, è come dire che gli studenti tedeschi provenivano in prevalenza da ambienti protestanti, e quelli inglesi, si fa per dire, da ambienti anglicani. E poi, possibile che si continui a ridurre il 68 allo slogan “no alla selezione”? Inoltre, non dimentichiamoci che dopo il 68 venne il 69, che fu tutt’altra cosa. La protesta operaia non veniva dal nulla, tantomeno dal solo 68. Procurati per esempio il libro di Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla Fiat, in tal modo puoi farti un quadro non convenzionale delle origini di ciò che approderà al 1969. Poi il 12 dicembre di quell’anno segnerà lo spartiacque tra un prima e un dopo. Ed è appunto di questo che ho accennato nel mio post.

      Sul perché la maggioranza non rischiò un cazzo, vorrei precisare che la minoranza, si vide nel 77, era certo numericamente importante. Tuttavia molti non rischiarono per opportunismo, per paura, perché non avevano alcuna intenzione di rompere con un sistema che tutto sommato li garantiva, ma anche perché, pur vivendo una condizione proletaria, restavano sotto il dominio e l’influenza dell’ideologia dominante e perciò estremamente vacillanti nelle loro opinioni. Altri ancora, e questo è un aspetto da non sottovalutare, perché rifiutarono certe tendenze operanti nelle formazioni rivoluzionarie, come il soggettivismo militarista, il minoritarismo, l’individualismo piccolo borghese.

      Grazie per l’interesse e la modica dose di veleno (peraltro possiedo scorte copiose d’antidoto).

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    2. Permettimi alcune precisazioni. Per prima cosa, ho impostato il commento sulla selezione, ossia sulla meritocrazia, perché supponevo, e ancora lo suppongo, che la causa scatenante del tuo post forsse la nuova denominazione del Ministero dell'Istruzione. In secondo luogo, sono ben cosciente dell'imperfezione storica della datazione "68". Anzi, volevo dirlo nella prima nota, quella sul maggio francese, che come vedi è rimasta un po' asfittica. Poi mi sono detto che stavo aggiungendo troppa carne al fuoco, e ho cancellato.
      Invece, sui cattolici, permettimi di dissentire. Sto parlando di provenienza da organizzazioni cattoliche. Ne ho esperienza diretta (nel senso che erano miei conoscenti). Tu mi puoi dire che non ho visto tutte le università d'Italia, però insomma...
      Da ultimo, la distinzione fra maggioranze e minoranze. Vero ciò che dici, ma io mi riferisco al fatto che quelli della "maggioranza" pensavano già al futuro, e lo volevano nell'università. Non tutti ce l'hanno fatta, e quindi sono andati a popolare le scuole secondarie, alcuni con frustrazione, molti a fare un lavoro di qualità inferiore a quello della generazione di insegnanti che li aveva preceduti. E qui riapre il discorso sul merito (forse anche sul metodo?).

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  6. Una nota tecnica che non ha che vedere con il post. Quando si inserisce una parola chiave nella casella con la lente escono i suoi post in ordine sparso negli anni. Credo che invece sarebbe comodo per i lettori avere un ordine cronologico. Anche per seguire meglio l'attualità.

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    1. perdoni il mio analfabetismo digitale: mi dica cosa devo fare per rimediare, paso passo mi raccomando. grazie

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    2. Guardi in realtà non le saprei dare un aiuto, Chiedevo lumi a lei :)

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    3. Nello specifico cercavo materiale per rispondere a un tizio che oggi mi ha scritto: l’Ucraina, per pochi anni dopo la fine dell’Unione Sovietica, fu una delle più grandi potenze nucleari del mondo. Questa condizione terminò nel 1994 con il Memorandum di Budapest: l’accordo con cui l’Ucraina acconsentì a disfarsi delle armi nucleari rimaste sul suo territorio dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, in cambio della garanzia che i suoi confini sarebbero stati sempre rispettati, tanto dalla Russia quanto dall’Occidente.
      Com’è ovvio, quell’accordo è stato platealmente violato dal presidente russo Vladimir Putin, sia con l’invasione di questi giorni sia nel 2014, quando la Russia invase e annetté la penisola di Crimea. Oltre a chiedersi cosa sarebbe successo se l’Ucraina avesse tenuto le sue armi atomiche, vari analisti hanno notato che questo non è per niente un segnale incoraggiante per il processo di disarmo nucleare di altri paesi del mondo..

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    4. Può darmi un suo parere?

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    5. Dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica, l'Ucraina mantenne circa un terzo dell'arsenale nucleare sovietico, all'epoca terzo al mondo, nonché l'organizzazione della sua progettazione e produzione. C'erano 130 missili balistici intercontinentali (ICBM) UR-100N con sei testate ciascuno, 46 ​​missili balistici intercontinentali Molodets RT-23 con dieci testate ciascuno, nonché 33 bombardieri strategici, per un totale di circa 1.700 testate, che rimasero sul territorio ucraino. Queste armi restarono sotto il controllo della Comunità degli Stati Indipendenti. Nel 1994, l'Ucraina ha accettato di distruggere queste armi e di unirsi al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT).

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    6. Quindi in riferimento al commento dell'anonimo a ben vedere ha ragione il tizio che ce l'ha con Putin.

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  7. Io all'anonimo (e più ancora al suo interlocutore), a Riccardo e in generale a tutti i lettori di questa pagina consiglio vivamente di leggere l'articolo di sotto: Intanto perchè è di una lucidità assoluta e va decisamente nel solco di questo blog. Poi perchè fa chiarezza in mezzo al mare di menzogne che ci tocca sentire quotidianamente da gente che non ha la minima coscienza del disastro nucleare che incombe sopra le nostre teste. E non ultimo perchè arriva da uno statunitense di grande prestigio, che non mi pare possa essere etichettato né come agente di Putin, né come un qualsiasi coglione stile quelli che affollano le tv nostrane. Bisognerebbe stamparselo e portarselo sempre in tasca, in modo da rispondere punto su punto ogni volta che si sente aprire la bocca sulla guerra in Ucraina, su quanto siano cattivi i Russi e maledetto Putin.

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  8. https://3214.org/le-cause-e-le-conseguenze-della-guerra-in-ucraina/?fbclid=IwAR2QkrnSBpChg-GNElzwyIYlLDy4hYZsUDsBSostIu0S5A7detmoSZ9IF6s

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