martedì 18 ottobre 2022

Gli occhi con i quali guardiamo il domani

 


Molti di noi non hanno votato, hanno capito che il voto non paga. Tuttavia, sappiamo che non basta astenersi dal voto. E allora che cosa si fa? Come disse l’antico danese: prender l’arme e combattendo disperderli. L’arme è intesa qui come metafora, ossia al momento basterebbero dei classici forconi (suvvia, chi di noi non ha un forcone in casa?).

Siamo troppo attaccati a ciò che abbiamo per tentare una sortita per un domani di cui, ovviamente, nessuno conosce l’esatto approdo. Attendiamo con rassegnazione che si compiano le tragedie verso cui ci stanno portando, non certo inopinatamente, quei deficienti che decidono per noi?

Gli occhi con i quali guardiamo allo sviluppo dell’umanità sono un prodotto di quello stesso sviluppo che è stato reso possibile con la transizione dalla biologia alla cultura. Da allora la trasmissione culturale ha affiancato, integrato e in larga misura sostituito quella genetica nella funzione di agente di stabilità e di cambiamento, che ci ha condotti dalle prime piccole comunità alle grandi società.

Al contrario di ciò che possono decidere delle scimmie, spetta a noi stessi costruire la società nella quale vivere.

Per quanto riguarda l’intento di singole personalità o gruppi sociali di apportare cambiamenti radicali nella società, quali esempi storici abbiamo? In antico, le guerre servili, delle quali la ribellione di Spartaco è la più nota. Tuttavia non è dato sapere se egli lottasse solo per l’affrancamento proprio e dei suoi sodali oppure puntasse alla soppressione di quell’ordine di rapporti sociali nel suo insieme. Non gli fu dato tempo e occasione per farcelo sapere, e verosimilmente certe concezioni moderne erano ancora troppo distanti dall’immaginario di quell’epoca.

Nell’evo di mezzo vi furono dei tentativi analoghi, però dapprima su base religiosa e vocazione peuperistica, da parte di gruppi e comunità di cosiddetti “eretici”. Qualcosa del genere fu tentato anche in America Latina, ma anche in tal caso l’esperimento denotava un’impronta pretesca e localmente circoscritta. Anche rivolte corporative, come a Firenze con i Ciompi.

Agli albori dell’epoca moderna abbiamo i primi riscontri di lotte di classe ampie e strutturate, intese a sovvertire l’ordinamento vigente. Dal punto di vista teorico sono noti i saggi pubblicati da diversi autori “utopisti”, e sul piano dell’azione concreta si segnala la grande guerra dei contadini in Germania, le frequenti rivolte in Francia, eccetera, fino a giungere agli esperimenti sociali propriamente comunistici, del tipo di quelli di Saint- Simon, di Fourier, di Robert Owen.

Questi ultimi coglievano degli elementi dissolventi nel seno della società dominante indotti dall’antagonismo delle classi, e però non conferivano all’attività autonoma da parte del proletariato un ruolo decisivo di sovvertimento sociale e di proposta alternativa, limitandosi a escogitare condizioni d’emancipazione immaginarie assecondando i loro progetti personali di riforma e ottimizzazione dell’esistente.

Dopo la rivoluzione borghese che pose fine del vecchio regime, dopo il 1848 e la Comune di Parigi, bisognerà attendere il XX secolo per vedere delle grandi rivoluzioni tese al superamento dei vecchi rapporti sociali, a cominciare da quelli di proprietà. Come sappiamo, questi tentativi, date le condizioni sociali di partenza e nella convinzione errata che il rapporto tra base economica e “sovrastruttura” sia in sostanza di tipo causale e non dialettico, hanno prodotto dei sistemi ibridi carichi di contraddizioni e destinati infine a fungere da base per il successivo sviluppo capitalistico, esposto anch’esso a ibridazione come nel caso della Cina.

Del resto Marx aveva espresso chiaramente il proprio ammonimento a riguardo del fatto che la storia non fa salti: «Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza».

C’è chi sostiene che così come il modo di produzione capitalistico si è formato ed ha cominciato a operare all’interno del modo di produzione feudale, analogamente il modo di produzione successivo si forma e comincia a operare nel modo di produzione capitalistico (*).

Tuttavia, il ragionamento analogico, che può essere un utile strumento del pensiero, non è prova di verità. Penso non vi sia analogia possibile con il passato, nel nostro caso, poiché tutte le trasformazioni avvenute nei modi di produzione precedenti non hanno mutato sostanzialmente i rapporti di produzione, limitandosi a sostituire una forma di proprietà a un’altra, una forma di sfruttamento con un’altra.

In queste condizioni, non esiste alcuno spazio reale, sia pure interstiziale, per i rapporti di produzione in gestazione all’interno della morente base economica capitalistica: essi sono condannati ad avere un’esistenza solo virtuale, oppure del tutto marginale, mere “riserve indiane”.

Il superamento del capitalismo dovrà avere un carattere radicalmente diverso, poiché non si tratta di rovesciare la classe dominante per sostituirla con un’altra. Si tratta di promuovere, sulla base delle possibilità raggiunte dalla tecnologia e della scienza, un processo di produzione completamente diverso, di trasformare e modellare l’avvenire secondo un progetto scientifico di distruzione e costruzione cosciente, sfruttando tutte le possibilità e le latenze offerte dal presente.

Un progetto ancora tutta da scrivere, e nessuno può elevarsi in prima persona a soggetto della storia assumendosi i compiti di un processo di rivoluzione che altresì richiede per la sua realizzazione la cooperazione d’intelligenze ed energie di dimensioni inedite, tenuto conto, come avvertì Marx, che l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, e cioè solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.

Ed è appunto il nostro caso.

Sotto l’incalzare della crisi storica della formazione economico-sociale borghese, gli strati della piccola e media borghesia sono sospinti verso la proletarizzazione e la perdita progressiva di peso politico. Vi è l’esigenza, da parte di questi strati, di veder rappresentati e tutelati i propri interessi di fronte a livelli marziani di pressione fiscale e al grande capitale che tutto fagocita (e delocalizza). Esigenza che non può trovare risposta adeguata, poiché non esiste un potere politico nazionale in grado di agire in reale autonomia, tantomeno in Paesi sotto il cappio dei mercanti a causa dell’alto debito pubblico.

L’aver assecondato a suo tempo la strategia di “limitare il ruolo dello Stato”, ha avuto esito nella consegna agli organismi tecnocratici sovrannazionali, espressione degli interessi dei segmenti più forti del capitale, del potere di decidere le linee di politica economica e di controllo della moneta. Questo inganno della democrazia e di un progetto europeo autentico, ha ridotto il ruolo dei partiti a meri cartelli elettorali balcanizzanti, che si accapigliano su questioni del tutto residuali, la qual cosa va sotto il nome di “crisi della politica” o anche di “crisi della democrazia”.

Spetta a noi decidere che cosa fare, tenuto conto che la lotta ideologica è una determinazione essenziale del cambiamento, quantomeno il suo minimo sindacale. Non mancheranno i lati conflittuali e contraddittori in questo lungo processo, così come non ci sarà arma che non verrà impiegata dalle classi dominanti per impedire qualsiasi spinta verso un radicale cambiamento, non ci sarà violenza, stragi o genocidio che non saranno tentati per bloccarne il corso.

(*) È ciò che adombra Renato Curcio in un suo recente interessantissimo articolo: «Si possono immaginare forme organizzative efficienti, assolutamente competitive, diciamo così, e fuori dalle dimensioni proposte dal mercato delle merci. Lo dico in una prospettiva ampia, non minoritaria, come una linea di uscita dal capitalismo che non dice “prima dobbiamo sconfiggere questo modo di produzione, poi, dopo...”. Non è accaduto così all’origine della storia del capitalismo stesso: la borghesia si è formata all’interno del contesto delle aristocrazie dentro il quale c’erano re, forme di potere completamente diverse; le botte- ghe artigiane hanno cominciato a costruire il loro mondo, a costruire un nuovo modo di produzione, che è un nuovo modo di vivere, di relazionarsi agli altri, di concepire gli strumenti, di progettarli, di immaginarli ... e quindi anche di immaginare le tecnologie digitali. Possiamo fare tante cose, e naturalmente questo è un sentiero di esplorazione (Il capitalismo cibernetico (E andare oltre), in Paginauno, n. 78, luglio-settembre 2022, pp. 69-70).

9 commenti:

  1. E se la società divisa in classi fosse alla fine quella più adatta alla specie umana? Una specie competitiva, predatoria, violenta e contraddittoria nei suoi comportamenti. Alla fine non ci siamo creati delle società a nostra immagine e somiglianza?

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    1. Non credo che l'interlocutore precedente sia dalla parte dei predatori. Credo che sia dalla parte dei pessimisti.

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    2. Non tanto dei pessimisti. Forse più fra quelli che provano a porsi delle domande per spiegarsi un po' meglio la realtà che ci sta intorno e in questo processo magari capire meglio se stessi. Fra le altre cose lei dice: "...perché degli esseri razionali e dotati di una coscienza superiore a quella del branco, capaci di regolare il proprio comportamento affrancandolo dal mero istinto, di creare opere mirabili e realizzare imprese stupefacenti, debbano continuare a vivere da un lato come animali da preda e dall’altro come vittime."
      Pensandoci le risponderei perché il nostro cervello è in continua lotta tra una parte minoritaria che è quella della ragione, la quale, dal punto di vista evolutivo, è arrivata in tempi recentissimi e tutta la struttura di base che è quella degli istinti bestiali che mi pare continui a dominare gli esseri umani, dalle dimensioni più micro della vita a quelle più grandi. Mi pare che ci sia una forza ancora più forte dell'economia che dirige le società umane ed è quella bestialità che è intrinseca all'uomo e che in tanti dicono di voler superare senza rendersi conto che ancora oggi prevale. Guardandoci dall' esterno, osservando le nostre società e accennando alla foto del suo post mi pare che siamo effettivamente scimmie nude e non molto di più. Anche gli ideali più nobili di cui l'umanità si fregia sono sorti in un complicato e contradditorio processo all'interno di guerre, massacri e crimini di ogni genere. Ne sono stati il prodotto a veder bene. Perfino le grandi opere di cui parla lei sono spesso il frutto di un processo di sfruttamento spietato e di saccheggio. Anche d'ingegno, ci mancherebbe. Non vorrei che si pensasse che vedo proprio tutto nero. Quello che intendo dire è che se la biologia della specie umana fosse adatta a costruire una società razionale, avremmo una storia alle spalle un po' diversa da quella che ci portiamo appresso. Mi vengono in mente le grandi rivoluzioni che puntualmente divorano i loro leader, incapaci forse di capire nel profondo cosa sia l'animale uomo e per questo spesso costretti a compiere massacri in nome di ideali di amore universale (la chiesa) o giustizia sociale (i vari esperimenti comunisti e socialisti). Uccidere milioni di persone in nome dell'amore o del progresso sociale e della costruzione di un "uomo nuovo". Non lo trova sconvolgente?
      Infine due accenni alle domande che poneva: innanzitutto è fin troppo facile dirle che la mia simpatia va tutta alle vittime, poichè di mio penso di essere una persona mite e con senso di giustizia. Ma questo poco importa. Perchè in ogni specie ci sono individui con un tasso maggiore di aggressività e altri meno e il singolo caso non fa la differenza nel gruppo numeroso. Invece chiudo rispondendo all'altra questione: "dove ci sta portando questo sistema divisivo, dissipatore e anarcoide, un sistema sociale a immagine e somiglianza di volgari predatori?". Può essere che ci porti senz'altro all'estinzione nell'indifferenza del cosmo. Ma proprio per questo rischio, guardando la situazione "dall'alto", se dovessimo arrivare come specie al nostro annientamento sarebbe un gran bene per la vita del pianeta in generale, mi pare. Mi scuso per la lunghezza del commento. Cordialità.

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    3. La chiusa sul beneficio per il pianeta è un gioiello di ironia.

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    4. Rispondo con un po’ di ritardo, causa impegni (tra l’altro, ieri sera, ho incontrato una straordinaria persona che da oltre 40anni svolge attività di volontariato).

      La guerra come igiene del mondo, eccetera. Sappiamo dove può infine condurre questa specie di ideologia: ai campi di sterminio. Nell’indifferenza del cosmo, ovviamente.

      Se si scava a fondo in ciò che dice il nostro caro lettore qui sopra, non c’è nulla, salvo l’inquietudine del piccolo borghese per la decadenza del sistema vigente, senza peraltro chiedersene i motivi profondi, in pieno fraintendimento sul rapporto tra biologico, sociale e culturale, attribuendo la cattiva condotta del mondo alla innata rapacità e bestialità dell’”uomo”.

      Immaginiamo di sentirlo parlare in pubblico; dapprima forse si ride (la supposta ironia che Erasmo rintraccia, penso), poi s’invita questa persona riflessiva (che davvero apprezzo se non altro per la voglia di comunicarci il suo spiegarsi meglio la realtà che gli sta intorno e ciò che ha capito di se stesso), cortesemente a fare un giro tra la gente vera, con i problemi, la cattiveria e a volte la bestialità, ma anche con l’ordinario senso del proprio dovere sociale, quindi gli slanci di bontà, solidarietà e creatività positiva, indagando in tal modo seriamente la complessità della nostra vita sociale e di quanto sia sfaccettata l’umanità, che non merita proprio di essere annientata tutta nel fuoco nucleare.

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  2. Olympe, umana, troppo umana.

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    1. Se persino un darwinista duro e puro come Dawkins arriva alla fine a riconoscere che "i buoni arrivano primi" e quindi che la cooperazione dà risultati migliori rispetto al conflitto, credo che la possibilità di capirlo sia un po' per tutti. E basta, per favore, con la storiella che l'ecatombe nucleare darà nuove possibilità magnifiche al pianeta (per le formiche e per le vespe? Bella roba). Siamo un po' angeli e un po' bestie, sta a noi scegliere da quale lato pendere e un sano egoismo dovrebbe prevedere che ci occupiamo del prossimo in difficoltà, non per bontà, ma per il nostro tornaconto. Umanesimo utilitaristico.
      Morvan.

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