L’editoriale di Marco
Revelli che segue mi è stato segnalato dall’amico Luca, non l’avevo ancora
letto quando l'altro ieri ho scritto il mio post sullo stesso argomento. Noto come
Revelli usi l’espressione che ho usato anch’io per definire queste
manifestazioni dei nuovi poveri: jacquerie.
Ciò che impressiona leggere – impressiona sempre, anche quando già conosci quei
dati – è il numero delle attività che stanno chiudendo, il numero dei
nuovi marginali, d’interi ceti professionali proletarizzati, anzi, ridotti a Lumpenproletariat, tanto per usare un
altro termine. È solo questione di tempo e di numeri. Come vado scrivendo qui ormai
da quattro anni, fino a quando la massa delle pensioni e degli stipendi
pubblici verranno sostanzialmente garantiti, il sistema reggerà. Poi, inevitabilmente,
sarà sangue. L'Italia non è la Grecia. Sarà una conseguenza logica delle cose, e LORO lo sanno. Perciò hanno
attivato la gabbietta, e attraverso i media mettono in cattiva luce questo genere di proteste
sociali e cercano anche di nasconderle. Sono molto più diffuse di quanto ci raccontino
televisione e giornali.
Si è parlato di Torino,
Genova e poco altro, ma qui nel profondo Veneto la protesta è diffusa e non
sembra placarsi. Oggi pomeriggio sarà la volta del blocco della rotatoria che
conduce ai grandi centri commerciali di Bassano del Grappa. Una concentrazione
di centri commerciali demenziale che ha ucciso letteralmente il tradizionale commercio
al dettaglio. Questa protesta, per ora, non preoccupa più di tanto il Potere,
ma rappresenta un campanello d’allarme, perciò deve essere denigrata e
infangata. Però non si fermerà, siamo solo all’inizio. Il problema è che verrà infiltrata e intossicata. Tuttavia quando verranno a
mancare i dindi dalle famiglie, finalmente entreranno in scena gli studenti, non più solo con le
marcette, e dopo che saranno stati bastonati per bene, allora è probabile che
aprano gli occhi sulla vera natura della società nella quale sono stati finora
cullati e si arrivi a un cambio di musica nelle strade e nelle piazze. La
storia non si ripete mai uguale, ama le variazioni, ma lo spartito sociale sul
quale è scritta, il conflitto tra capitale e lavoro, tra ricchi e poveri, non
cambia.
*
* *
L'invisibile popolo dei nuovi poveri
di Marco Revelli, il manifesto
del 12-12-13.
Torino è stata l’epicentro
della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la
mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta,
perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70,
ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…».
Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio,
non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan
sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione,
superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti,
l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di
poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi.
Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli
indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli
commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già
costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido
tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza
i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex
manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute
insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a
termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte
chiuse.
Le fasce marginali di
ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un
paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione…
Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate
a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto
bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa
presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un
certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa
«potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice –
come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso
gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione
non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa
era esilis¬simo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva
«Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase
che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico
comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in
tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da
quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva,
antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di
mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe
un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra
golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova,
certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori
della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di
tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio
liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra
che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia,
diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è
chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri
invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere
di massa….
Perché Torino è stata la
“capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli
ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo –
che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in
grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino
è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta
dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre. Con i suoi quasi 4000
provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno
precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata
definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità
incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del
lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di
pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo
Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione
a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche
a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per
le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi
(il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344
tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può
presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi
1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha
marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende
con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della
classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel
primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima
e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come
dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella
provincia.E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi
succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione
sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo
passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica
centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere
corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali
messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico,
le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare,
insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e
interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma
manovalanza a basso costo… Composizione fragile, che era sopravvissuta in
sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del
fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui
la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi
sempre più forte, e sempre più in alto.
Non è bella a vedere, questa
seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo
tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il
“forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo
di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in
alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton,
anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca,
brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di
odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena. Niente a che vedere con la “bella
società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio
del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del
discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra
rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo
con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di
tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei
primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare
l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto –
regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione
con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria
borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.
Poesia!
RispondiEliminaHo letto anche la tua "gabbietta", che insieme all'articolo presente spiegano l'odierno, e lo fanno in maniera ineccepibile. Appunto, la sinistra non c'è. Non c'è perché non ne esistono i soggetti e anche quando li si trova (faticosamente) parlano d'altro.
C'è bisogno della sinistra, sì, ma prima qualcuno dovrebbe spiegarmi cosa sia! Forse quella che propone la dittatura del proletariato? Forse quella che parla (e parla, e parla, e parla...) della giustizia sociale? Quale? Come dovrebbe essere tecnicamente? Forse quella che abolirebbe il denaro? Sì, d'accordo, ma poi? O forse quella che parla di ritornare alla lira? E poi? Forse quella che nazionalizzerebbe tutto? E poi i nuovi capitalisti sarebbero i politici?
Sarà una mia impressione ma il fatto è, che la sinistra non è mai esistita nemmeno tra la gente di sinistra, o che si definisce come tale. Per fare una "roba" di sinistra bisogna mettersi d'accordo su cosa sia la sinistra, sia in teoria, che in pratica. Altrimenti, cavalcando la protesta, anche scientificamente, non saremo meglio di loro. Anche perché non lo siamo.
La controprova?
Prendi 10 persone che si definiscono di sinistra a caso e chiedigli di spiegarti in una frase su cosa sia la teoria e la pratica tecnica della sinistra. Ognuno di loro crederà di aver ragione e inizierà la solita di "chi ce l'ha più lungo". Che differenza passa allora tra "noi" e "loro"?
Quando si dice che per trovare i colpevoli basta guardarsi allo specchio...nessuno escluso!
Ad maiora.
Tony
La colpa è sempre dei Compagni.
RispondiEliminaDei Compagni che duellano su ogni parola:COLLETTIVIZAZIONE O MESSA IN COMUNE DEI MEZZI DI PRODUZIONE. Dei compagni divisi tra:RIVOLUZIONE GUIDATA DA UN’ELITE RIVOLUZIONARIA o UNA RIVOLUZIONE PERMANENTE. Dei compagni che DIRAZZANO fino a diventare DITTATORI o CONNIVENTI COL POTERE. Ma che cercano di CAMBIARE LE COSE.
Oggi l’unica RIVOLUZIONE possibile è rompere l’involucro di protezione individualistico e far volare la FARFALLA –PERSONA,che riconosce a TUTTE/I la sua stessa IMPORTANZA.
Ci si riuscirà mai? Non lo so,ma so che è l’unica strada possibile.