Che cosa dice il primo
articolo comma secondo della costituzione? Sicuri che poi in realtà è proprio così
come recita la costituzione? Secondo l’ambasciatore germanico a Roma le cose, per
quanto riguarda la nostra sovranità, stanno diversamente non solo nella
sostanza ma anche nella forma. Afferma in questa intervista:
«Il trasferimento di sovranità nazionale in senso classico c'è
già stato. Non nasce oggi. Oggi stiamo parlando di un modo di attuare quanto è
già deciso ed è un'attuazione in parte
su base volontaria».
Questo sì che è parlar
chiaro: la sovranità nazionale, quella che secondo la costituzione dovrebbe
appartenere al popolo, non esiste più. È stata trasferita altrove, fuori dai confini nazionali. E, difatti,
sottolinea l’ambasciatore, «nella sostanza
si tratta solo di applicare quel trasferimento
di sovranità che è già implicito negli accordi accettati in passato».
Chiede l’intervistatore: «Un'idea tedesca è quella degli
"accordi contrattuali" dell'Europa con i singoli Paesi sulle riforme.
Non teme che qualcuno possa sentirsi commissariato, messo sotto tutela?».
Risposta puntuale dell’ambasciatore
tedesco:
«Mi pare sia un'idea che la stessa Cancelliera ha avuto per
prima. E capisco queste esitazioni. Ma gli accordi contrattuali non sono che una
nuova dimensione della politica europea».
La nuova dimensione della
politica europea è dunque decisa a Berlino e poi ratificata, sotto minaccia di
far mancare “gli aiuti finanziari”
(vedi Bce), dai singoli governi.
A voglia Romano Prodi di
dire che “questa Europa non mi piace perché la Germania non si assume le sue
responsabilità”. La Germania si è ben assunta le proprie responsabilità, dal
punto di vista dei suoi interessi, tanto è vero che si è assunta la sovranità
dell’Europa. Pensava forse Prodi che i tedeschi fossero cambiati, che i
francesi o gli inglesi fossero disposti a rinunciare a qualcosa d’importante
per sostenere l’unione? Credeva che la competizione tra i diversi Stati fosse
risolta e più in generale venisse meno lo scontro inter-capitalista?
Del resto, privatizzare è
sinonimo di (s)vendere. La struttura produttiva di un paese è il fondamento
economico su cui poggia tutto il resto. Privatizzare una società strategica, significa metterla alla mercé del capitale internazionale, ossia cedere una
parte della propria sovranità. Più si privatizza e maggiore diventa la perdita
di sovranità di un Paese. Lasciare campo libero alle scorribande del capitale
internazionale, significa perdita di sovranità.
Se si voleva
ridimensionare l’intervento dello Stato nel settore economico, data l’incapacità
gestionale e l’intreccio perverso affari-politica, si sarebbero almeno dovute
valutare le effettive compatibilità di politica economica e definire gli
obiettivi ultimi dell’operazione attraverso un ampio dibattito sociale. Insomma,
c’erano altre strade che quelle effettivamente percorse e che hanno solo
favorito dapprima certi appetiti del padronato nostrano e poi il grande
capitale internazionale, quindi la finanziarizzazione dell’economia e le bolle
speculative. E ciò è dipeso in primo luogo dagli interessi in campo e dalle
teorie economiche (cervellotiche, ma non disinteressate) di chi decide le
misure di politica economica.
La prima grande smobilitazione
di attività nel sistema delle partecipazioni statali si era avuta negli anni Ottanta
con oltre 70 dismissioni dei principali enti di gestione (39 attribuibili all’IRI,
15 all’EFIM e 21 all’ENI). Poi, nei primi anni Novanta, la volontà di attuare
un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, in concomitanza alla
costituzione del Mercato unico europeo (1992) e agli intensi processi di
globalizzazione dell’economia, è arrivato quel bell’imbusto di Giuliano Amato
in accoppiata con Carlo Ciampi e altri figuri dello stesso stampo.
Tra il luglio-agosto del
1992 il governo Amato diede il via con un decreto poi convertito in legge a un
processo di privatizzazione di imprese pubbliche sotto la spinta di un’urgenza e
un panico create in gran parte ad arte e con varie complicità (in cambio si permetteva una svalutazione competitiva), ossia con
modalità del tutto opposte rispetto, per esempio, a quanto avvenuto in Germania
ad opera di un’apposita commissione che ha venduto o riconvertito tutto il
patrimonio statale della ex Germania dell’est avendo però chiari gli obiettivi
strategici di politica economica.
Invece di conseguire
finalità pubbliche, o di allargamento della base azionaria, le prime
privatizzazioni andarono a favorire alcuni istituti privati e le grandi
famiglie del padronato italiano (vedi vicenda Alfa Romeo o Lanerossi), ma con l’operazione
Amato le finalità furono ben altre.
L’asse franco-tedesco
puntava a creare una zona economica, appunto l’Europa, che potesse sostenere lo
scontro sul piano della globalizzazione con gli Stati Uniti e l’area asiatica
del Giappone. Si diede così il via alla grande mistificazione europea, sostenuta
da una propaganda mediatica che indicava nel liberismo sempre più selvaggio un
progresso che in realtà ha condotto a una competizione con l’economia mondiale che
sta lasciando un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella
miseria e ha aumentato le disuguaglianze sociali in misura inedita dal
dopoguerra.
Pertanto, credere che
tutto ciò sia avvenuto e avvenga in buona fede, nell’interesse nazionale, è
credere alla befana. E Prodi, Amato e tutti gli altri, compresi i sindaci e i
rotti in culo italiani-europei, è appunto della befana che ci parlano. E tuttavia, diciamoci la verità, queste cose a quanti effettivamente interessano?
Ormai le riforme costituzionali davvero cruciali sono fatte in silenzio e con l'accordo a priori di tutti i partiti “governativi” (che cioè si sono alternati, nel corso degli anni, alla guida dei vari esecutivi). Basti pensare alla riforma dell'art. 81 della Costituzione, fatta – se non sbaglio – l'anno scorso, dal giorno alla notte, senza un minimo di dibattito pubblico, senza informare adeguatamente l'opinione pubblica e senza neppure screzi fra “centrodestra” e “centrosinistra”. D'amore e d'accordo. Eppure con quella riforma abbiamo rinunciato a un “pezzo” importantissimo di sovranità. Qualche eminente studioso (Ferrajoli, se non vado errato, ad es.) ha proposto tempo fa di introdurre nelle Costituzioni l'obbligo di destinare annualmente parte del bilancio pubblico alla “messa in opera” e al sostegno dei diritti sociali; la proposta non ha avuto grande successo perché sostanzialmente – dicono i critici – vincolerebbe le risorse pubbliche in maniera eccessiva, potrebbe comportare problemi di sostenibilità, ecc. Ebbene, e invece questo “pareggio del bilancio obbligatorio” cosa fa? Non rischia di mettere un cappio intorno al collo dell'economia nazionale? Non è un “vincolo eccessivo” e – direi – addirittura mortificante?
RispondiEliminaLa verità è che i “vincoli liberisti”, pur essendo vincoli (alla sovranità, ecc.) sono accolti da ovazioni generali (da parte dei decisori pubblici, degli editorialisti “che contano”, ecc.); i “vincoli socialisti” (eventuali) sono invece respinti a priori... in quanto vincoli! E questo sarebbe un mondo senza ideologie?!
l'esempio dell'art. 81 è molto pertinente. sono tutti organici al sistema, gentaglia miserabile, ignorante, avida e senza dignità
EliminaGentaglia miserabile, ignorante, avida e senza dignità. Diventerà il mio mantra... questa storia della sovranità di fatto ormai parzialmente ceduta dovrebbe far scendere tutto il paese (paesi?) in piazza, invece ovviamente il cittadino è convinto che sia giusto e doveroso pagare di tasca propria i disastri provocati dalla "grande finanza internazionale", mentre i principali artefici di questa ecatombe, invece di venire arrestati, se ne vanno bel belli in giro con i loro portafogli adeguatamente rimpinguati di buonuscite... ROAR
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