lunedì 25 novembre 2013

Gerarchie


L’intreccio tra affari, finanza e politica, così come tra questa e la criminalità, non è una novità né del passato remoto e nemmeno di quello più recente, ed è all’ordine del giorno come dimostrano i molti processi e le sempre numerosissime indagini in corso.

Dopo l’unità d’Italia gli scandali (e il loro uso politico) furono numerosi, a cominciare, per esempio, da quello che riguardò la costruzione delle ferrovie e ancor prima lo scandalo sull’uso dei fondi durante la campagna garibaldina in Sicilia, vicenda che vide la morte, più che sospetta, del povero Ippolito Nievo, testimone pericoloso in quanto uomo onesto, così come compromettenti dovevano essere i documenti che portava con sé.

Ma anche altri numerosi scandali politica-affari coinvolsero le più diverse personalità dell’Italia cosiddetta liberale. Del resto, i grandi affari sollecitano grandi appetiti, soprattutto in un paese in cui la classe politica e dirigente è tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale, la cui criminalità si è estrinsecata nel corso dei secoli in tre forme: lo stragismo e l’omicidio politico, la corruzione sistemica e la mafia”.



Sul finire del XIX secolo scoppiò uno scandalo ben noto anche oggi poiché i libri scolastici di storia gli dedicano qualche riga, quello cosiddetto della Banca Romana. Quali potevano essere le premesse di quella grave crisi istituzionale e finanziaria? La speculazione edilizia, come solito, soprattutto quella interessata alla realizzazione di grandi opere, in particolare a Roma, nuova capitale, offriva l’occasione per ingenti profitti e diffuse corruttele nei circuiti poco trasparenti (eufemismo) generati dal finanziamento delle campagne elettorali e della politica in genere.

A modo di cornice, l’assenza di una reale riforma del sistema bancario, laddove le banche autorizzate all’emissione di cartamoneta erano ben sei. Possiamo immaginare quali tentazioni suscitasse lo stato delle cose, e quanto succedesse in quelle stamperie con la complicità indotta, a vari livelli, dallo smercio di moneta facile (e perfino “falsa”), tanto che le inchieste parlamentari erano state puntualmente insabbiate da governi e parlamento, fino al 1892 quando, divenute note le vicende della Banca romana, scoppiò lo scandalo.

Ad un certo punto, con alcune banche sull’orlo del fallimento, il ministro dell’agricoltura (!!!) si vide costretto a promuovere l’inchiesta amministrativa per verificare l’operato delle banche autorizzate a stampare moneta. Bisognava verificare, in particolare, quello che tutti sospettavano, ossia se il quantitativo di moneta emessa fosse congruo ai parametri stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di diversi milioni con una serie di biglietti falsi, anche se tecnicamente autentici (duplicava cartamoneta già stampata).

Serve dire che dalle indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo denaro non solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma personalità istituzionali, politici e giornalisti? Il cliché criminale in Italia è, come detto e come chiunque evince, sempre il solito, compreso quello delle inchieste e dei processi, delle fughe dei responsabili e delle morti misteriose. Un filo nero e una striscia di sangue che percorrono tutta la storia d’Italia.

Per evitare lo scandalo per tre anni Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì preferirono tenere segreti i risultati dell’inchiesta, doverosamente in nome degli interessi più alti della patria, ossia l'inchiesta fu insabbiata
 per scongiurare le conseguenze negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico.

A un certo punto saltò il coperchio. Il 24 novembre 1892, il senatore Alvisi, il quale aveva presieduto l’inchiesta insabbiata, morì di crepacuore, senza esser riuscito nemmeno a leggere la sua relazione sulla situazione “morale” delle banche. I risultati della sua inchiesta però arrivarono  nelle mani di Napoleone Colajanni, deputato radicale (assolutamente nulla a che spartire con l’attuale consorteria Pannelliana), che riferì alla Camera durante la seduta del 20 dicembre.

Lo scandalo era scoppiato. Le resistenze di Giolitti alla possibilità di avviare un’inchiesta parlamentare, portarono ad una nuova ispezione sugli istituti di emissione che confermò quanto scritto nella relazione Alvisi. Quando la Camera fu informata dei risultati, Zanardelli (che la presiedeva) indicò i nomi dei sette membri della nuova commissione parlamentare d’inchiesta, per esaminare i documenti e le testimonianze raccolte dalla precedente.

Per quanto relativo alla Banca romana, furono arrestati il direttore Michele Lazzaroni e il governatore Bernardo Tanlongo che ammise di aver versato cifre importanti anche a diversi presidenti del consiglio. Giolitti fu accusato principalmente di tre cose: di aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi (all’epoca era ministro del tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come senatore (per procuragli l’immunità) e di aver ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per finanziare le sue campagne elettorali. Il presidente del consiglio si difese negando di essere stato a conoscenza della relazione Alvisi e di aver ricevuto denaro dalla Banca romana, ma dopo la lettura della relazione della Commissione dei sette rassegnò le dimissioni e decise di trascorrere un periodo all’estero.

Scriveva l’editorialista del Corriere della Sera il 23 novembre 1893: “Non ricordiamo nella storia del Parlamento il caso di un presidente del consiglio colpito così in pieno petto, dinnanzi alla Camera affollata e fremente, da una sentenza solenne, che lo convince di reati gravi in ordine politico e morale”.

Giolitti non sarebbe stato l’ultimo presidente del consiglio o ex presidente costretto a fuggire all’estero. Ritornerà e governerà a lungo. Il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo, per insufficienza di prove: i giudici accolsero la tesi difensiva che sosteneva la sottrazione, nel corso delle indagini, di importanti documenti.

Chi, esattamente un secolo dopo, fuggito a sua volta per scansare il carcere, non fece ritorno, fu Benedetto Craxi. Prima di lasciare l’Italia pronunciò un discorso che andrebbe inciso su bronzo da apporre agli ingressi, non del parlamento poiché ciò sarebbe senza effetto, ma delle scuole di ogni ordine e grado e nei più importanti pubblici uffici. Disse tra l’altro:

Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità ed efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi d’immoralità e di asocialità. E così all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione […]. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale […].

Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.

Chi pronunciò queste parole dovette subito dopo, come detto, “esiliarsi” all’estero per sfuggire al carcere a causa degli stessi crimini apertamente denunciati (perché ormai di pubblico dominio) e commessi e reiterati in prima persona.

Il 27 prossimo, ovvero nel giorno in cui il senato voterà per la decadenza di Silvio Berlusconi, sentiremo un discorso diverso da quello di Craxi, poiché così come c'è una gerarchia tra uomini e ominicchi, anche nel crimine ce n’è una che distingue la qualità dei malfattori.








4 commenti:

  1. Non ha molto senso pagare le tasse in questo paese eh. Per fortuna ho smesso.

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  2. Ippolito Nievo un mio grande amore. Nascosto truffaldinamente dai programmi scolastici.

    Quello che la storia d'italia avrebbe potuto essere e che non è stata.

    La scelta del Manzoni come sommo della patria servì la chiesa, il centralismo burocratico e i governi sabaudi e romani.

    La sua scelta di usare tutta la ricchezza dei dialetti italiani, invece che disseccare le lngue vive nell'arno, la dice lunga sul fatto che la sua italia era quella reale non quella, in "fondo" bigotta, del manzoni.

    Non sapevo che l'affondamento del traghetto su cui viaggiava fosse sospetto. Se hai da segnalarmi qlcsa grazie. In ogni caso - il tuo tempo è per noi prezioso - cercherò.
    gianni

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    1. mi chiedevo che fine avessi fatto
      c'è quanto basta in rete su nievo, il cui romanzone ho letto solo giusto 10 anni fa. a me piace soprattutto l'inizio, la descrizione della cucina, se non sbaglio. il manzoni certamente è servito per gli scopi che tu dici, ma si tratta comunque di grande letteratura
      ciao

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  3. Chissà perchè penso che, se un discorso ci sarà, sarà fatto dalla radio di bordo dell'aereo di Putin.
    saluti

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