L’organizzazione sociale urbana nasce con la
stanzialità dei popoli, con l’aumento della popolazione e l’insediamento di una
parte di essa in confini delimitati, dapprima in villaggi e poi via via in
centri più estesi e socialmente articolati, di norma presso un corso d'acqua, a contatto con zone agricole o come porto commerciale o snodo di transito. Altro presupposto necessario per lo
stabilirsi di comunità urbane complesse è un livello di sviluppo adeguato della
produzione materiale, anzitutto con la separazione delle attività industriali
da quelle agricole, ossia con la comparsa della prima generale divisione sociale
del lavoro e della proprietà privata quale condizione dello scambio privato e
dunque del rapporto tra differenti sfere di produzione.
Non si tratta qui di stabilire rapporti e
influenze unilaterali bensì di dar conto di un processo storico per sua natura
di tipo dialettico; pertanto così come la prima generale divisione sociale del
lavoro e la comparsa della proprietà privata e dello scambio sono condizioni
della formazione delle città, a sua volta a fondamento di ogni divisione del
lavoro sviluppata e mediata attraverso lo scambio di merci sta la separazione
di città e campagna, tanto che l’intera storia economica della società si può
riassumere nel movimento di tale antagonismo.
Nel mondo antico la proprietà privata sorge
solamente al momento della disgregazione dell’ordinamento organico delle
società comunitarie e, nel mondo moderno, solo con lo sviluppo della produzione
capitalistica. La divisione sociale del lavoro e la proprietà privata (concetti
sinonimi), la separazione delle attività industriali urbane da quelle agricole,
sono foriere di antagonismi sociali tra i quali il conflitto tra proprietà e
lavoro e, come detto, dell’antagonismo tra città e campagna, nelle forme
specifiche dei diversi modi di produzione.
Pertanto, nelle società storiche
l’antagonismo tra città e campagna è sempre esistito, espresso nelle forme e
nelle dinamiche imposte dalle circostanze (*). Se il presupposto di tale
antagonismo è dato dalla proprietà privata e dalla separazione delle attività
industriali urbane da quelle agricole e, come già detto, esso si configura
storicamente in forme diverse e mutevoli, va rilevato che così come l’epoca
classica è storia di città fondate sulla proprietà terriera e l’agricoltura,
invece nella società industriale moderna le forme
di tale rapporto risultano modificate.
Si può rilevare, per esempio, come oggi non
sia più necessario controllare e difendere con la forza la terra, così come non
è più necessario costringere il contadino alla sua zolla. In altri termini, con
i nuovi assetti proprietari, l’industrializzazione dell’agricoltura, delle sue
tecniche, dei trasporti e della commercializzazione dei suoi prodotti, sono
venuti a modificarsi e a scomparire tutti gli antichi rapporti per far posto a
un’agricoltura dominata dalla grande industria e dal capitale finanziario che a
sua volta la controlla, fatto di per sé già compiuto in numerose aree del mondo
e in via di realizzazione in continenti come l’Africa dove le multinazionali
con la complicità dei governi locali stanno espropriando i contadini della loro
terra.
Se dunque l’antagonismo tra città e campagna
nelle antiche forme già oggi non ha
più ragione d’essere, resta tuttavia da considerare una questione di non poco
conto (alla quale tra l’altro allude Pietro nella sua precisazione al proprio commento),
e cioè di come la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli
individui e grandi società appaia così assurda come la proprietà privata di un
uomo da parte di un altro uomo o di una società per azioni (**).
E non si tratta qui di esprimere un giudizio
morale, ma di mettere in luce la contraddizione e il contrasto tra i rapporti
di proprietà e la capacità produttiva e di sviluppo raggiunta dalle forze
produttive, la sproporzione tra lo sviluppo di queste ultime e l’accumulazione
di capitale da un lato e la distribuzione della ricchezza dall’altro, laddove
all’universale socializzazione della produzione corrisponde altresì la
proprietà e il controllo monopolistico dei mezzi di produzione e della
produzione stessa da parte di pochi trust (***).
E tuttavia su questa questione, dirimente e
propedeutica di tante altre, l’ideologia dominante sa ben sviare l’attenzione.
Mi fermo qui, il sermone è diventato già troppo lungo e rinvio altre
considerazioni attinenti al tema a un prossimo post.
(*) Non prendo qui in considerazione le
popolazioni nomadi e cosiddette barbare, per esempio gli antichi tedeschi per i
quali la produzione tradizionale era la coltivazione dei campi ad opera di
servi e una vita isolata nella campagna, oppure le orde mongole che, devastando
la Russia, agivano in modo conforme alla loro produzione, la pastorizia, per la
quale una condizione fondamentale è costituita dall’esistenza di grandi distese
inabitate.
(**) La
Nestlé, società di produzione alimentari, è stata la società più redditizia al
mondo, nel 2011 numero uno al Fortune
global 500 e oggi è al nono posto, ha circa 450 fabbriche, opera in 86
paesi e impiega circa 328.000 persone. Le cosiddette ABCD – ovvero le americane
Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities
alimentari, controllando fra il 75 e il 90% dei cereali mondiali. Il più grande
produttore di frutta e verdura del mondo è l’americana Dole Food Company, fondata
nel 1924 come Standard Fruit Company dai fratelli Vaccaro, immigrati siciliani,
opera con 74.300 dipendenti a tempo pieno e stagionali e commercializza oltre
300 prodotti in 90 paesi. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle altre
risorse della terra, alcuni gruppi di trading, una dozzina dei più grandi gruppi, sono dotati di magazzini,
flotte e stabilimenti sparsi per il mondo: Glencore controlla il 55% dello
zinco e il 36% del rame mondiale; nel 2010, Vitol e Trafigura – due trading house con sede in Svizzera –
hanno venduto mediamente 8 milioni di barili di petrolio al giorno, più delle
esportazioni dell'Arabia Saudita. La più grande società d’idrocarburi, la Saudi
Aramco, ha un patrimonio venti volte la Apple, alla faccia di chi ha
privatizzato in Italia anche gli orinatoi pubblici.
(***) 787 grandi corporation controllano l'80 per cento
delle più importanti imprese del mondo e
al loro interno un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi controlla il 40 per cento delle più importanti
multinazionali del pianeta. In particolare, la classifica top dei più
grandi attori multinazionali esercita un controllo dieci volte più grande di
quello che ci si poteva aspettare sulla base della patrimonializzazione (da uno
studio condotto da ricercatori del Politecnico federale di
Zurigo (Eidgenössische Technische Hochschule), Stefania Vitali, James B.
Glattfelder e Stefano Battiston, dal titolo The network of global
corporate control).
questa lettura domenicale mi ha ispirato un'amara considerazione : ho dato e , forse, continuerò a dare un voto politico che vale MENO di un "mi piace " cliccato su facebook . comunque grazie . ciao olympe.
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