domenica 17 novembre 2013

Cenni sull'antagonismo tra città e campagna


L’organizzazione sociale urbana nasce con la stanzialità dei popoli, con l’aumento della popolazione e l’insediamento di una parte di essa in confini delimitati, dapprima in villaggi e poi via via in centri più estesi e socialmente articolati, di norma presso un corso d'acqua, a contatto con zone agricole o come porto commerciale o snodo di transito. Altro presupposto necessario per lo stabilirsi di comunità urbane complesse è un livello di sviluppo adeguato della produzione materiale, anzitutto con la separazione delle attività industriali da quelle agricole, ossia con la comparsa della prima generale divisione sociale del lavoro e della proprietà privata quale condizione dello scambio privato e dunque del rapporto tra differenti sfere di produzione.

Non si tratta qui di stabilire rapporti e influenze unilaterali bensì di dar conto di un processo storico per sua natura di tipo dialettico; pertanto così come la prima generale divisione sociale del lavoro e la comparsa della proprietà privata e dello scambio sono condizioni della formazione delle città, a sua volta a fondamento di ogni divisione del lavoro sviluppata e mediata attraverso lo scambio di merci sta la separazione di città e campagna, tanto che l’intera storia economica della società si può riassumere nel movimento di tale antagonismo.



Nel mondo antico la proprietà privata sorge solamente al momento della disgregazione dell’ordinamento organico delle società comunitarie e, nel mondo moderno, solo con lo sviluppo della produzione capitalistica. La divisione sociale del lavoro e la proprietà privata (concetti sinonimi), la separazione delle attività industriali urbane da quelle agricole, sono foriere di antagonismi sociali tra i quali il conflitto tra proprietà e lavoro e, come detto, dell’antagonismo tra città e campagna, nelle forme specifiche dei diversi modi di produzione.

Pertanto, nelle società storiche l’antagonismo tra città e campagna è sempre esistito, espresso nelle forme e nelle dinamiche imposte dalle circostanze (*). Se il presupposto di tale antagonismo è dato dalla proprietà privata e dalla separazione delle attività industriali urbane da quelle agricole e, come già detto, esso si configura storicamente in forme diverse e mutevoli, va rilevato che così come l’epoca classica è storia di città fondate sulla proprietà terriera e l’agricoltura, invece nella società industriale moderna le forme di tale rapporto risultano modificate.

Si può rilevare, per esempio, come oggi non sia più necessario controllare e difendere con la forza la terra, così come non è più necessario costringere il contadino alla sua zolla. In altri termini, con i nuovi assetti proprietari, l’industrializzazione dell’agricoltura, delle sue tecniche, dei trasporti e della commercializzazione dei suoi prodotti, sono venuti a modificarsi e a scomparire tutti gli antichi rapporti per far posto a un’agricoltura dominata dalla grande industria e dal capitale finanziario che a sua volta la controlla, fatto di per sé già compiuto in numerose aree del mondo e in via di realizzazione in continenti come l’Africa dove le multinazionali con la complicità dei governi locali stanno espropriando i contadini della loro terra.

Se dunque l’antagonismo tra città e campagna nelle antiche forme già oggi non ha più ragione d’essere, resta tuttavia da considerare una questione di non poco conto (alla quale tra l’altro allude Pietro nella sua precisazione al proprio commento), e cioè di come la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui e grandi società appaia così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo o di una società per azioni (**).

E non si tratta qui di esprimere un giudizio morale, ma di mettere in luce la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di proprietà e la capacità produttiva e di sviluppo raggiunta dalle forze produttive, la sproporzione tra lo sviluppo di queste ultime e l’accumulazione di capitale da un lato e la distribuzione della ricchezza dall’altro, laddove all’universale socializzazione della produzione corrisponde altresì la proprietà e il controllo monopolistico dei mezzi di produzione e della produzione stessa da parte di pochi trust (***).

E tuttavia su questa questione, dirimente e propedeutica di tante altre, l’ideologia dominante sa ben sviare l’attenzione. Mi fermo qui, il sermone è diventato già troppo lungo e rinvio altre considerazioni attinenti al tema a un prossimo post.



(*) Non prendo qui in considerazione le popolazioni nomadi e cosiddette barbare, per esempio gli antichi tedeschi per i quali la produzione tradizionale era la coltivazione dei campi ad opera di servi e una vita isolata nella campagna, oppure le orde mongole che, devastando la Russia, agivano in modo conforme alla loro produzione, la pastorizia, per la quale una condizione fondamentale è costituita dall’esistenza di grandi distese inabitate.

(**) La Nestlé, società di produzione alimentari, è stata la società più redditizia al mondo, nel 2011 numero uno al Fortune global 500 e oggi è al nono posto, ha circa 450 fabbriche, opera in 86 paesi e impiega circa 328.000 persone. Le cosiddette ABCD – ovvero le americane Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities alimentari, controllando fra il 75 e il 90% dei cereali mondiali. Il più grande produttore di frutta e verdura del mondo è l’americana Dole Food Company, fondata nel 1924 come Standard Fruit Company dai fratelli Vaccaro, immigrati siciliani, opera con 74.300 dipendenti a tempo pieno e stagionali e commercializza oltre 300 prodotti in 90 paesi. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle altre risorse della terra, alcuni gruppi di trading, una dozzina dei più grandi gruppi, sono dotati di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per il mondo: Glencore controlla il 55% dello zinco e il 36% del rame mondiale; nel 2010, Vitol e Trafigura – due trading house con sede in Svizzera – hanno venduto mediamente 8 milioni di barili di petrolio al giorno, più delle esportazioni dell'Arabia Saudita. La più grande società d’idrocarburi, la Saudi Aramco, ha un patrimonio venti volte la Apple, alla faccia di chi ha privatizzato in Italia anche gli orinatoi pubblici.


(***) 787 grandi corporation controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo e al loro interno un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi controlla il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta. In particolare, la classifica top dei più grandi attori multinazionali esercita un controllo dieci volte più grande di quello che ci si poteva aspettare sulla base della patrimonializzazione (da uno studio condotto da ricercatori del Politecnico federale di Zurigo (Eidgenössische Technische Hochschule), Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston, dal titolo The network of global corporate control).

1 commento:

  1. questa lettura domenicale mi ha ispirato un'amara considerazione : ho dato e , forse, continuerò a dare un voto politico che vale MENO di un "mi piace " cliccato su facebook . comunque grazie . ciao olympe.

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