Fu inevitabile, nel 1944 a Bretton Woods,
prendere certe decisioni e non altre in materia monetaria e finanziaria. Inevitabile
data la posizione di classe, dunque dati gli interessi in gioco dei partecipanti
alla conferenza, rappresentanti le rispettive borghesie di 44 paesi. Fu sancito
di eleggere il dollaro a moneta leader degli scambi internazionali agganciando
ad esso tutte le altre monete nazionali. Il dollaro venne a rappresentare, come
segno del valore, il suo rapporto con l’oro (35 dollari per un’oncia), con il
quale era convertibile. In questo modo si pensava di aver stabilizzato il
mercato dei cambi dopo la corsa alle svalutazioni competitive e la crisi degli
anni Trenta, la quale riproponeva in forma esasperata i problemi di quelle precedenti.
Il ciclo economico espansivo del dopoguerra
mise in ombra le contraddizioni strutturali del capitalismo mondiale, e il dollaro
funse bene allo scopo. Fino agli anni Sessanta, quando cominciarono nuove
turbolenze, tanto che Germania e Olanda decisero nel maggio del 1971 di lasciar
fluttuare le proprie monete rispetto al dollaro. Nell’agosto seguente, infine,
in modo unilaterale, gli Usa sancirono la fine della convertibilità della
propria moneta che subì una drastica svalutazione, imponendo (sono liberisti solo quando torna loro comodo) una tassa del 10% sulle proprie importazioni,
più tardi abolita. Inevitabile che rincarasse l’oro e il petrolio, pagato in
dollari.
Alcuni mesi dopo, la parità tra dollaro e
oro fu fissata, con l’accordo raggiunto al Smithsonian Institution, a 38 dollari per
oncia, dunque si stabilirono nuovi rapporti di cambio e la possibilità di
oscillazione, con degli scarti ufficiali del 4.5% (2.25 in più o in meno) che potevano
però arrivare al 9% effettivo. Si rivelò, come era facilmente prevedibile, un
accordo inefficace per la stabilità dei cambi. Già all’inizio del 1973, con una
nuova svalutazione del dollaro, cui ne seguiranno altre, gli Usa fecero saltare
lo Smithsonian Agreement, dando corso
alla libera fluttuazione delle altre valute. La svalutazione del dollaro e la sua non
convertibilità fu uno dei motivi che condussero alla crisi dei primi anni
Settanta, al forte rincaro del petrolio, il periodo dell’”austerità” che i
media imputarono all’esosità degli emiri arabi.
In quei frangenti, per far fronte alle
turbolenze monetarie sul mercati dei cambi, in Europa, a Basilea, all’inizio
del 1972 venne raggiunto un accordo vincolante tra le monete europee che
ponesse come limite uno scarto del 2,25 per cento alle oscillazioni tra le
diverse monete e del 4,5 sul dollaro. Fu il famoso o meglio famigerato Serpente
monetario europeo (da non confondere con il successivo sistema monetario
europeo, detto anche SME), al quale non aderirono Gran Bretagna e
Irlanda (contrariamente a quanto dice Wikipedia). Con un cambio così rigido,
l’Italia non poteva starci, ed infatti uscì già nel 1973. Solo le valute dei
paesi dell’area del marco rimasero nel Serpente, un fatto forse premonitore …..
Il resto è storia recente.
È
un fatto che ogni paese debba tendere quantomeno al pareggio della propria
bilancia dei pagamenti, anche se ciò in un sistema economico capitalista non
basta. Detto in breve: posto che la quantità di salari che la classe operaia di
un determinato paese può spendere è data, allo stesso modo della spesa
sostenuta dalle altre classi sociali, è conseguenza che i consumi interni non
sono sufficienti per realizzare la massa del plusvalore contenuto nelle merci,
è perciò necessario trovare mercati all’estero. In altri termini, gli Stati si
muovono all’interno delle leggi dell’accumulazione capitalistica, il loro
intervento è un portato necessario di tale processo, anche perché ciò consente
di scaricare la crisi sugli altri paesi.
Come
già accadde negli anni Trenta, e poi a seguire con la crisi dagli anni
Settanta, ossia nei momenti nei quali la crisi di ciclo si fa più acuta, gli
Stati tendono a svalutare la moneta per rendere le proprie merci più
competitive, anzitutto la merce per eccellenza, ossia il lavoro. Oggi però svalutare
la moneta è più difficile in forme dirette, e in particolare in Europa si preferisce ricorrere
al taglio delle prestazioni sociali e alla svalutazione di salari e pensioni,
al supersfruttamento e alla precarizzazione di ogni rapporto, con la
progressiva confisca delle libertà democratiche nel quadro della trasformazione
della forma Stato.
L’aver
delegato ad una moneta comune europea e a degli organismi sovranazionali tali
compiti, sotto la dominanza politica della Germania e dunque del capitale più
forte, priva gli Stati nazionali di ogni significativa iniziativa d’intervento,
ed essi subiscono tale gerarchizzazione quanto più sono deboli economicamente e
tanto più quando mancano di una struttura di potere omogenea e di un’adesione popolare
alle istituzioni nazionali. È questo il caso esemplare dell’Italia.
non fa una grinza, purtroppo.....
RispondiEliminami chiedevo dove fossi finito
Eliminaeheh, ho avuto dei giorni di lavoro decisamente impegnativi ... ora devo recuperare i post che mi sono perso!
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