Le
formazioni storico sociali seguono un processo storico naturale nel quale i rapporti di produzione svolgono, come rapporti sociali primordiali, un
ruolo fondamentale. Il modo in cui gli uomini producono ciò di cui hanno
bisogno per vivere determina anche tutti gli altri aspetti del vivere sociale.
E tuttavia, per indagare e descrivere una determinata realtà storico-sociale, i
rapporti di produzione, ossia quei rapporti materiali che si formano senza
passare per la coscienza dei loro agenti, non sono di per sé esaustivi per
rendere conto dell’evoluzione complessiva di quella data formazione sociale.
Per
esempio, l’antagonismo sociale tra patrizi e plebei, oppure tra borghesi e
proletari, non può essere investigato limitandosi alla sola struttura dei rapporti
di produzione (tantomeno ometterla, però!), poiché certe particolarità e
costanti vanno ricostruite tenendo presente tutti i rapporti sociali in tutte
le loro forme e in tutto il loro movimento. È questo tipo d’approccio a fare la
differenza, essenziale, tra il metodo d’indagine marxista e la sociologia
borghese.
Il
metodo d’indagine marxista parte dall’analisi della struttura economica – che
spiega il carattere e l’evoluzione di una data formazione sociale – ossia dai
concetti di produzione in generale e
da quello di modo di produzione. Con
il primo s’intende il semplice fatto che l’uomo riproduce la propria vita con
un’attività che non è direttamente determinata dall’ambiente, a differenza
degli altri animali i quali riproducono la loro vita servendosi di ciò la
natura pone spontaneamente a loro disposizione. Con il secondo concetto
s’intende la struttura di rapporti determinati, necessari e indipendenti dalla coscienza
degli uomini ed entro i quali essi operano a un determinato grado di sviluppo
delle forze produttive, per cui a distinguere le diverse epoche economiche, da
questo punto di vista essenziale, non è semplicemente quello che viene prodotto
ma come ciò avviene.
La
scienza borghese che prende ad oggetto della sua analisi la società, tende invece
a seppellire queste determinazioni storiche essenziali sotto una montagna di
fatti e fatterelli concreti, per cui la lotta di classe, ossia gli antagonismi
tra dominati e dominatori, assumono le caratteristiche esclusive della lotta
tra élite, ossia tra fazioni della stessa classe per la conquista del potere
politico.
Per
fare un altro esempio, al di fuori della conquista del potere politico, la
scienza borghese identifica la proprietà giuridica dei mezzi di produzione con
la proprietà economica, ossia con il possesso, laddove la prima determinazione
è solo una delle possibili determinazioni della seconda, non necessariamente
esclusiva.
Questa
realtà non è senza conseguenze nel definire l’appartenenza di classe degli
agenti nei rapporti reali di produzione,
indipendentemente (o a prescindere, come direbbe Totò) dal fatto che essi
detengano la proprietà giuridica. E ciò spiega per esempio la posizione di un
Marchionne, tanto per citare un famigerato, ma anche quella di tanti altri
rotti in culo che si presentano a capo delle più diverse articolazioni del
potere economico e politico e si fanno chiamare manager oppure “tecnici”.
Come
detto, il movimento di una formazione sociale è in ultima istanza determinato
dallo sviluppo delle forze produttive entro rapporti dotati di una oggettività
simile a quella di un processo di storia naturale e indipendenti dalla
coscienza degli uomini, e però lo Stato, come insieme sistemico di relazioni
sociali dotate di una esistenza relativamente
autonoma, si definisce come istanza politica oggettiva dalle molteplici
proprietà e determinazioni.
Quando
parliamo del ruolo dello Stato moderno, tendiamo a dimenticare che sulle sue
istituzioni poggia la riproduzione della formazione sociale capitalistica, dunque
le articolazioni dello sfruttamento e del dominio borghese, e che pertanto
anche la crisi istituzionale è essenzialmente lo specchio della crisi generale,
storica, del processo di valorizzazione del capitale, anche se non direttamente
in un rapporto di semplice causa ed effetto.
La
creazione di un super-Stato, ossia di quella che un tempo si chiamava comunità economica europea e ora
semplicemente unione europea, è per alcuni aspetti un tentativo di aggirare
e superare l’impasse, ossia la crisi, in cui versano le istituzioni nazionali.
Ciò, con ogni evidenza, non elimina però il movimento della contraddizione
fondamentale del modo di produzione (e di scambio!) del capitalismo.
Per
altri aspetti, l’aver messo
formalmente sullo stesso piano Stati ineguali, è una strategia di simulazione
che tende solo ad oscurare (oscurità dissipata in parte dalla crisi) l’interdipendenza gerarchica sotto il
controllo di meccanismi economici e politici stringenti disegnati dal capitale
più forte. È del tutto conseguente che i rapporti di forza tra gli Stati
riflettano l’articolazione delle disuguaglianze poiché (e lo vediamo ogni
giorno) si tratta dell’interesse oggettivo degli anelli più forti della catena
che soprattutto nella crisi si stringe sempre più attorno al collo dei paesi
economicamente più deboli.
Tale
dinamica è il
prodotto necessario e strutturale del
processo di accumulazione capitalistica. L’euro, tanto per andare al sodo, il suo uso politico, va inteso sia come
strumento di creazione e di mantenimento di una gerarchia tra gli Stati
(proprio perché costringe economie di forza diversa entro lo stesso cambio
monetario), di gerarchia della divisione dei settori produttivi e dunque della
gerarchia nella divisione europea del lavoro, sia quale strumento della lotta
di classe, di squilibrio e disuguaglianze, in un mondo economico dove anche la
“solidarietà” è una merce e un ramo della réclame e dello spettacolo.
Dunque, e questo è l’aspetto più duro da far entrare nelle zucche, la questione della crisi non va vista principalmente sul fronte dell'euro in sé quale moneta unica e delle contraddizioni supplementari che esso comporta e che non vengono affrontate per ciò che sono; tolto di mezzo l'euro la contraddizione fondamentale resta assumendo altre manifestazioni della sua pregnante dominanza e divaricazione. Ciò di cui si discute è di togliere di mezzo l'euro e di scaricarne, ancora una volta, gli effetti su salari e pensioni per favorire la competizione del capitale nazionale. Si tratta di un circolo vizioso in cui sguazzano imbonitori politici ed economisti di ogni risma.
Qualunque
forma assuma l’organizzazione statale, la sua sostanza è unica, si tratta in un
modo o nell’altro, ma, in ultima analisi, necessariamente, di una dittatura
della borghesia. È perciò puerile gridare allo scandalo (o richiamarsi alla
costituzione) quando gli organismi politici statali (nazionali o continentali)
agiscono nel senso di favorire il capitale nelle sue dinamiche, pur dovendo
tener conto della riproduzione complessiva delle classi sociali, ossia degli
interessi contrastanti di tutte le altre classi, strati e ceti che si
organizzano in partiti o gruppi di pressione.
Ciò
che non può fare lo Stato, quale ente che materializza i rapporti di forza tra
le classi sociali, e dunque qualunque forma assuma la sua organizzazione (democratica,
fascista, ecc.) e in qualunque fase di sviluppo (libera concorrenza,
monopolistica, monopolistica multinazionale), è di entrare in conflitto aperto con
le determinazioni proprie del modo di produzione sulla cui base poggia il
sistema.
Che soddisfazione leggere quanto argomenti.
RispondiEliminala stessa che dai a me quando commenti
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