L’intreccio tra affari, finanza e politica, così come tra
questa e la criminalità, non è una novità né del passato remoto e nemmeno di quello
più recente, ed è all’ordine del giorno come dimostrano i molti processi e le sempre
numerosissime indagini in corso.
Dopo l’unità d’Italia gli scandali (e il loro uso politico)
furono numerosi, a cominciare, per esempio, da quello che riguardò la
costruzione delle ferrovie e ancor prima lo scandalo sull’uso dei fondi durante
la campagna garibaldina in Sicilia, vicenda che vide la morte, più che
sospetta, del povero Ippolito Nievo, testimone pericoloso in quanto uomo onesto,
così come compromettenti dovevano essere i documenti che portava con sé.
Ma anche altri numerosi scandali
politica-affari coinvolsero le più diverse personalità dell’Italia cosiddetta
liberale. Del resto, i grandi affari sollecitano grandi appetiti, soprattutto in
un paese in cui la classe politica e dirigente è “tra le più premoderne,
violente e predatrici della storia occidentale, la cui criminalità si è estrinsecata nel corso dei secoli in tre
forme: lo stragismo e l’omicidio
politico, la corruzione sistemica e la mafia”.
Sul finire del XIX secolo scoppiò uno scandalo ben noto anche
oggi poiché i libri scolastici di storia gli dedicano qualche riga, quello
cosiddetto della Banca Romana. Quali potevano essere le premesse di quella
grave crisi istituzionale e finanziaria? La speculazione edilizia, come solito,
soprattutto quella interessata alla realizzazione di grandi opere, in
particolare a Roma, nuova capitale, offriva l’occasione per ingenti profitti e
diffuse corruttele nei circuiti poco trasparenti (eufemismo) generati dal
finanziamento delle campagne elettorali e della politica in genere.
A modo di cornice, l’assenza di una reale riforma del sistema
bancario, laddove le banche autorizzate all’emissione di
cartamoneta erano ben sei. Possiamo immaginare quali tentazioni suscitasse lo
stato delle cose, e quanto succedesse in quelle stamperie con la complicità
indotta, a vari livelli, dallo smercio di moneta facile (e perfino “falsa”),
tanto che le inchieste parlamentari erano state puntualmente insabbiate da
governi e parlamento, fino al 1892 quando, divenute note le vicende della Banca
romana, scoppiò lo scandalo.
Ad un certo punto, con alcune banche sull’orlo del
fallimento, il ministro dell’agricoltura (!!!) si vide costretto a promuovere l’inchiesta amministrativa per verificare l’operato delle
banche autorizzate a stampare moneta. Bisognava verificare, in particolare,
quello che tutti sospettavano, ossia se il quantitativo di moneta emessa fosse
congruo ai parametri stabiliti. I risultati confermarono i sospetti: la Banca
romana aveva stampato 25 milioni di lire in più e aveva sanato l’ammanco di
diversi milioni con una serie di biglietti falsi, anche se tecnicamente autentici
(duplicava cartamoneta già stampata).
Serve dire che dalle indagini emerse anche che la Banca aveva utilizzato questo
denaro non solo per finanziare le speculazioni edilizie, ma personalità
istituzionali, politici e giornalisti? Il cliché criminale in Italia è, come detto e come chiunque evince, sempre
il solito, compreso quello delle inchieste e dei processi, delle fughe dei
responsabili e delle morti misteriose. Un filo nero e una striscia di sangue
che percorrono tutta la storia d’Italia.
Per evitare lo scandalo per tre anni Crispi, Giolitti e anche Di Rudinì preferirono tenere segreti i risultati dell’inchiesta, doverosamente in nome degli interessi più alti della patria, ossia l'inchiesta fu insabbiata per scongiurare le conseguenze negative che avrebbe avuto tanto sul sistema creditizio che sul mondo politico.
A un certo punto saltò il coperchio. Il 24 novembre 1892, il senatore Alvisi, il quale aveva presieduto l’inchiesta insabbiata, morì di crepacuore, senza esser riuscito nemmeno a leggere la sua relazione sulla situazione “morale” delle banche. I risultati della sua inchiesta però arrivarono nelle mani di Napoleone Colajanni, deputato radicale (assolutamente nulla a che spartire con l’attuale consorteria Pannelliana), che riferì alla Camera durante la seduta del 20 dicembre.
Lo scandalo era scoppiato.
Le resistenze di Giolitti alla possibilità di
avviare un’inchiesta parlamentare, portarono ad una nuova ispezione
sugli istituti di emissione che confermò quanto scritto nella relazione Alvisi.
Quando la Camera fu informata dei risultati, Zanardelli (che la presiedeva)
indicò i nomi dei sette membri della nuova commissione parlamentare d’inchiesta, per
esaminare i documenti e le testimonianze raccolte dalla precedente.
Per quanto relativo alla Banca romana, furono arrestati il direttore Michele Lazzaroni e il governatore Bernardo Tanlongo che ammise di aver versato cifre importanti anche a diversi presidenti del consiglio. Giolitti fu accusato principalmente di tre cose: di aver tenuti nascosti i risultati del lavoro di Alvisi (all’epoca era ministro del tesoro), di aver proposto il nome di Tanlongo come senatore (per procuragli l’immunità) e di aver ricevuto denaro dalle casse della Banca romana per finanziare le sue campagne elettorali. Il presidente del consiglio si difese negando di essere stato a conoscenza della relazione Alvisi e di aver ricevuto denaro dalla Banca romana, ma dopo la lettura della relazione della Commissione dei sette rassegnò le dimissioni e decise di trascorrere un periodo all’estero.
Scriveva
l’editorialista del Corriere della Sera il 23 novembre 1893: “Non ricordiamo
nella storia del Parlamento il caso di un presidente del consiglio colpito così
in pieno petto, dinnanzi alla Camera affollata e fremente, da una sentenza
solenne, che lo convince di reati gravi in ordine politico e morale”.
Giolitti non sarebbe stato l’ultimo presidente del consiglio
o ex presidente costretto a fuggire all’estero. Ritornerà e governerà a lungo. Il processo del 1894 assolse tutti, anche Tanlongo, per insufficienza di prove: i giudici accolsero la tesi difensiva che sosteneva la sottrazione, nel corso delle indagini, di importanti
documenti.
Chi, esattamente un secolo dopo, fuggito a sua volta per scansare il carcere, non
fece ritorno, fu Benedetto Craxi. Prima di lasciare l’Italia pronunciò un
discorso che andrebbe inciso su bronzo da apporre agli ingressi, non del parlamento
poiché ciò sarebbe senza effetto, ma delle scuole di ogni ordine e grado e nei più importanti pubblici uffici. Disse tra l’altro:
Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità ed efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi d’immoralità e di asocialità. E così all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione […]. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale […].
Se gran parte di questa materia deve
essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema
sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in
quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa
alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto
o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.
Chi pronunciò queste parole dovette
subito dopo, come detto, “esiliarsi” all’estero per sfuggire al carcere a causa
degli stessi crimini apertamente denunciati (perché ormai di pubblico dominio)
e commessi e reiterati in prima persona.
Il 27 prossimo, ovvero nel giorno in
cui il senato voterà per la decadenza di Silvio Berlusconi, sentiremo un
discorso diverso da quello di Craxi, poiché così come c'è una gerarchia tra uomini e ominicchi, anche nel crimine ce n’è una che distingue la qualità dei malfattori.
Non ha molto senso pagare le tasse in questo paese eh. Per fortuna ho smesso.
RispondiEliminaIppolito Nievo un mio grande amore. Nascosto truffaldinamente dai programmi scolastici.
RispondiEliminaQuello che la storia d'italia avrebbe potuto essere e che non è stata.
La scelta del Manzoni come sommo della patria servì la chiesa, il centralismo burocratico e i governi sabaudi e romani.
La sua scelta di usare tutta la ricchezza dei dialetti italiani, invece che disseccare le lngue vive nell'arno, la dice lunga sul fatto che la sua italia era quella reale non quella, in "fondo" bigotta, del manzoni.
Non sapevo che l'affondamento del traghetto su cui viaggiava fosse sospetto. Se hai da segnalarmi qlcsa grazie. In ogni caso - il tuo tempo è per noi prezioso - cercherò.
gianni
mi chiedevo che fine avessi fatto
Eliminac'è quanto basta in rete su nievo, il cui romanzone ho letto solo giusto 10 anni fa. a me piace soprattutto l'inizio, la descrizione della cucina, se non sbaglio. il manzoni certamente è servito per gli scopi che tu dici, ma si tratta comunque di grande letteratura
ciao
Chissà perchè penso che, se un discorso ci sarà, sarà fatto dalla radio di bordo dell'aereo di Putin.
RispondiEliminasaluti