venerdì 31 maggio 2013

Palliativi contro la disoccupazione


Ascoltavo stamane a Radiotre l’intervento in diretta, da Trento, del capo economista della Banca mondiale, l’indiano Kaushik Basu, già in forza alla Cornell University e già consulente dell’esecutivo di New Delhi. Che cosa ha detto? Cose note, quali il fatto che la globalizzazione, ossia il capitalismo nella sua fase di massima espansione e pervasività, agisce come la “forza di gravità e non può essere fermata”.

In buona sostanza, Basu non ha fatto altro che confernare quanto aveva scritto Marx solo 165 anni prima:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.

Quando l’intervistatore, evidentemente non soddisfatto dell’apoditticità di Basu, gli chiede come si possa “cambiare” il corso della globalizzazione, nel senso di mitigarne gli effetti più crudi, l’economista si limita a farfugliare qualcosa di assai vago.

È necessario tener presente quanto ebbe a scrivere Lenin:

Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa.

Viene socializzata la produzione, ma l'appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l'oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile.

È vero, quindi, che lo sviluppo del capitalismo nella sua fase di massima espansione globale, procede con la forza di una legge naturale e cioè secondo determinate tendenze non assoggettabili a significativi mutamenti di natura “endogena”. Non si può cambiare il carattere fondamentale di un modo di produzione, e perciò le sue contraddizioni, se non superandolo. Finora, storicamente, ogni passaggio da un modo di produzione a un altro non è avvenuto secondo un piano e un’azione collettiva cosciente, ma secondo delle direttrici di processo spontanee, accompagnate da spinte sociali le più eterogenee. E ciò è dovuto dalle stesse condizioni storiche oggettive e, conseguentemente, dalla forma non sviluppata della lotta fra le classi.

Anche oggi come nel passato ci sono quelli che respingono ogni azione rivoluzionaria cosciente e che porti a un radicale cambiamento, ogni forma di violenza (tranne quella ovviamente esercitata dalla borghesia), e vogliono raggiungere i loro scopi “migliorativi” con mezzi pacifici, e fanno appello a tutta la società, senza distinzioni, anzi specialmente a coloro che nell’ambito dell’attuale sistema di sfruttamento hanno tutto da guadagnare.

* * *
Aumenta, e continua a crescere, il tasso di disoccupazione in tutta Europa, con punte inedite da più di mezzo secolo per quanto riguarda molti paesi, non ultimo il nostro. Anche la Francia registra un balzo del tasso di disoccupazione: contando tutte e tre le tipologie di disoccupazione così come suddivise in Francia, nel solo mese di aprile essa è aumentata di 62.100 unità, ed è in crescita ininterrotta da due anni.

Ciò che gli apologeti di questo sistema propagandano nelle sue più diverse e scaltre declinazioni, è il verbo della borghesia imperialistica, ma non menzionano mai, per ovvi motivi, la necessità di ridurre la giornata lavorativa per dare lavoro a tutti.

È da un secolo che la giornata lavorativa normale staziona sulle otto ore, a fronte del fatto evidente che la produttività del lavoro è aumentata in un secolo a dismisura, in tutti i settori ciò che l’operaio produceva un secolo fa, ma anche solo mezzo secolo or sono, in una giornata di lavoro di otto ore, oggi è prodotto in una frazione irrisoria di tempo.

Eppure, non solo non si parla di ridurre drasticamente la giornata lavorativa normale, ma anzi si parla continuamente di dover aumentare ulteriormente la produttività del lavoro, ovvero di intensificarne lo sfruttamento.

Per una semplice ragione: nel modo di produzione capitalistico non si producono beni di consumo, valori d’uso, se non in funzione del loro valore di scambio, ossia nella forma di merce. E siccome è il tempo di lavoro dell’operaio a dare valore alla merce (è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla), è ovvio come tale aspetto si riveli decisivo nel processo di valorizzazione capitalistico, ossia del processo di produzione del plusvalore.

Il plusvalore è quella parte di valore prodotta dall’operaio oltre il tempo necessario a riprodurre il proprio salario. Naturalmente il capitalista non avrebbe alcun interesse ad acquistare forza-lavoro “al suo valore” se poi dovesse limitare il suo tempo di lavoro allo stretto necessario per la sua riproduzione. Egli infatti compra forza-lavoro proprio per sfruttarne il valore d’uso per un tempo di lavoro più lungo del tempo di lavoro necessario alla sua riproduzione (*).

Or dunque i nostri bravi capitalisti europei non possono rinunciare alla “competitività” delle loro merci, ossia ai profitti, acquistando la forza-lavoro a un prezzo più alto rispetto ai loro concorrenti extra UE. Perciò niente riduzione dell’orario della giornata lavorativa. Questo, come per l’appunto ben vediamo, significa aumento della disoccupazione, il quale ha l’effetto di abbassare i salari. E questo va benissimo ai capitalisti, però riduce i consumi interni e crea tensioni sociali.

Per il calo della produzione destinata ai consumi interni, i capitalisti rispondono aumentando lo sfruttamento della forza-lavoro per competere sui mercati esteri; questo comporta un’inevitabile selezione dei più forti. Per quanto riguarda le tensioni sociali, si provvede con lo Stato, e i capitalisti sono ben contenti di vendergli vecchi e nuovi gingilli in uso alle forze dell’ordine borghese.

Il carattere privato dell’accumulazione capitalistica, quindi conseguentemente l’ordine borghese, non permette in alcun modo di trovare soluzioni pacifiche a queste contraddizioni. L’impulso del capitale è anzitutto quello di valorizzarsi al massimo grado, ingoiare più plusvalore possibile. Lo sviluppo delle forze produttive (segnatamente dell’industria e la sussunzione della scienza ad essa) hanno creato sempre più una situazione nella quale per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. 

I vanesi pifferai del capitale si dibattono in questa contraddizione, ma da essa con i loro esorcismi non possono trovare vie di scampo se non nel dibattito mediatico, nelle ricette di riforma “strutturale” del mercato del lavoro, di questo e di quell’altro.

Tutto questo mostra ancora una volta – e solo la scienza marxista può metterlo in chiaro – il carattere limitato e necessariamente transitorio della forma-valore, ossia il carattere transeunte del modo di produzione capitalistico.

Solo il comunismo può portare a ridurre al minimo il lavoro socialmente necessario. Ma ciò non può essere di per sé sufficiente, ossia non basterà ridurre l’orario di lavoro al minimo e distribuirlo “equamente”, sarà necessario riconsiderare il tipo di attività.



(*) La scoperta del plusvalore segna una rivoluzione teorica d’incalcolabile portata per il proletariato e consente a Marx di mettere in chiaro il meccanismo effettivo dello sfruttamento capitalistico, consentendo di capire per quale via i rapporti di produzione capitalistici, operando nel processo lavorativo, lo pieghino necessariamente alla produzione di valore.


La riproduzione e il movimento del plusvalore sono alla base di tutti i rapporti della società capitalistica, delle sue leggi, delle sue tendenze e dei suoi schemi di razionalità. Essi costituiscono l’essenza di questi rapporti di produzione e di scambio, pur costituendo, nel loro divenire, le cause stesse non solo delle crisi di ciclo del processo di accumulazione, bensì della crisi storica del modo di produzione capitalistico nel dispiegarsi delle sue irresolubili contraddizioni.

giovedì 30 maggio 2013

Funzionari della borghesia


Una singolarità della dottrina della “povertà” è che nei luoghi laddove essa è stata più predicata sono spesso anche quelli nei quali è stata meno seguita. Si pensi a Roma, non tanto a quella di Cincinnato che cuoceva le sue rape, ma a quella che ha dominato dal secolo di Costantino e di Teodosio fino all’altro giorno. Insomma, la Roma dei papi e dei preti cattolici.

Oggi c’è papa Francesco, il quale fin dal nome ostenta un’austerità che è solo una manovra di circostanza per far fronte a questi tempi difficili, uno sforzo di riesumare calcolate affettazioni di virtù che in definitiva non sono altro che la prova della loro inadeguatezza.

mercoledì 29 maggio 2013

Nulla è per sempre


“Avremmo una rivoluzione, non il giorno dopo, ma lo stesso giorno”, se gli standard del welfare degli Stati Uniti fossero introdotti in Europa. È l'avvertimento del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble (quello che faceva tanto il duro), che in una conferenza che si è svolta a Parigi ha parlato della necessità di preservare il modello di welfare europeo.

Detto questo, Werner Hoyer, responsabile della Banca europea degli investimenti, ha ammesso: “Siamo onesti, non c'è una soluzione veloce, non esiste un grande piano”.

Lo sanno di essere seduti su un vulcano, ma non possono farci nulla. Si delocalizza la produzione non perché la forza-lavoro europea non è competitiva sul piano della produttività, ma perché il capitale avido di profitti ha bisogno degli schiavi che si trovano negli ultimi gradini della gerarchia internazionale del lavoro. L’imperialismo non si batte con le belle parole, o con il voto a questo o quel ruffiano, ma con la lotta di classe.

Dopo decenni di lavaggio del cervello, di cervelli all’ammasso, è normale che i proletari non trovino altro che mettere a profitto la loro agonia lavorando per un sistema che sterilizza il vivente con il denaro e il dispotismo consumistico. Ma, come masse sempre più ampie stanno sperimentando sulla propria carne, nulla è per sempre.


Il banchiere


We can’t solve problems by using the same
kind of thinking we used when we created them.
Albert Einstein
È ben noto come le funzioni sociali più utili non siano anche tra le più desiderate, tanto più poiché esse non portano né prestigio e nemmeno elevate remunerazioni.

Se si dovesse poi stilare una classifica dei lavori e professioni secondo la loro utilità sociale effettiva, il banchiere, per esempio, dovrebbe trovarsi agli ultimi posti. E invece sembra che i banchieri siano il sale del mondo. Una stranezza solo apparente.

martedì 28 maggio 2013

Inchiodati


Ho letto l’intervento tenuto all’Astana Forum dall’ex direttore del Fondo monetario internazionale, Strauss-Khan, messo due anni fa fuori combattimento dall’intervento dei servizi segreti a causa delle sue posizioni da outsider sulla Germania “arcipeccatrice” (così ebbe a definirla) e dintorni. Il suo è un pensiero poco allineato e tuttavia riconducibile ugualmente al punto di vista borghese.

Strauss-Khan denuncia come il problema del debito sia stato sottovalutato a suo tempo, di come la Germania faccia ora la prima della classe ma che in passato si fu assai comprensivi con i suoi problemi economici interni, poi parla della riottosità della stessa Germania e della Francia per un comune sistema bancario europeo. Cose note. Ha messo in luce anche quale sia secondo lui il problema dei problemi, ossia la competitività. L’età dell’oro europea, dice, è passata e il sistema di vita, le garanzie sociali, non è più sostenibile. Insomma le solite geremiadi dovute al fatto che la borghesia non può guardare in faccia il presente se non da un punto di vista strettamente legato agli interessi di classe.

Togliersi di torno


Può capitare di dover dare importanza a questioni che non sembrano averne, come nel caso del voto amministrativo. Come se la questione avesse davvero un qualche esito concreto sui gravi problemi economici e sociali che in vario modo e con diversa intensità ci stanno interessando.

Proprio nei giorni scorsi buttavo l’occhio sui dépliantes patinati e colorati dei candidati a sindaco del mio comune. Naturalmente si dichiarano tutti onesti e trasparenti, anche quelli notoriamente dediti a traffici immobiliari e legati a loschi gruppi d’affari. E tutti i sedicenti onesti e trasparenti nel loro programma trattano dei “problemi” del lavoro e delle tasse, questioni sulle quali ormai fingono di avere voce in capitolo anche i governi nazionali.

lunedì 27 maggio 2013

Note a margine della Cripta


In un’epoca in cui è cambiata la geografia economica e con essa stanno mutando le società industriali, in cui la crisi è appena iniziata e già sembra infinita a molti, rivelatrice dell’ormai irriducibile dispiegarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, ebbene questa mattina – come del resto a ogni ora – in televisione degli esperti del vacuo parlavano del nulla elettorale.

E ciò mi ha fatto ricordare un brano di un romanzo che ho letto in questi giorni, laddove l’autore si compiace di descrivere i sentimenti e i motivi di un’epoca non dissimile per carattere alla nostra:

domenica 26 maggio 2013

Non potrà durare


Negli editoriali degli ultimi tempi scritti da Eugenio Scalfari rintraccio soprattutto il desiderio di rassicurare se stesso sulla bontà delle sue medesime analisi della situazione politica, economica e sociale. Ossia la speranza che infine tutto si risolva per il meglio, non solo nascondendo la polvere sotto il tappeto, ma anche montagne di fango sotto una coltre di pragmatismo fasullo. Prendiamo ad esempio questa frase:

I processi di Berlusconi non riguardano il governo e tantomeno il Parlamento. Lo stesso interessato l'ha detto in una delle sue mutevoli dichiarazioni. Riguardano lui, i suoi avvocati e le Corti giudicanti. 

Mitica Svezia


L’Italia è un paese corrotto, tra i più corrotti. Sicuramente. E la mitica Svezia? Invece di dar retta alle chiacchiere, per farsi un’idea un po’ più precisa della faccenda è meglio affidarsi ai numeri riportati dalla stampa svedese: qui.

La Svezia non ha l’euro, ma i suoi problemi economici e sociali assomigliano a quelli dei paesi come Italia, Francia, Olanda, Spagna, ecc.. Anche lì c’è precariato e disoccupazione, anche se la disperazione e la rabbia sono ancora contenuti. E però c'è anche chi sciopera per i propri diritti: qui, ricevendo le lodi del parlamento svedese. Inimmaginabile altrove, e questo fa la vera differenza.

Insomma la Svezia, sebbene non abbia l’euro, soffre degli stessi problemi che affliggono il resto d’Europa. Lo dimostrano sei notti di gravi incidenti – con incendi, sassaiole e saccheggi – avvenuti in alcuni quartieri di Stoccolma e anche in altre città, non solo per opera d’immigrati. Tanto che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno invitato i propri connazionali a tenersi alla larga dalle aree interessate dalle rivolte. Il Foreign Office ha diffuso un travel warning che chiede ai britannici di evitare i concentramenti nelle periferie di Husby, Hagsatra, Ragsved e Skogas, prestando inoltre attenzione ai notiziari locali.


Naturalmente i nostri telegiornali se ne tengono alla larga fin quando possibile, l’Italia è un paese pacificato da decenni e non si deve indurre nessuna testa calda all’imitazione.

sabato 25 maggio 2013

La ghigliottina? Sistema antiquato, troppo lenta


O possiedo una particolare attitudine a presagire le cose, oppure in questo bislacco paese le cose sono fin troppo facili da prevedere. Propendo decisamente per la seconda ipotesi.

Che cosa scrivevo sabato 27 aprile a proposito del ministro dell’Istruzione Maria Carrozza?

Quando un ministro dell'Istruzione, della ricerca e dell'università dichiara che il suo dicastero “deve svolgere un ruolo fondamentale nel far ripartire le speranze del Paese”, vuol dire che siamo allo stesso punto di prima. Questo paese, e la scuola, sono morti di speranze. La sciocchina, invece d’invocare la ripartenza delle speranze, dovrebbe spiegare come intende reperire le ingenti risorse necessarie per gli investimenti nell’istruzione e nella ricerca. Con le riforme a costo zero non si va da nessuna parte, anzi, si torna indietro.

Il carattere storico e transitorio della forma-valore


Il difetto principale di tutti coloro che si ripromettono con magiche ricette di riformare questo sistema economico e sociale, è quello di indicare i motivi della crisi del sistema in questa o quella causa, oppure in un insieme di cause che in realtà hanno solo una relazione parziale o addirittura apparente con il fallimento di questo sistema. Essi denunciano un circolo vizioso di  inefficienza e irrazionalità, di abusi e soprusi, che sono ben evidenti ma sono solo gli effetti di una situazione nella quale agiscono ben altre leggi e contraddizioni. Ed è per tali ragioni, per contro, che le loro proposte di stimolare l’economia e di dotare il sistema di nuove regole non producono alcun frutto o solo dei risultati limitati nel tempo lungo.

Sono anni ormai che economisti e politici non sanno dire altro che per uscire dalla crisi è necessario aumentare la produzione, salvo non rilevare che per creare nuova domanda servono salari più elevati, e neanche questo infine basterebbe perché la somma dei salari sarà sempre inferiore all’insieme delle merci prodotte, e per ovvie ragioni i capitalisti non possono consumare improduttivamente tutti i loro profitti.

La prima ragione della crisi, apparentemente legata al sottoconsumo come successe negli anni 1930, oppure come accade oggi in aggiunta di motivazioni legate alla speculazione finanziaria, riguarda la natura stessa del modo di produzione capitalistico, ossia la legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico. Tale legge ci dice anzitutto che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla.

Indagare tale legge, rappresenta il solo modo per comprendere il processo di formazione e l’origine del plusvalore, quindi il modo per ricostruire scientificamente il concetto di sfruttamento capitalistico. Ogni altro tipo d’indagine economica che riguardi l’economia in generale o singoli aspetti di essa, ossia non prenda le mosse da tale presupposto, da tale legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico, non è destinata solo ad arrivare a conclusioni sbagliate, ma tale tipo d’indagine non ha nulla di scientifico e la sua caratteristica principale sarà di avere una funzione ideologica, quella di mistificare la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato da parte del capitale, di negare come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati.

* * *

La grande industria e la sussunzione della scienza a essa, hanno creato, secondo Marx, una situazione nella quale la quantità di lavoro erogato nella produzione non è più la fonte principale per la creazione di ricchezza della società. Anche questo è un aspetto poco compreso e anzi totalmente frainteso nelle sue conseguenze dalla pseudo scienza economica accademica.

Oggi per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. Ciò è evidente a tutti qualora si consideri la massa di lavoro oggettivato che il lavoro vivo può mettere in moto. In altri termini, la quantità di prodotti disponibili non è determinata dalla quantità del lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza.

Scrive Marx nei Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica (Grundrisse):

La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore.

L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.

Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.

[Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario.

Queste cose Marx le scriveva oltre un secolo e mezzo or sono. Quale potenza di pensiero in quell’uomo. Egli dimostra qui in modo evidente come sia il capitale stesso a creare le condizioni del proprio superamento, di come il modo di produzione basato sul valore di scambio sia destinato a crollare per l’effetto stesso delle leggi del suo movimento. Pertanto, egli dimostra il carattere storico e transitorio della legge del valore, la quale non gode di proprietà “naturali” valide in tutte le epoche.


Perciò, nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si sostituirà al capitalismo, la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa assumerà un contenuto diverso da quello che le è proprio nel modo di produzione capitalistico. Marx con ciò dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati, tanto è vero che laddove la forma-valore sopravvive, è perché i rapporti di produzione effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo capitalistico. Ed è ciò che è successo precisamente nei paesi così detti comunisti: non per l’incapacità e la cattiveria di una qualche burocrazia di partito in particolare, ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche oggettive indispensabili per tale trasformazione.