Ascoltavo stamane a Radiotre l’intervento in
diretta, da Trento, del capo economista della Banca mondiale, l’indiano Kaushik
Basu, già in forza alla Cornell University e già consulente dell’esecutivo di
New Delhi. Che cosa ha detto? Cose note, quali il fatto che la globalizzazione,
ossia il capitalismo nella sua fase di massima espansione e pervasività, agisce
come la “forza di gravità e non può essere fermata”.
In buona sostanza, Basu non ha fatto altro che confernare
quanto aveva scritto Marx solo 165 anni prima:
La borghesia non può esistere
senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di
produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di
tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del
vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione,
l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il
movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche
precedenti.
Quando l’intervistatore, evidentemente non soddisfatto
dell’apoditticità di Basu, gli chiede come si possa “cambiare” il corso della
globalizzazione, nel senso di mitigarne gli effetti più crudi, l’economista si
limita a farfugliare qualcosa di assai vago.
È
necessario tener presente quanto ebbe a scrivere Lenin:
Il capitalismo, nel suo
stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione
della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro
coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla
libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa.
Viene socializzata la
produzione, ma l'appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di
produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone. Rimane intatto
il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma
l'oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione
viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile.
È vero, quindi,
che lo sviluppo del capitalismo nella sua fase di massima espansione globale,
procede con la forza di una legge naturale e cioè secondo determinate tendenze
non assoggettabili a significativi mutamenti di natura “endogena”. Non si può
cambiare il carattere fondamentale di un modo di produzione, e perciò le sue
contraddizioni, se non superandolo. Finora, storicamente, ogni passaggio da un
modo di produzione a un altro non è avvenuto secondo un piano e un’azione
collettiva cosciente, ma secondo delle direttrici di processo spontanee,
accompagnate da spinte sociali le più eterogenee. E ciò è dovuto dalle stesse condizioni storiche oggettive e, conseguentemente, dalla forma non sviluppata della lotta fra le classi.
Anche oggi come nel passato ci sono quelli che respingono ogni azione rivoluzionaria cosciente e che porti a un
radicale cambiamento, ogni forma di violenza (tranne quella ovviamente
esercitata dalla borghesia), e vogliono raggiungere i loro scopi “migliorativi”
con mezzi pacifici, e fanno appello a tutta la società, senza distinzioni, anzi
specialmente a coloro che nell’ambito dell’attuale sistema di sfruttamento
hanno tutto da guadagnare.
* * *
Aumenta, e continua
a crescere, il tasso di disoccupazione in tutta Europa, con punte inedite da
più di mezzo secolo per quanto riguarda molti paesi, non ultimo il nostro.
Anche la Francia registra un balzo del tasso di disoccupazione: contando tutte
e tre le tipologie di disoccupazione così come suddivise in Francia, nel solo
mese di aprile essa è aumentata di 62.100 unità, ed è in crescita ininterrotta
da due anni.
Ciò che gli
apologeti di questo sistema propagandano nelle sue più diverse e scaltre
declinazioni, è il verbo della borghesia imperialistica, ma non menzionano mai,
per ovvi motivi, la necessità di ridurre la giornata lavorativa per dare lavoro
a tutti.
È da un
secolo che la giornata lavorativa normale staziona sulle otto ore, a fronte del
fatto evidente che la produttività del lavoro è aumentata in un secolo a
dismisura, in tutti i settori ciò che l’operaio produceva un secolo fa, ma
anche solo mezzo secolo or sono, in una giornata di lavoro di otto ore, oggi è
prodotto in una frazione irrisoria di tempo.
Eppure, non
solo non si parla di ridurre drasticamente la giornata lavorativa normale, ma
anzi si parla continuamente di dover aumentare ulteriormente la produttività
del lavoro, ovvero di intensificarne lo sfruttamento.
Per una
semplice ragione: nel modo di produzione capitalistico non si producono beni di
consumo, valori d’uso, se non in funzione del loro valore di scambio, ossia
nella forma di merce. E siccome è il tempo di lavoro dell’operaio a dare valore
alla merce (è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per
produrla), è ovvio come tale aspetto si riveli decisivo nel processo di
valorizzazione capitalistico, ossia del processo di produzione del plusvalore.
Il
plusvalore è quella parte di valore prodotta dall’operaio oltre il tempo
necessario a riprodurre il proprio salario. Naturalmente il capitalista non
avrebbe alcun interesse ad acquistare forza-lavoro “al suo valore” se poi
dovesse limitare il suo tempo di lavoro allo stretto necessario per la sua
riproduzione. Egli infatti compra forza-lavoro proprio per sfruttarne il valore
d’uso per un tempo di lavoro più lungo del tempo di lavoro necessario alla sua
riproduzione (*).
Or dunque i
nostri bravi capitalisti europei non possono rinunciare alla “competitività”
delle loro merci, ossia ai profitti, acquistando la forza-lavoro a un prezzo
più alto rispetto ai loro concorrenti extra UE. Perciò niente riduzione
dell’orario della giornata lavorativa. Questo, come per l’appunto ben vediamo,
significa aumento della disoccupazione, il quale ha l’effetto di abbassare i
salari. E questo va benissimo ai capitalisti, però riduce i consumi interni e
crea tensioni sociali.
Per il calo
della produzione destinata ai consumi interni, i capitalisti rispondono
aumentando lo sfruttamento della forza-lavoro per competere sui mercati esteri;
questo comporta un’inevitabile selezione dei più forti. Per quanto riguarda le
tensioni sociali, si provvede con lo Stato, e i capitalisti sono ben contenti
di vendergli vecchi e nuovi gingilli in uso alle forze dell’ordine borghese.
Il
carattere privato dell’accumulazione capitalistica, quindi conseguentemente
l’ordine borghese, non permette in alcun modo di trovare soluzioni pacifiche a
queste contraddizioni. L’impulso del capitale è anzitutto quello di valorizzarsi al massimo
grado, ingoiare più plusvalore possibile. Lo sviluppo delle forze produttive (segnatamente dell’industria e la sussunzione della scienza ad essa) hanno creato sempre più
una situazione nella quale per
produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè di
lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato.
I vanesi pifferai
del capitale si dibattono in questa contraddizione, ma da essa con i loro
esorcismi non possono trovare vie di scampo se non nel dibattito mediatico,
nelle ricette di riforma “strutturale” del mercato del lavoro, di questo e di
quell’altro.
Tutto
questo mostra ancora una volta – e solo la scienza marxista può metterlo in
chiaro – il carattere limitato e necessariamente transitorio della forma-valore, ossia il carattere transeunte del modo di produzione
capitalistico.
Solo il
comunismo può portare a ridurre al minimo il lavoro socialmente necessario. Ma
ciò non può essere di per sé sufficiente, ossia non basterà ridurre l’orario di
lavoro al minimo e distribuirlo “equamente”, sarà necessario riconsiderare il tipo di attività.
(*) La
scoperta del plusvalore segna una rivoluzione teorica d’incalcolabile portata
per il proletariato e consente a Marx di mettere in chiaro il meccanismo
effettivo dello sfruttamento capitalistico, consentendo di capire per quale via
i rapporti di produzione capitalistici, operando nel processo lavorativo, lo
pieghino necessariamente alla produzione di valore.
La
riproduzione e il movimento del plusvalore sono alla base di tutti i rapporti
della società capitalistica, delle sue leggi, delle sue tendenze e dei suoi
schemi di razionalità. Essi costituiscono l’essenza di questi rapporti di
produzione e di scambio, pur costituendo, nel loro divenire, le cause stesse
non solo delle crisi di ciclo del processo di accumulazione, bensì della crisi
storica del modo di produzione capitalistico nel dispiegarsi delle sue irresolubili contraddizioni.



