venerdì 24 maggio 2013

Il diritto di resistenza


Caro Luca,

grazie della segnalazione. Del resto dei post di Malvino non me ne perdo uno e ringrazio san Gennaro della grazia che gli ha fatto riprendere a scrivere nel suo blog con una certa frequenza. Non perché ne condivida sempre le idee (che noia essere sempre d’accordo), ma proprio perché posso confrontarmi con opinioni che mostrano intelligenza degli argomenti trattati e un approccio ironico non comune.

Ho letto perciò anche il post di Malvino nel quale egli pone la questione del diritto e dovere alla resistenza all’oppressione da parte del cittadino, così come venne in discussione all’Assemblea Costituente nel 1947. Malvino ne esamina in dettaglio le argomentazioni addotte allora dai costituenti, ossia le concezioni di merito dei costituenti chiamati a scolpire le tavole della repubblica, della "repubblica volgare" per dirla con Marx.



Malvino rileva, per dirla spiccia e se interpreto bene, che le leggi sono di due tipi: quelle imposte dall'alto e quelle che si formano dal basso (caso molto più raro). E senza voler qui coinvolgere questioni di filosofia del diritto, che esulano dalle mie competenze, vado al sodo. Sia un modo oppure l'altro di approntare le leggi, queste devono soggiacere a quei requisiti che chiamo di compatibilità con il sistema economico e sociale al quale si riferiscono.

In sede di costituente, almeno apparentemente, si discusse del diritto e anzi del dovere "del cittadino" inteso quale “cittadino” astratto, non quindi del diritto e del dovere di un particolare “cittadino”, del cittadino concreto che vede e sente consumarsi la tirannide e l'oppressione a proprio danno già dal primo istante in cui il diritto borghese viene in essere nella situazione quotidiana di sempre, ossia nell’antagonismo essenziale tra capitale e lavoro, tra sfruttatori e sfruttati.

Di là dei formalismi, quella in discussione non era una norma di generica resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, di una resistenza contro chi attenti alle libertà fondamentali, ma anche e non meno dei diritti sanciti in costituzione e che riguardano la condizione economica e sociale dei “cittadini” stessi. Perciò, laddove accolta quella norma e nel caso fossero stati disattesi quei diritti, si sarebbero potute invocare legalmente forme di resistenza contro i responsabili politici e istituzionali. E ben sappiamo quale fosse la valenza del termine “resistenza” in quegli anni.

Non a caso, proprio tale aspetto della faccenda è colto nell’intervento del costituente Francesco Colitto, il quale stabilisce subito il nesso tra teoria e pratica: Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza sociale.

Colitto comprendeva bene come tali diritti, di fatto, non possano essere garantiti in un sistema capitalistico che per sua stessa natura si basa sull’antagonismo tra capitale e lavoro.  Quando quei diritti fossero effettivamente garantiti, pena la legale ribellione, a soffrirne sarebbero stati anzitutto gli interessi del capitale privato, poiché è nella sfera dell'acquisto e sfruttamento della forza-lavoro che si gioca la partita.

Per esempio, quando mai sarebbe possibile pagare la forza-lavoro al prezzo più basso se non in presenza di una certa quota di forza-lavoro disoccupata? E qualora fossero soddisfatte le condizioni economiche necessarie, sia pure al minimo, come sarebbe possibile soddisfare l’impiego della forza-lavoro in particolari e poco gradite lavorazioni? Eccetera.

Il sistema economico attuale sarebbe impossibile laddove non fosse sostenuto legalmente da un ordine distributivo, per contro, in grado di garantire proprio l’assenza di una ripartizione razionale della ricchezza prodotta socialmente e la partecipazione delle classi più povere all’aumento della produzione. In effetti ciò è anche avvenuto in una certa misura, soprattutto a scapito della finanza pubblica piuttosto che dei profitti. Questione questa che ora presenta il conto nei termini che ben sappiamo.

Sancendo in Costituzione il diritto e il dovere di resistere all’oppressione, cioè qualora fossero revocate in qualsiasi modo le libertà fondamentali e disattesi “i diritti garantiti dalla Costituzione stessa”, si viene a stabilire anzitutto il diritto a resistere alle condizioni normali stabilite dall’attuale ordine economico capitalista.

Perciò i così detti padri costituenti cassarono, rigettarono, la norma proposta ben sapendo che altrimenti essa poteva essere invocata in ogni momento da quella parte della società che di fatto è esclusa per principio dal diritto borghese nella definizione del “Vero, Giusto e Bello”, come dice Malvino; anche se non vi è esclusa nominalmente, poiché con il voto essa delega i propri rappresentanti a stabilire il “Vero, Giusto e Bello”, e tuttavia non è difficile dimostrare come gli interessi di tale maggioranza non abbiano luogo nelle leggi decisive (si pensi solo alle leggi del mercato così tanto in voga oggi) che tutelano gli interessi delle classi proprietarie.

In altri termini ancora, la maggioranza dei “cittadini” è esclusa fin dal principio dal stabilire che cosa sia il "giusto", in quanto questa società, nella sua essenza, si basa proprio sulla disparità legale tra i possessori di capitale e chi invece è costretto a vendersi per sopravvivere, e a vendersi a un certo prezzo e non a un altro, a certe condizioni e non ad altre.

Le stesse rivendicazioni delle classi salariate – e la repressione che in molti casi esse subiscono – dimostrano di là di ogni dubbio che non sono esse al potere e a decidere, che non sono esse a violare i diritti costituzionalmente garantiti in forza di quell’antico compromesso tra le parti politiche.

La norma costituzionale di cui si discusse, se accolta, avrebbe aperto una contraddizione dilacerante investendo tutta la Costituzione, poiché si sarebbe scontrata con le garanzie politiche ed economiche di cui gode la borghesia. Insomma, si sarebbe trattato di una norma che avrebbe messo in mora in ogni momento la classe borghese e i “suoi” diritti, una norma che avrebbe dato alle classi sociali sfruttate un legale appiglio, sul piano del diritto borghese e non solo sul piano storico-oggettivo, per reagire alla violenza della classe dominante con risposte adeguate. Una norma costituzionale che avrebbe palesato contrasto, per esempio, non solo con i codici fascisti ancora vigenti, ma anche con i principi del codice civile napoleonico.

Invece degli indeterminati richiami al lavoro, al giusto salario (?!), al superamento delle disuguaglianze economiche e sociali, sarebbe stato sufficiente affermare che con l’abolizione delle differenze di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e politiche che ne derivano. Cosa impossibile anche formalmente, appunto, in una costituzione borghese.

La Costituzione, come detto, è chiaramente un compromesso politico, tra generici principi di garanzia sociale da un lato, e i pilastri stessi del dominio borghese, ossia le leggi sulle quali fonda l’ordinamento economico attuale. Un compromesso che si presta in ogni momento a delle palesi contraddizioni, poiché esso tende a mascherare i reali rapporti sociali che vi sono alla base.


2 commenti:

  1. Grazie della lettera, cara Olympe. Aggiungo una domanda: come mai i costituenti "resistenti" di allora, soprattutto quelli di matrice marxista, non si batterono più efficacemente per imporre tale norma?

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    1. caro Luca, come ben sai le leggi spesso sono frutto di compromessi. vedi un po' l'art. 7. imperdonabile aver inserito un trattato in costituzione e per di più nei principi fondamentali

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