Caro Luca,
grazie della segnalazione. Del resto dei
post di Malvino non me ne perdo uno e ringrazio san Gennaro della grazia che gli ha fatto riprendere a
scrivere nel suo blog con una certa frequenza. Non perché ne condivida sempre
le idee (che noia essere sempre d’accordo), ma proprio perché posso
confrontarmi con opinioni che mostrano intelligenza degli argomenti trattati e un approccio ironico non comune.
Ho letto perciò anche il post di Malvino
nel quale egli pone la questione del
diritto e dovere alla
resistenza all’oppressione da parte del cittadino, così come venne in
discussione all’Assemblea Costituente nel 1947. Malvino ne
esamina in dettaglio le
argomentazioni addotte allora dai costituenti, ossia le concezioni di merito dei costituenti
chiamati a scolpire le tavole della repubblica, della "repubblica
volgare" per dirla con Marx.
Malvino rileva, per dirla spiccia e se
interpreto bene, che le leggi sono di due tipi: quelle imposte dall'alto e
quelle che si formano dal basso (caso molto più raro). E senza voler qui coinvolgere
questioni di filosofia del diritto, che esulano dalle mie competenze, vado al
sodo. Sia un modo oppure l'altro di approntare le leggi, queste devono
soggiacere a quei requisiti che chiamo di compatibilità con il sistema
economico e sociale al quale si riferiscono.
In sede di costituente,
almeno apparentemente, si discusse del diritto e anzi del dovere "del
cittadino" inteso quale “cittadino” astratto, non quindi del diritto e del
dovere di un particolare “cittadino”,
del cittadino concreto che vede e sente consumarsi la tirannide e l'oppressione
a proprio danno già dal primo istante in cui il diritto borghese viene in
essere nella situazione quotidiana di sempre, ossia nell’antagonismo essenziale
tra capitale e lavoro, tra sfruttatori e sfruttati.
Di là dei formalismi, quella in discussione non era una norma di generica resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, di una resistenza contro chi attenti alle libertà fondamentali, ma anche e non meno dei diritti sanciti in
costituzione e che riguardano la condizione economica e sociale dei “cittadini”
stessi. Perciò, laddove accolta quella norma e nel caso fossero stati disattesi quei diritti, si sarebbero potute invocare legalmente forme di resistenza contro i responsabili politici e istituzionali. E ben
sappiamo quale fosse la valenza del termine “resistenza” in quegli anni.
Non a caso, proprio tale aspetto della
faccenda è colto nell’intervento del costituente Francesco
Colitto, il quale stabilisce subito il nesso tra teoria e pratica: Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla
Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di
assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua
formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro,
sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza
sociale.
Colitto comprendeva bene
come tali diritti, di fatto, non possano essere garantiti in un sistema
capitalistico che per sua stessa natura si basa sull’antagonismo tra capitale e
lavoro. Quando quei diritti fossero effettivamente
garantiti, pena la legale ribellione, a soffrirne sarebbero stati anzitutto gli
interessi del capitale privato, poiché è nella sfera dell'acquisto e
sfruttamento della forza-lavoro che si gioca la partita.
Per esempio, quando mai
sarebbe possibile pagare la forza-lavoro al prezzo più basso se non in presenza
di una certa quota di forza-lavoro disoccupata? E qualora fossero soddisfatte le condizioni economiche necessarie, sia
pure al minimo, come sarebbe possibile soddisfare l’impiego della forza-lavoro
in particolari e poco gradite lavorazioni? Eccetera.
Il sistema economico
attuale sarebbe impossibile laddove non fosse sostenuto legalmente da un ordine
distributivo, per contro, in grado di garantire proprio l’assenza di una
ripartizione razionale della ricchezza prodotta socialmente e la partecipazione
delle classi più povere all’aumento della produzione. In effetti ciò è anche
avvenuto in una certa misura, soprattutto a scapito della finanza pubblica piuttosto che dei profitti. Questione questa che ora presenta il conto nei termini che
ben sappiamo.
Sancendo in Costituzione
il diritto e il dovere di resistere all’oppressione, cioè qualora fossero revocate
in qualsiasi modo le
libertà fondamentali e disattesi “i
diritti garantiti dalla Costituzione stessa”, si viene a stabilire
anzitutto il diritto a resistere alle condizioni normali stabilite dall’attuale
ordine economico capitalista.
Perciò i così detti
padri costituenti cassarono, rigettarono, la norma proposta ben sapendo che altrimenti
essa poteva essere invocata in ogni momento da quella parte della società che di
fatto è esclusa per principio dal diritto borghese nella
definizione del “Vero, Giusto e Bello”, come dice Malvino; anche se non vi
è esclusa nominalmente, poiché con il voto essa delega i propri rappresentanti
a stabilire il “Vero, Giusto e Bello”, e tuttavia non è difficile dimostrare come
gli interessi di tale maggioranza non abbiano luogo nelle leggi decisive (si
pensi solo alle leggi del mercato così tanto in voga oggi) che tutelano gli
interessi delle classi proprietarie.
In altri termini ancora,
la maggioranza dei “cittadini” è esclusa fin dal principio dal stabilire che
cosa sia il "giusto", in quanto questa società, nella sua essenza, si
basa proprio sulla disparità legale tra i possessori di capitale e chi invece è
costretto a vendersi per sopravvivere, e a vendersi a un certo prezzo e non a
un altro, a certe condizioni e non ad altre.
Le stesse rivendicazioni
delle classi salariate – e la repressione che in molti casi esse subiscono –
dimostrano di là di ogni dubbio che non sono esse al potere e a decidere, che
non sono esse a violare i diritti costituzionalmente garantiti in forza di
quell’antico compromesso tra le parti politiche.
La norma costituzionale
di cui si discusse, se accolta, avrebbe aperto una contraddizione dilacerante
investendo tutta la Costituzione, poiché si sarebbe scontrata con le garanzie
politiche ed economiche di cui gode la borghesia. Insomma, si sarebbe trattato
di una norma che avrebbe messo in mora in ogni momento la classe borghese e i
“suoi” diritti, una norma che avrebbe dato alle classi sociali sfruttate un
legale appiglio, sul piano del diritto borghese e non solo sul piano storico-oggettivo, per reagire alla violenza della classe dominante con
risposte adeguate. Una norma costituzionale che avrebbe palesato contrasto, per
esempio, non solo con i codici fascisti ancora vigenti, ma anche con i principi
del codice civile napoleonico.
Invece degli indeterminati
richiami al lavoro, al giusto salario (?!), al superamento delle disuguaglianze
economiche e sociali, sarebbe stato sufficiente affermare che con l’abolizione
delle differenze di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e
politiche che ne derivano. Cosa impossibile anche formalmente, appunto, in una
costituzione borghese.
La Costituzione, come
detto, è chiaramente un compromesso politico, tra generici principi di garanzia
sociale da un lato, e i pilastri stessi del dominio borghese, ossia le leggi
sulle quali fonda l’ordinamento economico attuale. Un compromesso che si presta
in ogni momento a delle palesi contraddizioni, poiché esso tende a mascherare i
reali rapporti sociali che vi sono alla base.
Grazie della lettera, cara Olympe. Aggiungo una domanda: come mai i costituenti "resistenti" di allora, soprattutto quelli di matrice marxista, non si batterono più efficacemente per imporre tale norma?
RispondiEliminacaro Luca, come ben sai le leggi spesso sono frutto di compromessi. vedi un po' l'art. 7. imperdonabile aver inserito un trattato in costituzione e per di più nei principi fondamentali
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