mercoledì 29 maggio 2013

Il banchiere


We can’t solve problems by using the same
kind of thinking we used when we created them.
Albert Einstein
È ben noto come le funzioni sociali più utili non siano anche tra le più desiderate, tanto più poiché esse non portano né prestigio e nemmeno elevate remunerazioni.

Se si dovesse poi stilare una classifica dei lavori e professioni secondo la loro utilità sociale effettiva, il banchiere, per esempio, dovrebbe trovarsi agli ultimi posti. E invece sembra che i banchieri siano il sale del mondo. Una stranezza solo apparente.



Il banchiere gode, a ben vedere, di una fiducia quasi generalizzata, stante il fatto che gli vengono affidate in gestione sia ingenti ricchezze sia i nostri sudati risparmi. Scopo degli istituti di credito, proprio per il nome che portano, dovrebbe essere appunto quello di concedere dei prestiti a chi li chiede, a chi ne ha bisogno. Sappiamo invece come vanno le cose, le banche presterebbero ben volentieri a chi non ne ha alcun bisogno e per contro non fanno credito a chi si presenta col cappello in mano.

Scopo delle banche e dei banchieri è di farci pagare le più alte spese sui nostri conti e per ogni minuta transazione. E a tal fine si servono di uno stuolo di fantasiosi commessi esperti nell’estorsione, ben remunerati ovviamente. E nonostante queste e altro genere di rapine, queste stesse banche riescono ad accumulare debiti giganteschi con le loro monotone manovre speculative che anche un bambino giudicherebbe avventate e di altissimo rischio. Debiti, come sappiamo, che poi vengono scaricati sulla fiscalità generale.

Questo genere di frodi è ben conosciuto in tutte le sue pieghe e piaghe, e per questo motivo a vigilare le banche sono preposte delle autorità pubbliche, i cui membri però appartengono per nascita, formazione e carriera a quella stessa cerchia di malandrini che dovrebbero sorvegliare. Una specie di guardia e ladri dove le parti sono intercambiabili, proprio come nel gioco fanciullesco.

E difatti non c’è epoca nella quale non si lamentino scandali bancari e finanziari colossali, furfanterie di ogni genere che spesso godono delle complicità di cui ho appena detto, e a cui abboccano in molti con la promessa di elevati interessi.

A parlare, nei conclavi mondiali finanziari ed economici, sono sempre gli stessi personaggi: economisti e politici che spiegano la crisi e le contraddizioni del sistema ma non le sanno studiare (ovviamente non perché non ne siano incapaci, ma per altri motivi che non dovrebbe essere difficile immaginare); e i grandi banchieri, ossia quelli che governano la moneta e gestiscono la ricchezza finanziaria. Sono costoro che poi in definitiva fanno e disfano le regole del gioco.

Recentemente Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, riferendosi ai colossi bancari ha ammesso che il problema del too-big-to-fail – troppo grandi per fallire – è "ancora qui". Perciò si valuteranno nuove misure (non ha detto quali). Simon Johnson, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, professore di management presso il MIT Sloan School of Management, scrive sul New York Times che bisogna ripensare il sistema finanziario rendendolo più trasparente e meno rischioso. Buoni propositi anche da qui.

Richard Fisher, presidente della Federal Reserve Bank di Dallas, vi ha scritto perfino un libro che richiama fin dal titolo la stessa faccenda. Egli propone di ristrutturare le grandi corporation finanziarie in piccole banche in modo da renderle più maneggevoli in caso di fallimento, per poterle chiudere, scrive, il venerdì e riaprirle il lunedì successivo. Anche in questo caso non s’è capito come si formino e a cosa servano il monopolio e i cartelli. Ma è molto più probabile che ci vogliano solo prendere in giro.

Non c'è modo che la Fed possa affettare per esempio una banca come JPMorgan Chase con 260.000 dipendenti che operano in sessanta paesi in una moltitudine di settori finanziari e speculativi, industriali e delle materie prime, eccetera; oppure una banca come Citigroup, con 200 milioni di conti in 160 paesi e un traffico giornaliero di 3.000 miliardi dollari. Il mondo di Fisher esiste solo nella sua testa e in quella dei lettori che gli danno retta.

Ristrutturare le banche troppo grandi in una miriade di banchette, è una soluzione rischiosa e che può avere l'effetto opposto, per una serie di motivi. In primo luogo, non vi è consenso sul fatto che la dimensione sia il problema. Anche un critico liberale come Paul Krugman ha sostenuto che la dimensione non è il problema. In secondo luogo, anche tra coloro che pensano che la dimensione è il problema, non vi è consenso su quando la dimensione di una banca diventa un problema. In terzo luogo, gli studi suggeriscono che le banche più grandi sono più robuste per far fronte a situazioni di crisi. Infine, quasi tutti i crash finanziari sono stati innescati da problemi nelle istituzioni finanziarie più piccole.

In definitiva, però, il problema non è semplicemente, come invece si dibatte a vuoto, se le banche siano troppo grandi, ma anzitutto la funzione data al denaro nel modo di produzione capitalistico, come forma antitetica agli interessi generali della società. Se consideriamo, oltretutto, i principi contabili seguiti dalle banche americane, scopriamo che esse nascondono circa la metà degli attivi, in quanto le banche statunitensi non sono tenuti ad adottare gli International Financial Reporting Standards, ossia le regole che impongono la divulgazione del loro patrimonio in strumenti derivati, per esempio le obbligazioni collaterali del debito (CDO). Gran parte del resto del mondo lo fa, non gli Stati Uniti.

Kevin Warsh, un ex membro del Federal Reserve Board nominato da George W. Bush, sostiene come il problema della contabilità trasparente sia centrale. Egli afferma che, sulla base delle informazioni fornite dalle banche, “gli investitori non possono capire veramente la natura e la qualità delle attività e delle passività delle banche stesse”. Non possono facilmente valutare l'affidabilità del capitale disponibile per compensare le perdite reali così come non possono valutare i fattori all'origine dei loro utili. “La divulgazione dei dati così come avviene oggi – afferma – offusca più di quanto non informi, e il governo non solo lo permette ma sembra favorire questo stato di cose”.

Scrive Karl Marx nel 33 capitolo del III Libro de Il Capitale:

Il sistema creditizio che ha come centro le pretese banche nazionali e i potenti prestatori di denaro, e gli usurai che pullulano attorno ad essi, rappresenta un accentramento enorme e assicura a questa classe di parassiti una forza favolosa, tale non solo da decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche da intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva — e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa. Le leggi del 1844 e del 1845 costituiscono una prova della forza crescente di questi banditi ai quali si uniscono i finanzieri e gli stock - jobbers (Speculatori di Borsa).
Chiunque ancora mettesse in dubbio che questi rispettabili banditi sfruttano la produzione nazionale e internazionale soltanto nell’interesse della produzione e degli sfruttati stessi, costui sarà certamente un po’ meglio istruito dal seguente sermone sull’alta dignità morale del banchiere: «Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. Quante volte la paura di essere visti dall’occhio attento e ammonitore del suo banchiere non ha distolto il giovane commerciante dalla compagnia di amici agitati e dissoluti? Quanto si preoccupa di godere buona reputazione presso il banchiere, di apparirgli sempre ineccepibile? Un aggrottamento di ciglia del banchiere ha su di lui un effetto maggiore delle prediche morali dei suoi amici; non trema egli al pensiero di poter essere sospettato colpevole di un inganno o della più piccola affermazione inesatta, per timore che ciò possa provocare diffidenza e quindi una restrizione o una sospensione del suo credito bancario? Il consiglio del banchiere è per lui più importante di quello del sacerdote». (G. M. BELL, direttore di banca scozzese: The Philosophy of Joint Stock Banking, Londra, 1840, pp. 46, 47).






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