martedì 14 settembre 2021

I due pugili sono sul ring



Leggo che tra Joseph Biden e Xi Jinping c’è stata la settimana scorsa una conversazione telefonica. I due leader hanno avuto un’ampia discussione strategica sui temi d’interesse dei due Paesi, convergendo su alcune cose e divergendo su altre. Insomma, ognuno è rimasto sulle proprie posizioni. Durante il colloquio – ha spiegato la Casa Bianca –, è stata affrontata la questione della “responsabilità di entrambe le nazioni per garantire che la concorrenza non si trasformi in conflitto”.

Novanta minuti di conversazione di cui non si sa nulla di preciso, poiché non sono state annunciate decisioni e non sono state rilasciate dichiarazioni congiunte. Biden ha fatto appello per ottenere l’assistenza della Cina su questioni d’interesse per gli Stati Uniti, ma non ha offerto nulla in cambio e la situazione di stallo tra le due maggiori economie del mondo continua.

L’unica cosa certa sono le crescenti tensioni alimentate dalla posizione aggressiva di Washington nei confronti di Pechino su tutta la linea: diplomatica, economica e strategica. Un funzionario dell’amministrazione ha detto ai giornalisti che il messaggio di Biden era stato quello di garantire che “non abbiamo alcuna situazione in futuro in cui vireremo su un conflitto non intenzionale”.

Il fatto stesso che la prospettiva di un “conflitto” tra due potenze nucleari sia sollevata in dichiarazioni formali indica che tale prospettiva è in discussione a porte chiuse. Nell’ultimo decennio, a partire dal “pivot to Asia”, ovvero la scelta di dare priorità strategica al teatro Asia-Pacifico già ribadita nel 2011 dall’ex segretario di stato Hillary Clinton, e proseguita dall’amministrazione Obama, di cui Biden era vicepresidente, gli Stati Uniti hanno cercato di contrastare la Cina e di prepararsi militarmente alla guerra (*).

Lo sganciamento Usa dal teatro afghano, come avevo già rilevato ben prima che s’accendessero i riflettori mediatici, ha precisamente questo significato. Preoccupate dai tagli imposti dal Pentagono, le major degli armamenti stanno cercando da tempo di re-indirizzare la politica estera americana verso la Cina e il turbolento quadrante asiatico. Ciò risponde però anche alla necessità concreta di irrobustire la propria presenza e l’assistenza militare ai paesi limitrofi prima che la crescita militare cinese, segnatamente il potenziamento della flotta di superficie e quella subacquea, sebbene lontana dal raggiungere i livelli statunitensi, diventi motivo di sfida aperta e reale.

Xi ha avvertito: “Se la Cina e gli Stati Uniti possano gestire correttamente [pacificamente] le relazioni reciproche è una domanda per il secolo che riguarda il destino del mondo, a cui entrambi i paesi devono rispondere”.

Ha posto una domanda essenziale la cui risposta riguarda tutti, anche quelli che pensano che il nostro destino sia legato più ai temi interni che a questioni di politica internazionale, e l’approssimarsi di un conflitto tra i due imperialismi sia questione che riguarda esclusivamente le potenze direttamente interessate.

Biden aveva chiesto la telefonata con Xi perché “esasperato” dalla riluttanza dei funzionari cinesi di livello inferiore a tenere colloqui sostanziali con la sua amministrazione. La “riluttanza” dei funzionari cinesi non è una sorpresa. L’amministrazione Biden non solo ha continuato, ma ha intensificato le politiche aggressive anti-cinesi dell’amministrazione Trump, tra le quali:

il mantenimento delle misure di guerra commerciale di Trump che includevano tariffe su oltre 360 miliardi di beni cinesi, portando la Cina a reagire con tariffe su oltre 110 miliardi di prodotti statunitensi. Gli Stati Uniti hanno anche provocatoriamente imposto divieti ai colossi hi-tech cinesi, come Huawei, volti a limitare le loro vendite e l’accesso ai componenti;

il rafforzamento dei legami con Taiwan, minando la politica One China, che è stata la base delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti per tre decenni. Nel 1979, gli Stati Uniti posero fine alle relazioni diplomatiche con Taipei (così Canada, Regno Unito, India, Pakistan e Giappone), riconoscendo di fatto che Pechino era il governo legittimo di tutta la Cina, compresa Taiwan;

la strumentale denuncia della Cina per il “genocidio” della minoranza musulmana uigura nella regione dello Xinjiang, una bugia priva di fondamento (lo dico per i più realisti del reame: Pechino usa indubbiamente le misure dello stato di polizia nello Xinjiang, come fa altrove in Cina, ma non ci sono prove che sia impegnata nell’eliminazione fisica della popolazione uigura);

l’insistenza sulla balla per cui la pandemia avrebbe avuto origine presso l’Istituto di virologia di Wuhan, nonostante le prove contrarie degli esperti e un’indagine dell’Organizzazione mondiale della sanità che ha stabilito come sia “estremamente improbabile” tale fatto (ultimamente se ne parla meno, ma si ritornerà senz’altro a insistere sul punto).

A guidare il pericoloso confronto tra Washington e Pechino è la determinazione statunitense di prevenire qualsiasi sfida alla sua egemonia globale con tutti i mezzi, inclusa la guerra. Pur prendendo di mira anche Russia e Iran, gli Stati Uniti considerano (a ragione!) la Cina come la principale minaccia alla loro posizione e hanno chiesto a Pechino di rispettare il “sistema internazionale basato su regole” con le quali Washington ha stabilito il suo dominio dalla seconda guerra mondiale.

Il riferimento a un sistema internazionale basato su regole equivale a insistere sul fatto che Pechino si pieghi agli interessi statunitensi! La Cina persegue i propri obiettivi nell’ambito del sistema internazionale incentrato sul capitale (o mercato, se si preferisce), e non secondo quanto è sostenuto da un piccolo numero di paesi del cosiddetto ordine internazionale basato sulle loro regole.

I funzionari cinesi hanno ribadito a tale riguardo che la Cina non crede in regole basate sull’uso della forza, nel rovesciare altri regimi con vari mezzi, nell’uccidere le persone e massacrare la popolazione di altri paesi. La Cina può mantenere questo profilo “accusatorio” fino a quando non avrà a sua volta assunto, se ciò accadrà, una posizione dominate.

L’unica differenza tra l’orientamento di Trump e Biden verso la Cina è tattica. Biden ha cercato di ottenere il sostegno degli alleati degli Stati Uniti per il suo confronto con Pechino, in particolare tenendo il primo incontro dei leader del Quadrilatero sulla sicurezza, un’alleanza quasi militare con India, Giappone e Australia, diretta contro la Cina.

Fino a quando sarà governabile il confronto? Questa è la vera domanda.

La Cina non è esente da problemi interni, anche in divenire e non ultimo quello demografico, ma mostra una leadership solida e attenta; viceversa gli Usa non hanno una leadership adeguata al momento storico e i loro problemi interni possono essere esemplificati sul piano politico con quanto è successo a Washington il 6 gennaio scorso. Ad ogni modo la rotta intrapresa è verso il conflitto e la guerra, e la volontà americana di voler continuare a umiliare Mosca è da stupidi e da imprudenti (il via libera Usa al completamento, avvenuto in questi giorni, dello Stream 2, è un cambio di strategia oppure una vittoria solo tedesca?).

Per il momento e per quanto ci riguarda siamo spettatori silenti e c’è poco da sperare a riguardo dell’Europa, nano politico e militare, e della sua assunzione di responsabilità. L’Inghilterra ne è fuori, la Germania vive una fase di crisi politica che si aggraverà con l’uscita di scena della Merkel, mentre la Francia non sta meglio e comunque è attenta solo ai propri interessi nel Mediterraneo e in Africa. Quanto all’Italia, alla quale serve più che mai una riforma costituzionale seria e non raffazzonata, fonda la sua politica estera sull’ENI e ... l’esportazione di arance.

(*) In un articolo pubblicato da Foreing Policy nell’ottobre 2011, l’allora segretario di Stato Hillary Clinton ribadiva la convinzione della Casa Bianca: “il futuro del mondo si decide in Asia, non in Africa o Iraq e gli Stati Uniti saranno al centro dell’azione”. L’anno successivo, nel 2012, durante gli Shangri La Dialogues, l’intervento del segretario alla difesa Leon Panetta fu tutto teso a fissare nelle menti dei delegati l’idea che l’Asia fosse la prima e unica preoccupazione dei consiglieri per la sicurezza di Obama. 

2 commenti:

  1. Uno dei pugili era già suonato prima di salire sul ring.

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  2. Da anni il governo cinese sta affrontando la questione del consumo interno tentando di frenare la fuga all'estero dei capitali, convogliandoli all'interno del proprio territorio; durante la pandemia questa politica è stata notevolmente incrementata con l'adozione di importanti misure di rilancio dell'economia. I guai della Cina sono gli stessi che hanno dovuto gestire a loro tempo i paesi a capitalismo maturo. Il rapporto debito/pil del gigante asiatico sfiora il 290% e si avvicina a quello dell'Eurozona e degli Stati Uniti. Pechino stava provando ad appianare il deficit con operazioni di deleverage, ma con la pandemia questi interventi sono stati interrotti. Il debito cinese impensierisce gli investitori internazionali, i quali sono legati all'economia del paese e si vedono ora esposti ad un rischio elevato ("Chinais dodgy-debt double act", The Economist del 4 settembre). Non è più lo Stato a comandare sul Capitale bensì il contrario, e anche la Cina, che in brevissimo tempo è passata da paese del terzo mondo a paese capitalisticamente avanzato (con indici di crescita alti), segue lo stesso percorso obbligato solcato dai concorrenti occidentali. La sincronizzazione delle economie in un mondo globalizzato è un fatto inevitabile.

    Un altro grosso problema incombe sul gigante asiatico, l'insolvenza di Evergrande. Una delle più grandi società immobiliari del paese scricchiola rumorosamente sotto il peso di oltre 100 miliardi di dollari di debito. In un anno le azioni del gruppo sono crollate del 70% in termini di valore in borsa, mentre i profitti sono diminuiti del 29%. Di recente è arrivato anche il declassamento da parte dell'agenzia di rating Moody's, a cui si è aggiunta la sospensione temporanea delle contrattazioni sul titolo alla borsa di Shenzhen, e delle obbligazioni a Shanghai. Sono in molti a ravvisare nella crisi del colosso cinese forti similitudini con quanto accaduto negli Usa nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Il pericolo maggiore riguarda l'esposizione della società verso gli investitori stranieri e l'effetto domino che potrebbe generarsi, dato che Evergrande è un conglomerato finanziario che raggruppa diverse società. In realtà, è tutto il settore ad essere in crisi; Il Sole 24 Ore afferma che la crisi di Evergrande rischia di trascinare nel baratro l'intero sistema immobiliare cinese (che vale circa un quarto di tutta la produzione economica del paese).

    Da tempo i grandi investitori si domandano se l'immobiliare cinese sia un'enorme bolla e quando scoppierà. Non serve essere esperti di finanza per accorgersi dell'esistenza in Cina delle città fantasma, e cioè della costruzione di immensi centri urbani che poi rimangono vuoti (sembra che ne esistano più di 50). Bisognerà vedere che tipo di reazione metterà in campo il governo di Pechino, ma in ogni caso il problema non potrà essere risolto alla radice ma solo tamponato.

    Non si tratta d'altro che di una crisi di sovrapproduzione, quindi di eccedenza di merci e perciò di capitali. Il mondo capitalistico produce troppo e non riesce a fermarsi ("Vulcano della produzione o palude del mercato?", 1954).

    Da tempo ci aspettavamo un nuovo crack, e guarda caso sembra profilarsi all'orizzonte una crisi che, come nel 2008, partirebbe dal settore immobiliare determinando pesanti contraccolpi su quello finanziario internazionale. Come abbiamo scritto nella rivista n. 23 (giugno 2008): quella in corso non è una crisi congiunturale.

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