martedì 14 settembre 2021

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Fu preso da una stanchezza sproporzionata. Non poteva farci niente, aveva capito fin dall’inizio che tentare di opporvisi sarebbe stato un errore. Non ne avrebbe comunque avuto la forza. Non aveva detto altro, né voluto, né programmato, né fatto sapere, né sperato. Il corpo non aveva più risposto. La sua unica pretesa, la sua unica egemonia era stata interrompere le funzioni secondarie, portarle alla capitolazione, salvare l’essenziale. Si sedette, capitolando. Smise di scrivere. Era l’obiettivo. Vent’anni e poi niente. In una volta. L’impensabile impossibilità. La sua mano si tratteneva in quello che fino a quel momento era stato uno dei gesti più spontanei, costanti, essenziali. Non definirsi più con questo gesto e il suo nome. Ecco perché è scomparso.

Non stava scrivendo. Oppure solo inizi, poche frasi, cinque o sei, abbandonate una dopo l’altra. Con il passare delle settimane, dei mesi, aveva capito un’altra cosa; non era tanto lo scrivere che si era fermato, non voleva più scrivere per loro. Forse era solo scrivere per loro che era finito, si ripeteva, ed era stranamente felice di dirlo. Aveva finito per trovare strano dover produrre la lingua per così poco. Non voleva di più. Neanche meno. Aveva fatto abbastanza e basta. Come sbattere una porta, riagganciare il telefono. La fatica aveva fatto il resto. Fuggire. Disertare. Non sapere altro.

E poi un giorno era successo qualcosa. Una cosa molto piccola. Era stato in grado di scrivere ancora qualcosa, l’impossibilità era stata cancellata. Non sapeva in anticipo che cosa avrebbe scritto, non sappiamo nulla prima. Questo è il segreto, c’è qualcosa nel fatto di scrivere che nessun’altra attività ti soddisfa a quel modo, che nient’altro ti porta.

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