Non occorre essere dei marxisti, specie in un’epoca in cui il ripudio del marxismo è tutt’uno con le formulazioni enfatiche del riformismo liberale (*), per riconoscere l’estrema fragilità dell’intero sistema economico internazionale. Perché mai la “crisi” è un tema sempre ricorrente nel dibattito economico e politico? Perché la crisi è di carattere sistemico, riguarda il fondamento stesso del modo di produzione capitalistico e le sue vaste e intricatissime propaggini finanziarie.
Il fenomeno dominante della finanziarizzazione dell’economia è un modello di accumulazione in cui il profitto è realizzato sempre più attraverso i canali finanziari piuttosto che attraverso la produzione e il commercio, e rappresenta in gran parte il trionfo del parassitismo economico con aspetti non marginali d’illegalità e di criminalità.
Nel 2008 ciò che è venuto alla ribalta è stato a causa di una grave crisi finanziaria, ma il raggiro continua e prevale in varie forme sofisticate nell’intero sistema finanziario. È sufficiente entrare in una qualsiasi banca per vedersi proporre investimenti allettanti che sono veri e propri agguati al risparmio avvallati dall’adesione formale a vari “profili di rischio”, che in realtà dovrebbero chiamarsi profili di truffa. Ne sono prova gli stati d’animo prevalenti in ampi strati dell’opinione pubblica a riguardo di questo tipo d’attività bancaria.
Sicuramente si approfitta dell’analfabetismo economico molto diffuso, che c’è interesse a mantenere tale, ma è evidente che alla base vi sta l’antagonismo tra l’interesse pubblico e sociale e quello di lobby economico-finanziarie che spingono e “oliano” il meccanismo istituzionale e politico per ottenere una legislazione sempre più lasca e permissiva grazie alla quale imbastire giganteschi azzardi finanziari. Il caso delle banche fallite ne costituisce solo un esempio limitato.
Tutto ciò è fatto passare come una forma marginale di “perversione” del sistema, quando in realtà tali perversioni rientrano come principio e tema essenziale della “libertà” economica. Certi indirizzi economici li troviamo sviluppati e ripetuti negli scritti di chiunque si occupi di questioni economiche, dimenticando spesso, per non dire sempre, che il capitalismo non è soltanto un modo efficiente di produrre merci, ma proprio come tale è al contempo anche la forma più efficiente d’appropriazione della ricchezza sociale da parte di chi è nelle condizioni di farlo. La concentrazione di queste condizioni è in mano a una minoranza d’individui.
Dal lato dottrinale, ossia ideologico, gli apologeti del sistema vogliono far passare nella concezione corrente i rapporti sociali di produzione e distribuzione come dei rapporti che scaturiscono dalle leggi “naturali” dell’economia e che hanno raggiunto la loro più pura espressione e la loro forma più alta e libera nell’epoca attuale. Puntano dunque il loro discorso sui redditi, sulle politiche di redistribuzione e di tassazione, che è un modo per sviare il discorso sulla reale natura della espropriazione/appropriazione.
A insistere sono soprattutto gli specialisti di “sinistra” che pretendono il diritto di considerarci come una massa di stupidi. Ciò che si chiede è di non abusare del privilegio.
Non è qui necessario dimostrare di nuovo che la determinazione del valore e la regolazione di tutta la produzione da parte del valore agisce sì come cieca legge di natura nei confronti di singoli agenti e impone l’equilibrio sociale della produzione in mezzo alle sue fluttuazioni accidentali, ma un conto è la legge del valore che agisce come legge interna al modo di produzione capitalistico, altro discorso sono i rapporti sociali di produzione e di distribuzione. Essi corrispondono esattamente ai rapporti di proprietà e di sfruttamento, e più in generale ai rapporti di potere tra le classi.
(*) Gli ultimi quarant’anni sono stati caratterizzati da un’accentuata polarizzazione della società occidentale (ma non solo). C’è stata la sbalorditiva concentrazione della ricchezza estrema del ceto più ricco della popolazione, ma si è estesa e consolidata anche una classe medio-alta (professionisti, piccoli imprenditori e manager, commercianti, politici e burocrazia apicale, ecc.) che ha accesso a una ricchezza sostanziale. Tale ampio strato benestante non ha niente a che fare con la ricchezza dei veri ricchi, però rispetto alla classe lavoratrice e impiegatizia con bassi salari, non se la passa male, anzi vive bene. Questo processo di trasformazione sociale ha portato, nel tempo, all’approfondimento dell’alienazione materiale, ideologica e politica di questo strato sociale agiato, che costituisce la base della sinistra borghese, mentre gli strati sociali economicamente più svantaggiati o in sofferenza, soggetti a forme di alienazione spesso anche più degradate, non avendo più punti di riferimento politici verso cui guardare, virano sempre più a destra.
Aggiungerei, a postilla, che fra gli strati subalterni aumenta molto l'astensionismo elettorale, che è un altra faccia di quella mancanza di riferimenti politici di cui parlava lei. E' un fenomeno che mi pare sia molto cresciuto negli anni, in particolare nella categoria dei salariati.
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