Siamo nel mezzo di due epoche e di due mondi, e non alle prese di una semplice trasformazione di ciò che è sempre esistito. Pertanto sarebbe il caso di non insistere su ciò che ci sarebbe da riformare del vecchio mondo, posto che non è realistico riformare un mondo che ci sta lasciando in eredità vecchie contraddizioni sul piano economico, sociale e geopolitico.
Volevamo la rivoluzione, ed essa è già qui da un pezzo. Non l’ha fatta il proletariato, alias la classe media occidentale, che anzi l’ha dovuta in gran parte subire e ne scopre ogni giorno l’essenza più tragica, come quando si perde il proprio lavoro; non l’ha voluta nemmeno la borghesia, che però vi si è adattata come sempre con furbizia traendone ogni vantaggio possibile.
Sarebbe sbagliato credere che si tratti solamente di una rivoluzione tecnologica che ci consente di comunicare e scambiare in tempo reale, di produrre in nuove forme e con altri alfabeti. Giustamente è stato osservato che si tratta di una rivoluzione antropologica. Come lo è stata, per esempio, quella tra il passaggio dal nomadismo alla stanzialità.
Per certi aspetti è una rivoluzione ancora più profonda e originale, poiché mette in discussione il ruolo stesso dell’umano nella società e nel mondo. Una rottura inedita rispetto a tutto il nostro passato storico.
Si apre un tempo incerto nel quale tutto può accadere. Spetterà alle circostanze, cioè al caso, decidere e favorire una cosa o l’altra; nel novero del possibile, ovviamente, il quale non accade mai necessariamente, ma secondo legge. Gli uomini possono adoperare tali leggi a proprio vantaggio. Ecco perché hanno ancora un ruolo, che non può essere delegato a nessuna “macchina”, per quanto possa simulare di essere “intelligente”.
Ben detto! Solo che in questo caso quando si parla di uomini in modo generico si lascia in ombra il ruolo dell'organizzazione formale e depositaria dell'intelligenza storica e politica, ossia il partito, altrimenti si sconfina nell'anarchismo e nell'operaismo. GS
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