Ispirazione e basi di classe della resistenza italiana
di Rossana Rossanda
La resistenza fu una lotta proletaria, un momento della lotta di classe, o una battaglia “nazionale” contro il fascismo e contro i tedeschi? Non è un problema di storia: è una bruciante questione politica, che corre sulle colonne dell’Unità da qualche settimana.
Il 28 aprile, scrivendo sull’antifascismo dei giovani, Paolo Spriano attacca aspramente i gruppi di sinistra che pretenderebbero di contrapporre una resistenza proletaria – “una resistenza che non ci fu” e che essi “inventano” ora – alla resistenza antifascista unitaria. Un compagno di Sesto San Giovanni protesta: “Ci fu una sola resistenza, e fu una resistenza proletaria”, non nel senso che soltanto la classe operaia vi partecipò, ma che “la parte proletaria della resistenza fu egemone”. Nell’Unità di domenica scorsa Spriano, documenti alla mano, risponde che gli dispiace ma purtroppo non è vero. “Non è vero nella realtà, non è vero neppure nelle intenzioni comuniste”.
Ma ha ragione Spriano? E con lui i dirigenti comunisti che da dieci anni a questa parte compiono un egregio sforzo di riduzione dell’intera storia del Pci a una storia di “partito nazionale”, chiuso nell’orizzonte della “rivoluzione democratico-borghese”?
Noi crediamo che né Spriano né Amendola – tanto per non fare nomi – abbiano ragione. La loro è una storia a metà. È perfettamente vero che nel fronte popolare si volle una lotta non contro tutto il capitale ma contro quella “espressione della parte più reazionaria, sciovinistica e guerrafondaia del grande capitale finanziario” – per riprendere la definizione dell’Internazionale – che è il fascismo. È vero che l’orizzonte di questa lotta non fu il socialismo. È vero che il fronte di alleanze non fu omogeneo di classe. Ma è altrettanto vero che la classe partecipo a questo fronte di alleanze con una sua strategia.
I comunisti che non erano riusciti ad aprirsi un varco quadro della linea “classe contro classe”, avvertivano nella crisi specifica del capitale e della società italiana indotta dal fascismo un’improvvisa possibilità di respiro, una occasione autentica mobilitazione e di lotta. Sentirono, almeno in Italia, il fascismo per quel che era, un prodotto non bastardo ma autentico del grande capitale – qualche cosa da battere nelle sue radici di classe. Intesero il “frontismo” non solo come una tattica ma come una strategia di classe: una battaglia nella quale l’alleato non omogeneo sarebbe stato nel medesimo tempo portato avanti e trasformato e indebolito, e il fronte si sarebbe necessariamente spostato nella lotta contro i tedeschi alla lotta contro i padroni.
Se non si intende questo, non si spiega perché come forze di classe nacquero i due grandi partiti europei – nella loro effettiva configurazione e base di massa – non tanto nel 1921 quanto nel 1934-36 in Francia e nella resistenza antifascista in Italia. Non si comprende come e perché la resistenza fu insieme scoperta dell’URSS e del socialismo. Non si comprende il fastidio con quale i giovani respinsero il festival democraticistico badogliano del 1943 e perché cercassero, dalle fabbriche all’università, il comunista che desse un senso, una chiave d’interpretazione di classe a quel che accadeva. Non si comprende, o si tace, che altra cosa furono i Cln di vertice altra quelli di base – e che questi furono la verità – della resistenza, se è vero com’è vero che ben poco degli equilibri politici del CLN Si ritrova dopo la liberazione nella ristrutturazione delle forze politiche. Non si comprende che altre cose, rispetto ai Cln di qualsiasi tipo, furono i Gap e le brigate Garibaldi. Non si comprende perché, almeno in Italia, la classe operaia condusse una lotta propria con gli scioperi del 1943 contro il fascismo e la paralisi del Nord nel marzo 1944. Non si comprende perché le brigate Garibaldi scesero dalle montagne col fazzoletto non tricolore, ma rosso; non vollero la divisa; restavano sedute per terra davanti alla bandiera. Non si comprende perché le armi non furono consegnate agli alleati, ma sepolte attorno alle fabbriche delle periferie industriali. Non si spiega perché nel partito siano durate a lungo e tollerate le organizzazioni armate e parallele. Perché subito dopo la liberazione sia nata una amara polemica fra la direzione del partito e gruppi partigiani del Nord, riecheggiata in una lunga, sorda tensione all’interno del gruppo dirigente. Non si capisce perché la classe operaia ebbe un potere reale in fabbrica fino al 1948 e oltre. Perché questo fu vissuto come la sua realtà, e non già i “piani del lavoro” o di “ricostruzione nazionale”, fino alla sconfitta durissima seguita alle elezioni del 1948, all’abbandono delle occupazioni dopo l’attentato a Togliatti, alle estenuanti Lotte difensive contro la ristrutturazione capitalistica.
La resistenza fu “rossa”, ha ragione il compagno di Sesto; senza la resistenza rossa non ci sarebbe stata, o sarebbe stata ben fragile cosa, l’unità antifascista. Solo che questo strumento proletario si scontrò con due limiti profondi. Uno del movimento comunista internazionale o, che è la stessa cosa, dell’Unione sovietica. Quando fu spartito il mondo a Yalta, fu tolta al movimento comunista italiano ogni prospettiva rivoluzionaria. Fu tolta anche alla Jugoslavia. La Jugoslavia non accettò. In Italia accettò invece tutto il gruppo dirigente comunista – e non per velleità di tradimento, ma per una identificazione profonda con la strategia staliniana. L’altro limite fu proprio nell’anima classista, di sinistra del frontismo; e cioè l’idea della rivoluzione e della presa del potere come un colpo di vertice, risultato subitaneo d’una guerra manovrata destinata a precipitare prima in alto che nella base sociale effettiva. Questo fu anche il limite e la contraddizione di quella “sinistra” comunista che, dalla morte di Togliatti, fa ogni tanto qualche sortita per dire, fra le righe, che lei la rivoluzione la voleva – senza specificare che peraltro non la intese mai se non come necessità di un partito più “organizzato”, più militarizzato, più “duro”, nel quadro della stessa strategia d’attesa.
Questi limiti fecero sì che la classe operaia, proletari comunisti, vivessero secondo un punto di vista parziale e perdente la propria lotta. Quando nel 1956, VIII congresso del Pci liquidò la “doppiezza” non faceva più alcuna svolta; le armi seppellite nel 1945 erano già tornate da un pezzo alla luce, piene di ruggine, sotto i bulldozer della espansione urbana del Nord. Si prendeva atto della file una ipotesi rivoluzionaria, fallita non per colpa d’un gruppo dirigente, ma per una malattia assi più grave del movimento operaio internazionale: l’incapacità di intendere la rivoluzione in occidente come un rovesciamento totale – non solo del governo dello Stato, ma del mondo capitalistico di produzione; e quindi come un processo necessariamente autonomo, non riducibile ai tempi dell’Urss, e necessariamente ricondotto ai soli protagonisti reali, il proletariato e il sistema. È vero che la classe operaia salvò le fabbriche e le riconsegnò, e che in questo ancora una volta giocò il limite frontista della politica “nazionale”. Ma anche qualcosa di più profondo: un’idea della continuità nella rivoluzione, del “conservatore per gestire diversamente” che veniva da molto lontano dalla costruzione del socialismo in Urss ed era profondamente intessuta alla stessa coscienza antagonista della classe.
Questo limite non poteva, probabilmente, venire avvertito allora, e condizionò più di quanto non sia detto la stessa linea operaista rivoluzionaria. Ma viene alla luce storicamente adesso. Adesso, incrinata l’egemonia dell’Urss, affiorata quella della rivoluzione culturale, esplose le contraddizioni del capitalismo maturo nelle lotte del 1967- 1969, questo elemento di rottura torna a caratterizzare la coscienza delle avanguardie. Adesso la rivoluzione politica come rivoluzione sociale viene, forse per la prima volta, a maturità piena. Ed è qui che prendono significato la riflessione sul passato, le domande e le risposte. Per questo – e stupisce che Spriano non lo intenda – i giovani cercano nella resistenza il filo rosso dell’antagonismo di classe, anche per ritrovare una dimensione nella lotta contro il fascismo, che non siano le bolse processioni “unitarie” proposte dal Pci. Per questo il compagno di Sesto si appella a quella che è stata la natura di classe del partito cui dice di appartenere. E per questo la risposta di Spriano non è solo la risposta dello storico. È la risposta del politico, e suona: “Illusi, che state cercando? Rivoluzionari non potremmo essere allora, figurarsi oggi. Chi vi dice il contrario è un provocatore”.
il manifesto, 26 maggio 1971.
* * *
L’analisi di R.R., lucidissima e sotto il profilo storiografico ancora valida, va letta alla luce del frangente storico in cui fu redatta. Un’epoca, anche quella, sottoposta in seguito a una pesante e costante revisione storica, tanto che paradossalmente quegli anni sono stati ribattezzati “anni di piombo”, come se essi non fossero stati in realtà e anzitutto gli “anni delle bombe”, delle “stragi di Stato”, della minaccia di golpe e del rigurgito fascista. Come se ciò che scaturì in seguito e in concomitanza a quegli avvenimenti, e che coinvolse a vario titolo non piccola parte di una generazione, fosse il semplice frutto di chissà quale avventurismo e delirio ideologico (checché ne possa dire, a supporto del revisionismo, il pentitismo postumo, interessato, lacrimoso e genuflesso).
Quella “rivoluzione politica” richiamata allora da R.R. non fu mai, se non nominalmente, all’ordine del giorno della sinistra parlamentare. Troppe cose furono tollerate e taciute, troppi compromessi pattuiti sopra e sotto il banco in nome della “governabilità” e delle “compatibilità” di sistema. La società italiana nel frattempo stava profondamente cambiando, ma è altrettanto evidente che la resa alle posizioni dell’avversario è stata, ben prima del 1989, totale e incondizionata, tant’è che oggi non ci si chiede nemmeno più se sia rimasta anche solo vaga traccia del partito di classe e di qualcosa che assomigli alla sinistra.
Grazie a te e a Rossana per la duplice lettura dioggi...che bello leggere "il compagno di Sesto".
RispondiEliminaPer me l'unica Sinistra è sempre stata negli ultimi 35 anni quella extraparlamentare...ecco perchè ahimè non voto più.
Un Caro saluto
Roberto
ahimè?
Eliminacari saluti a te, Roberto
Ottima l’idea di riproporre l’articolo della Rossanda che è una onesta analisi sui limiti della Resistenza e del PCI, ma trovo assurdo che per la Rossanda gli errori di Togliatti discendano dalla sua subordinazione a Stalin. È un’interpretazione che al solito salva sempre la faccia al “migliore”, d’altra parte la Rossanda era dei 4 fondatori del Manifesto la più vicina alla linea di Togliatti. Stalin potrà avere decine di colpe, vere o presunte, ma che abbia detto a Togliatti di non fare la rivoluzione in Italia ed imposto questa scelta non sta in cielo né in terra, oppure che abbia obbligato Togliatti a sottoscrivere l’articolo 7 della costituzione, o a pensare alle riforme di struttura come panacea per l’Italia. Nel PCI è sempre stato facile dare la colpa degli errori a Stalin e alla sua politica, mai fare un autocritica seria e sincera.
RispondiEliminala cosiddetta svolta di Salerno fu certamente concordata con Stalin, ciò è d'altronde documentato e testimoniato.come avrebbe potuto essere diversamente in quell'ora storica?
Eliminanon mi pare R.R. sostenga che Stalin abbia imposto a Togliatti di sottoscrivere l'art. 7, una questione più tattica che strategica.
La questione cruciale posta dalla politica che seguì il partito comunista fra il 1944 e il 1947 si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il revisionismo di Togliatti? Nella ricerca della risposta corretta a questi interrogativi occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione. In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata. In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, ad impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico usando la vaga formula della “democrazia progressiva” la quale, secondo la sua interpretazione, indicava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi. Insomma, non fu Stalin a scambiare la tattica per la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo fu la manifestazione più clamorosa a livello internazionale.
RispondiEliminaRiassumendo: Palamara nipotino di Togliatti.
Elimina:) lascia perdere, che sennò manda un altro pippone
EliminaNon dimentichiamo che l'Italia era divenuta una espressione geografica, e che non vi erano possibilità di indipendenza. Inglesi ed americani comandavano (e comandano).
RispondiEliminaChe Togliatti nel dopoguerra abbia seguito le direttive staliniane basate su Yalta è evidente, come è evidente che così facendo salvò l’Italia da ciò che accadde in Grecia nel 1944-49, dove l’ELAS non era d’accordo e iniziò una guerriglia, contrastata immediatamente da inglesi ed americani, che portò a un paese distrutto e diviso, guerriglia sostenuta inizialmente dalla Jugoslavia ma non da Stalin.
Alla luce di ciò che accadde in Grecia sino al 1974 e oltre, il comportamento di Togliatti teso a risparmiare la distruzione di ciò che rimaneva dell’Italia dopo una guerra che l’aveva massacrata è del tutto comprensibile, come gli doveva essere evidente che il suo comportamento con ogni probabilità segnava la condanna a morte del suo movimento, preceduto da lunghissima agonia.
Sulla resistenza il discorso sarebbe lunghetto: faccio solo notare che la resistenza reale, quella delle brigate Garibaldi, fu un fenomeno limitato al nord, e che tale fenomeno fu costruito dal nulla a partire da maggio 1944 circa, con le ovvie relative problematiche, ad esempio la difficilissima costituzione dei reparti, dove molto spesso gli unici con esperienza bellica erano gli ex-prigionieri slavi, e il reperimento delle armi, ambedue problemi enormi.
Tanto per fare un esempio, a fine luglio 1944 nel Cuneese una formazione sedicente comunista di circa 150-200 uomini passò armi e bagagli al capo partigiano monarchico Mauri, previa uccisione del comandante probabilmente innescata dallo stesso.
Trobo
0.T.
RispondiEliminahttps://www.qualenergia.it/articoli/i-ricchi-dell1-in-25-anni-hanno-emesso-il-doppio-della-co2-del-50-piu-povero-della-popolazione-mondiale/
Beh...forse tutto questo revisionismo non nasconde solo il profondo sentire fascista da sempre presente in Italia?
RispondiEliminaSiamo qua a parlarne dopo quasi 80 anni e nel mentre figure come Salvini e forza nuova non sono solo opache ombre del passato, anzi riescono a mettere in ombra quel poco che di sinistra è rimasto in Italia.
Io ho sempre più visto negli anni la vergogna di sentirsi e manifestarsi di sinistra rispetto alle grida di destra.
Roberto
Purtroppo hai ragione
EliminaNei primi mesi del 1945 la Germania era praticamente sconfitta; le armate sovietiche, rinforzate da importanti contingenti bulgari, romeni e polacchi e anche dall’Esercito di liberazione jugoslavo, avevano una decisiva superiorità nel continente rispetto alle forze alleate; gli Stati Uniti erano ancora impegnati nella guerra del Pacifico. In tutta Europa era il momento del massimo entusiasmo popolare per gli ideali democratici e innovatori della Resistenza. Ci si può allora domandare che cosa sarebbe successo se in questa situazione i movimenti operai della Francia e dell’Italia fossero passati risolutamente all’offensiva ponendo all’ordine del giorno la questione del potere dei lavoratori sulla base di un programma di trasformazione democratica e socialista. Sarebbe forse scattato l’intervento degli Alleati? Potevano Roosevelt o Truman rischiare politicamente di sostituirsi a Hitler contro la sinistra europea? Erano nelle condizioni militari per farlo? Certo, il pericolo non poteva essere scartato, così come nell’ottobre 1917 non poteva essere scartato il pericolo dell’intervento degli eserciti tedeschi che stavano per schiacciare la rivoluzione russa. Lasciando perdere il solito mantra sulla repressione del moto insurrezionale greco, è però altrettanto vero che finora non si sono conosciute rivoluzioni munite di permesso e garantite da ogni pericolo…
RispondiEliminaSuggerisco di informarsi un po' più approfonditamente sulla dinamica del "moto insurrezionale greco" e sulle supposte "capacità di passare all'offensiva" dei movimenti operai di Italia (in pratica il solo quadrilatero industriale) e Francia (Parigi) privi di direzione sia civile che militare e soprattutto di qualunque capacità bellica, in presenza di un gigantesco esercito di occupazione alleato presente in tutta la Francia e Italia e in grado di operare qualunque tipo di repressione.
RispondiEliminaSenza disperdersi troppo ecco un solo argomento, la componente aerea nella repressione greca fu una parte sostanziale, come lo fu nella guerra di Spagna: prima gli Spitfire inglesi a ripulire la montagna, poi l’esercito greco a rifinire. L’ELAS, ovviamente, non possedeva aerei, né possedendoli, sarebbe stato in grado di operarli con continuità.
Dove erano gli aerei dei citati movimenti operai? Al primo “ordine del giorno” sarebbe stato immediatamente applicato il metodo Bava Beccaris, e con gli stessi rapporti di forza.
Togliatti era a conoscenza di cento volte di ciò che sappiamo noi: ha fatto quel che doveva e poteva fare.
Trobo
Ponendosi al termine della congiuntura storica che va dal 1943 al 1947 (la periodizzazione è importante), ci si può chiedere se la politica di unità nazionale del PCI sarebbe stata più fruttuosa, qualora a condizionarla e a limitarla, soprattutto sul terreno politico e sociale, non vi fosse stato il timore di un brutale intervento angloamericano. È però incontestabile che essa venne sfruttata a fondo dalla borghesia italiana, poiché De Gasperi non deluse la fiducia e le speranze che le vecchie classi dirigenti italiane avevano riposto in lui. Poteva dirsi lo stesso riguardo alla fiducia e alle speranze che il proletariato italiano aveva riposto in coloro che lo rappresentavano nel momento in cui era avvenuta la maggiore catastrofe economica e sociale del capitalismo italiano? La missione storica del partito rivoluzionario era forse quella di contribuire a preparare le condizioni economiche e politiche della restaurazione capitalistica? Nessuno può negare che i lavoratori italiani ottennero una serie di conquiste che non possono essere disprezzate: invece del fascismo la democrazia borghese; invece della monarchia la repubblica democratica con una Costituzione tanto avanzata quanto può esserlo una Costituzione borghese; infine, una serie di miglioramenti sociali. In sostanza, qualcosa di simile a ciò che il proletariato tedesco aveva ottenuto dopo la prima guerra mondiale con la sua ‘rivoluzione’ sotto la direzione della socialdemocrazia.
RispondiEliminaStimato Eros, vorrei cercare di essere all'altezza delle tue dotte citazioni, e ti prego di credere che non sto facendo ironia. Perciò, comincerò col riferirmi a Carlo Emilio Gadda, mio solitario idolo nel desolante panorama letterario del novecento italiano. Lo so, già hai capito. Gli è che non solo è facile come citazione, è anche appropriata: la tua turgida pervicacia è davvero priapica.
EliminaLa seconda citazione è indirizzata all'opera di Guido Morselli: un po' tutta, ma soprattutto, come è evidente, "Contropassato prossimo". Te la segnalo come un'opportunità: infatti, il Morselli fece il lavoro di ribaltare il passato a proposito della prima guerra mondiale, ma a scrivere della rivoluzione proletaria del 1945 non arrivò, preferendo una soluzione più personalistica. Invito te a seguirne le orme (di scrittore, per carità: di scrittore!)
Infatti dopo questo 40 anni di DC in Italia..
RispondiEliminaRoberto