Il crollo dei prezzi del petrolio all’inizio dell’anno, i tagli alla produzione e la recessione mondiale stanno avendo un impatto devastante sulle condizioni economiche e sociali nei paesi produttori di petrolio del Medio Oriente e Nord Africa (MENA: Middle East and North Africa).
Per dare le dimensioni della crisi: il prezzo del petrolio, che ha iniziato l’anno a circa 60 dollari al barile – quasi la metà di quello di un decennio fa – è sceso a 40 a marzo per poi precipitare in territorio negativo e quindi risalire a circa 40 al barile nelle ultime settimane. Quest’anno, i ricavi del petrolio dovrebbero essere di circa 300 miliardi, in calo dai 575 miliardi del 2019 e dagli oltre 1.000 del 2012.
Mentre la produzione di petrolio può essere redditizia solo a 40 al barile, nessuno degli Stati arabi, tranne il Qatar, può sostenere a lungo i propri bilanci a questo livello. I più colpiti sono Algeria e Oman, che hanno bisogno che i prezzi salgano notevolmente rispetto alle attuali quotazioni. Anche il più grande produttore di petrolio, l’Arabia Saudita, che fa affidamento sul petrolio per il 70% del suo bilancio, ha bisogno di 80 dollari al barile per pareggiare i suoi conti.
A giugno, il Fondo monetario internazionale ha stimato che le economie dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) - Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU), Kuwait, Bahrain, Oman e Qatar – si sarebbero ridotte del 7,6% quest’anno, mentre per l’Iraq l’economia dovrebbe contrarsi del 7,5% e quella dell’Iran del 6%, oltre a un calo del 7,6% nel 2019 e del 5,4% nel 2018 a causa del ritiro unilaterale di Washington dall’accordo nucleare del 2015.
Da marzo, gli Stati arabi produttori di petrolio hanno tagliato la spesa pubblica – compresi gli stipendi dei lavoratori del settore pubblico, che costituiscono quasi il 90% dei lavoratori regolari a tempo pieno – e hanno aumentato le tasse.
Sono stati presi prestiti sui mercati monetari internazionali che stanno intaccando le riserve di valuta estera. Anche l’Arabia Saudita, che deve affrontare un deficit di bilancio per il 2020 pari al 16% del PIL, ha solo due anni di riserve a disposizione ai tassi di spesa attuali. Altri aumenti delle tasse e privatizzazioni sono all’ordine del giorno.
Saudi Basic Industries Corporation, nota come Sabic, uno dei maggiori produttori mondiali di prodotti petrolchimici, ha perso 592 milioni di dollari nel secondo trimestre di quest’anno rispetto a un profitto di 570 milioni nello stesso periodo dello scorso anno, e sta cercando di raccogliere un miliardo di dollari tramite l’emissione di un’obbligazione.
La disoccupazione dovrebbe salire al 13% in Arabia Saudita, dove si stima che circa il 20% dei suoi 34 milioni di abitanti viva già in povertà, poiché riduce la sua rete di sicurezza sociale. I primi e più colpiti sono stati i 30 milioni di lavoratori migranti del Golfo provenienti dall’Asia meridionale, dalle Filippine e dall’area del MENA, che per numero superano i cittadini in quattro dei sei stati del Golfo. Poiché le restrizioni e il lockdown rendevano il lavoro quasi impossibile, molti si sono ritrovati senza e bloccati.
Anche il settore del turismo religioso se la passa male: mentre l’anno scorso l’Haj e l’Umrah annuali alla Mecca hanno portato 2,6 milioni di pellegrini, si prevede che l’annullamento dei pellegrinaggi di quest’anno comporterà perdite per circa 15 miliardi di dollari. I siti religiosi iracheni sono stati colpiti in modo simile.
Le ripercussioni di questa situazione si sono estese ben oltre i confini dei produttori di petrolio, poiché i lavoratori immigrati non sono stati in grado di inviare a casa parte del loro stipendio in rimesse alle loro famiglie. Le rimesse costituiscono fino al 10% del PIL in diversi paesi, ma in Cisgiordania e Gaza si arriva al 17%, Libano 14%, Yemen 13,7% e Giordania 10%. La perdita delle rimesse, la riduzione dei salari e il rientro dei lavoratori in patria può comportare sul piano sociale conseguenze imprevedibili in molti paesi.
Più di 2,5 milioni di egiziani, il 5% dei lavoratori libanesi e giordani e il 9% dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, lavorano nei ricchi stati produttori di petrolio. Se possono continuare a lavorare nel Golfo, sarà con salari più basse. In caso contrario, torneranno a casa nei paesi con alcuni dei più alti tassi di disoccupazione e salari più bassi al mondo, in particolare tra i giovani laureati. Per citare un esempio, i medici guadagnano 185 dollari al mese in Egitto, una frazione di quello che guadagnano nel Golfo.
Si deve inoltre tener presente che circa il 21% delle esportazioni dell’Egitto è assorbito nei paesi del Golfo, così il 32% della Giordania e il 38% del Libano. Per anni l’Arabia Saudita ha agito come banchiere di ultima istanza per Giordania e Libano, almeno fino a quando le loro politiche estere si sono allineate a quella di Riyadh. Insieme agli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 i sauditi hanno fornito 30 miliardi di dollari in aiuti ad Abdel Fattah el-Sisi (anche se la loro generosità è evaporata dopo che questi ha rifiutato di inviare truppe a combattere nello Yemen) e 3 miliardi di dollari al nuovo regime in Sudan, mentre il Qatar ha fornito aiuti ad Hamas a Gaza. Quella generosità non è destinata a continuare.
Questi fatti, come detto, fanno presagire una crescente tensione sociale in tutta la regione, tanto più se si guarda al medio-lungo periodo (due lustri), quando i grandi cambiamenti tecnologici in atto nell’ambito del trasporto provocheranno un calo verticale della domanda di petrolio. Allora per questi paesi si aprirà una nuova epoca, con ripercussioni sull’intera economia mondiale e nei rapporti politici internazionali.
"i grandi cambiamenti tecnologici in atto nell’ambito del trasporto", ovviamente lei intende i trasporti basati sulle batterie elettriche e celle a combustibile all'idrogeno vero?
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