lunedì 31 agosto 2015

Perché correre rischi? Zitti !!


Da un lato la recessione e il crollo dei consumi, dall’altro le misure di austerità che significano salari reali in ribasso e taglio della spesa sociale, aumento della disoccupazione e del precariato, del disagio sociale e delle povertà. Possibile non si colga la contraddizione? A sentire gli esperti, cause e rimedi sono sempre quelli. Ne vediamo gli effetti.

Per fortuna che c’è Renzi con le sue ricette. Via le tasse sulla casa, sia quelle con tre vani e pure quelle con giardini pensili e vista Colosseo. L’ho scritto credo una decina di volte, per avere un gettito sicuro (altro che “lotta all’evasione”) c’è un modo al quale nessuno si può sottrarre: elevare le aliquote sulle successioni e donazioni, abbassare le franchigie sulle stesse. L’Italia è tra i paesi occidentali con le più basse aliquote.

Possibile che con una tassazione tra le più elevate del mondo proprio le imposte sulle successioni e donazioni siano le più basse? Chiaro che si tratti di una scelta, ossia quella di proteggere le fasce di reddito più alte e con una ricchezza immobiliare sopra la media. La seguente tabella è eloquente:


Per le donazioni le imposte sono analoghe a quelle per la successione.


domenica 30 agosto 2015

Il gioco sporco


L’antica muraglia cinese non è servita a impedire l’invasione mongola, e prima ancora il Vallo di Adriano non ha potuto impedire alle tribù di quella che diventerà la Scozia di superarlo; né ha retto il più famoso dei muri, quello di Berlino. Questo per dire che migranti e rifugiati odierni sono da paragonare agli antichi invasori? Ma non scherziamo. Solo per dire che le barriere artificiali non hanno mai fermato le migrazioni quando a spingerle è lo stato di necessità.

Migranti e rifugiati sono diventati un problema la cui causa ce la raccontiamo tra noi, ma non viene mai ammessa ufficialmente. In Libia, prima che Gheddafi fosse rovesciato, vivevano due milioni di lavoratori stranieri che ora in gran parte – leggo – vagano sul posto. Senza contare i disastri provocati sulla popolazione dalla guerra. A chi è venuto in mente di scatenare una tragedia del genere, quale tribunale internazionale si occuperà mai di questi terroristi internazionali? Eppure i loro nomi sono ben noti e stampati sulle prime pagine di tutti i giornali.

venerdì 28 agosto 2015

Dove tutto è subordinato


Ogni giorno la cronaca ci racconta di nuove violenze e altre centinaia di cadaveri alla deriva nel Mediterraneo, per non dire del macabro ritrovamento in Austria. Senza cibo e acqua, stipati in condizioni sanitarie intollerabili; famiglie con bambini piccoli costrette ad attraversare centinaia di chilometri a piedi e poi in mare; polizia con i manganelli e gas lacrimogeni contro dei migranti inermi; barriere di filo spinato e misure di sicurezza per respingere migranti e profughi con la forza.

Questa la realtà. Chi ha creato e continua a mantenere le situazioni che causano questo esodo non sta muovendo un dito per rimuoverle o almeno mitigarle. Ragioni di dominio sopravanzano le più elementari ragioni umanitarie. Ad accollarsi questa tragedia è l’Europa, colpevole direttamente solo in parte. Sotto accusa i trafficanti di esseri umani, come se anch’essi non fossero il prodotto di quelle stesse situazioni di guerra e di miseria che portano questi disperati a rischiare la vita. Quindi la disputa sui confini e la distribuzione dei rifugiati pro quota, con la Germania che sceglie di tenersi i siriani e agli altri lasciare gli “scarti”.

giovedì 27 agosto 2015

Verrebbe da ridere anche a noi


È molto divertente osservare come le opinioni mutino facilmente sui motivi della crisi e cioè secondo i fenomeni congiunturali del momento. Si spiegano per esempio tali fenomeni in base alle variazioni del tasso d’interesse e simili, invece di spiegare i fenomeni del mercato del denaro partendo, al contrario, dalle condizioni della produzione.

C’è chi crede che basti individuare i rapporti quantitativi per possedere la chiave di lettura dei problemi, dimenticando però che questi rapporti quantitativi corrispondono a condizioni qualitative. In altri termini, nella realtà economica non si fronteggiano soltanto aggregati di valore. E qui il discorso riguarda il senso totale del movimento, e non è il caso di complicarsi la vita.

Si potrebbe poi ridere e dolersi dei rimedi cervellotici di volta in volta proposti, ma del resto fare dei desideri la realtà, ossia innestare delle illusioni, è diventato un lavoro preciso degli specialisti e non si può pretendere dicano che l’epoca del capitalismo progressivo è finita e siamo in piena involuzione. E poi il tema francamente sta diventando monotono, anche perché quando si scende a livello degli stupidi si rischia di essere battuti dalla loro insuperabile esperienza.


*

Contratti a sfruttamento crescente


“Nel mese di luglio il saldo occupazionale tra assunzioni e cessazioni ha registrato un più 135.417 lavoratori. Disaggregando i dati, però – sostiene il presidente Commissione Lavoro della Camera – quello che si ricava è che, per quanto riguarda il tempo indeterminato, il numero dei nuovi assunti si equivale a quello dei licenziati:137.826 a 137.779, con una differenza positiva di soli 47 lavoratori”.

47, morto che parla. Non solo in senso figurato. Il paradosso, apparente, è il caporalato e che si arrivi a occultare i cadaveri dei braccianti morti di fatica e di caldo nei campi. La globalizzazione e lo sfruttamento nelle forme dell’antica schiavitù coesistono in un paese in gran parte e per molti aspetti premoderno. Un paese a macchia di leopardo (si perdoni l’abusata espressione), dove a fronte di un certo benessere, strappato spesso con i denti e che ancora resiste in alcune fasce sociali, c’è una povertà diffusa che si vede poco solo perché si vergogna.

mercoledì 26 agosto 2015

Perché gli operai sono piuttosto frugali


Vedo di scrivere in modo semplice affinché anche chi ha studiato economia all’università e ne è uscito irrimediabilmente segnato possa comprendere qualcosa e forse tornargli utile (si sa mai).

La crisi in cui si dibatte il capitalismo appare anzitutto come crisi dei consumi ossia come espressione di “sottoconsumo” o “sovrapproduzione di merci”. Ciò significa semplicemente una cosa, e cioè che la società nel suo insieme ha consumato meno di quanto si è prodotto. E però una cosa è chiara: poiché le crisi nel loro susseguirsi periodico sono un prodotto della società capitalistica, la loro causa va ricercata nel carattere stesso del capitale. Gli economisti borghesi da quest’orecchio non ci sentono, poiché cercare la causa delle crisi nel carattere stesso del capitale, e non invece come piace loro nella circolazione, significherebbe mettere in luce anzitutto il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro.

La prima cosa che salta agli occhi consiste nel fatto che se fosse possibile ampliare il consumo della produzione capitalistica a piacere non vi sarebbe alcuna “sovrapproduzione di merci”. E dunque la prima domanda da porsi è: per quale motivo non è possibile ampliarne il consumo? A ciò la pseudo-scienza economica borghese ha tentato di trovare risposta in varie epoche e con le più fantastiche invenzioni teoriche, fino ad arrivare alla più risibile che va sotto il nome di J.M.Keynes, il quale imputava il ristagno nei consumi a un fattore psicologico: la scarsa propensione psicologica al consumo!

martedì 25 agosto 2015

Correre bendati con una fiamma accesa


Pechino taglia i tassi e torna l’euforia. Tutto bene? Manco per niente, durerà quanto durerà, cioè fino al prossimo crollo. Non per via di questo e di quello, non fondamentalmente per i motivi che ci vengono sciorinati da sempre. Scambiare gli effetti (crisi finanziaria e crollo delle borse) con le cause (l’accumulazione capitalistica e la sua contraddizione fondamentale), porta a dimenticare un fatto elementare che peraltro anche la più prosaica delle evidenze conferma: lo sviluppo del capitalismo può avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi (*).

Il drammatico crollo dei mercati azionari di ieri, preannunciato nei giorni e settimane precedenti da sinistri scricchiolii, quasi tutti originatisi in Cina, segna la sconfitta epocale della tecnocrazia monopartitica di Pechino, sin qui considerata quasi onnisciente.

Alla stregua di Phastdio si potrebbe dire che il drammatico crollo dei mercati azionari del 2008 segnava la sconfitta epocale dell’oligarchia finanziaria statunitense, o cose del genere.

Secondo questo punto di vista, la crisi più che un fatto economico verrebbe da dire che è il risultato di un certo assetto politico e della sua dottrina economica, come se le contraddizioni da cui muove il capitalismo, compreso ovviamente quello cinese, potessero essere regolate sulla scorta di più o meno accorte manovre monetarie.

Dai francobolli ai derivati


Ogni qualvolta crollano gli indici borsistici, dopo essere stati gonfiati a dismisura per mesi e anzi per anni, scoppia il panico. Per rappresentarci la situazione, i giornali pubblicano foto di operatori di borsa disperati, stralunati, increduli e perfino a mani giunte invocanti un miracolo. Eppure se sono molti a perdere interessi e capitale, altri hanno guadagnato assai. Dove sono finiti dunque quei soldi? A chi dovesse rispondere esattamente invierò in premio due caramelle alla menta da ciucciare lentamente.

 Ciò che meraviglia è questa messa in scena della meraviglia stessa, lo stupore come fossimo di fronte a un fenomeno imprevisto e imprevedibile. Eppure la Borsa, nella sua essenza, funziona come una catena di sant’Antonio. Se poi vi stanno in culo i santi basta richiamare lo schema Ponzi. Questi, italiano trasferitosi in America, aveva cominciato le sue operazioni sfruttando i tassi di cambio. Non delle monete ma sul prezzo dei francobolli! Un geniale mascalzone, senz’altro. Se poi avete inclinazioni anglofone, potete chiamarlo schema Madoff. In buona sostanza si tratta della stessa puzza: francobolli, bulbi di tulipano, azioni e obbligazioni. Quello che conta non è il valore, ma il prezzo.

La pseudo-scienza economica, accademica e pubblicistica, non ha alcun interesse a fare chiarezza tra questi due concetti, valore e prezzo, e la loro concreta formazione e dinamica, del resto come per tutte le altre categorie economiche. Non è casuale che vi sia più chiarezza e trasparenza nella cabala che nell’economia.

lunedì 24 agosto 2015

Poi si vedrà per le altre


Piove. Gli alberghi e i buchi in affitto immagino siano pieni; le pizzerie e ristoranti lo saranno tra poco. Si coglieranno commenti contrastanti, ilari o preoccupati: la Juve ha perso in casa. I bimbi sono contenti sulle giostrine, i più grandicelli rompono le balle ai babbi, le mamme sognano a prezzo pieno davanti alle vetrine allestite autunno-inverno. Ancora qualche giorno, al massimo un paio di settimane, e questo circo chiuderà per fine stagione, con tanti saluti al mare e all’ombrellone (si perdoni la rima). Gli schiavi dopo gli svaghi torneranno sotto la cura del proprio bastone, a quel lavoro del cazzo cui seguirà il “tempo libero”.

Si tornerà a chiacchierare di pensioni, di quarta settimana, di scuola, di crollo delle Borse, di quanto sono gialli i cinesi, di governo in bilico ed ectoplasmi parlamentari. Cacciari dalla Gruber dirà, trattenendo una risata a stento, di aver previsto tutto negli anni Sessanta. Seminerio scriverà, in tal caso senza traccia d’ironia, che le contraddizioni del capitalismo sono un problema di giusti equilibri, insomma di buona amministrazione. Tout se tient, sentenzierò annoiando a mia volta la solita dozzina di lettori.

domenica 23 agosto 2015

I veri e semplici cittadini interessati siamo noi


In margine all'appello a supporto del governo di “semplici cittadini interessati alle sorti dal Paese”, pubblicato ieri dal Corriere della sera, e contrariamente ai canoni comunicativi della cosiddetta “piramide rovesciata”, prendo il discorso alla larga, parlando d’informazione. Per una volta non della solita televisione, bensì di quella che un tempo – e oggi sempre meno  – si chiamava “carta stampata”.

*

Quale grado di autonomia può avere un quotidiano, ossia a chi risponde? Alla proprietà, non c’è dubbio, essendo quella editoriale, dal punto di vista economico, un’attività industriale come un’altra (*). Sennonché l’informazione incide in modo decisivo nella formazione della cosiddetta opinione pubblica, e dunque è chiaro il motivo politico sul perché un’attività economica con bilanci perennemente in rosso interessi tanto i capitani coraggiosi dell’imprenditoria e della finanza, ma anche, per fare un esempio di rilievo, la Chiesa cattolica e altri gruppi di potere e di pressione.

L’informazione è un ganglio vitale di questo sistema dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (Luciano Canfora, La democrazia, p. 331).

sabato 22 agosto 2015

Il dubbio di Amleto


“... o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli.”

Siamo imbrigliati nell’appassionante dibattito sui funerali kitsch di uno dei tanti benefattori del made in Italy per dare troppo peso alle stragi di civili e alla distruzione di memorie storiche nel vicino oriente, così come l’ammazzamento nel Mediterraneo di migliaia di uomini, donne e bambini fa meno notizia dell’apertura del campionato di calcio. Siamo tutti come dei sonnambuli.

A cominciare dall’ONU la cui azione politicamente non ha rilievo, e interviene con la sua agenzia per i rifugiati e cioè solo dal lato dell’assistenza. Vorrei sapere quanti dei bagnati in spiaggia ma anche dei deputati del parlamento saprebbero di primo acchito indicare – senza chiedere l’aiutino – il nome esatto dell’attuale segretario delle Nazioni Unite.

Proprio l’ONU segnala che ci sono più rifugiati nel mondo oggi che in qualsiasi altro periodo del dopoguerra. Il numero è impressionante: si contano quasi 60 milioni di persone sfollate con la forza. Si tratta di quasi tre volte il numero registrato appena un decennio prima. Su scala globale, ogni 122 persone c’è un rifugiato o in cerca di asilo. La maggioranza (51 per cento) dei rifugiati sono sotto i 18 anni.

venerdì 21 agosto 2015

Le lancette


Si prenda il caso di un paese povero, ma anche non poverissimo e però con diversi e notori problemi di natura strutturale e di atteggiamento levantino della sua classe dominante. Facciamolo entrare in un’unione economica e monetaria dove i rapporti di scambio con le economie dei paesi più forti dell’unione siano molto sbilanciati, e dove la valuta di riferimento – con la quale avvengono ovviamente tutti i pagamenti – sia sostanzialmente quella del paese più forte.

Si concedano a tale paese cospicui crediti – tramite le banche e operatori privati dei paesi più forti dell’unione – per acquistare merci d’importazione, quali automobili, carri armati, caramelle e tutto ciò che si può desiderare, mettendo peraltro in ginocchio, schiacciati dalla concorrenza, quei pochi settori merceologici che quello stesso povero paese fino allora poteva vantare, per esempio per quanto riguarda l’artigianato, la pesca e finanche quel poco di agricoltura.

Dopo un po’ di anni, i crediti concessi a questo disgraziato paese – che per l’innanzi hanno reso ottimi interessi alle banche creditrici e funto da volano alle esportazioni dei paesi forti, permesso alla borghesia locale di prosperare e d’illudere un popolo, e di decantare sui media del continente le magnifiche e progressive sorti di quel paese già povero – paiono sempre più inesigibili.

giovedì 20 agosto 2015

L'insolubile crisi, le solite cose


Sette anni dopo il crollo di Wall Street, lontani dall’aver recuperato i livelli produttivi ed occupazionali precedenti, stanno crescendo i segnali di una nuova depressione con raffreddamento delle esportazioni e bassi consumi, caduta dei listini borsistici e crollo dei prezzi delle materie prime. Il tutto nel quadro di una guerra dei cambi, di pressioni deflazionistiche e nel mentre le banche centrali immettono quantità enormi di liquidità acquistando della semplice spazzatura.

C’è una gara ad indovinare dove avrà luogo l’innesco del prossimo tracollo finanziario, e la mitica Cina e le cosiddette economie “emergenti” sono indicati come i candidati più probabili. Dalla Cina arrivano notizie quotidiane sui suoi affanni, e Pechino ha dato garanzie verbali che cerca solo una correzione modesta nel suo tasso di cambio. Vedremo.

Per quanto riguarda le economie emergenti di America Latina, Europa dell'Est, Asia e Africa, esse si trovano ad affrontare enormi deflussi di capitale dai loro mercati azionari e obbligazionari, il precipitare delle valute, e per converso vedono aumentare i loro oneri di debito aggravati dal rialzo del dollaro e dal crollo del prezzo delle materie prime.

Dal canto loro Europa e Giappone sono impantanati in una recessione di cui non si vede fine, anzi, le previsioni di crescita saranno presto smentite dai fatti. Quanto al “recupero” degli Stati Uniti, a guardar bene i numeri (il crollo delle vendite di Wal-Mart mi pare eloquente), si sta dimostrando di essere al tempo stesso fragile e chimerico. Pertanto nessuno può far nulla per evitare il nuovo incendio e per impedire che si propaghi a livello globale. Per quanto riguarda l’economia capitalistica sono ancora gli dèi a decidere.

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mercoledì 19 agosto 2015

Prosecco, speck e scorreggia libera.


Possiamo ben immaginare Renzi Matteo al telefono supplice di una visita della Merkel all’Expo. Almeno per qualche foto insieme, mentre trincano Prosecco e ingollano speck. Il tempo di caricare viveri di conforto nel cofano della mercedes che la riaccompagna all’aeroporto. Al resto ha pensato l’ufficio stampa di Palazzo Chigi. Viene così in luce, alla lettura dei giornali, che la Merkel avrebbe dichiarato solennemente di tutto e di più. Sulla stampa tedesca non ha rilievo la toccata e fuga milanese della cancelliera. In realtà la Merkel si è limitata a due sole parole intercalate da una virgola pronunciate a bocca piena: “Ja, gut”.

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Una terza opzione non c’è


Bisogna essere in totale malafede – oppure dei cretini – per non capire con quanta malafede la Germania abbia agito in questi tre lustri in Europa. Già in epoca non ancora troppo sospetta, ossia all’inizio del 2010, elencai, anche se solo per un determinato settore merceologico, cioè quello della fornitura di armamenti, il gioco sporco della Germania verso la Grecia. E ciò che vale per questa specifica ragione di scambio vale anche per tutto il resto e per tutti i paesi europei verso i quali, forte della sua struttura economica, la Germania realizza una non piccola parte del suo enorme surplus.

In sintesi, la Germania sapeva bene quello che faceva, ossia forniva corda e sapone all’impiccato. Lo sapevano benissimo le banche tedesche attraverso le quali fu erogato il credito che un piccolo e povero paese come la Grecia non avrebbe, già nel breve periodo, potuto onorare a fronte di acquisti cervellotici. E lo sapeva anche la Francia, se è per questo.


martedì 18 agosto 2015

Al cubo


Un tempo quando si diceva che il mondo è impazzito era un modo per significare che l’ordine delle cose veniva scosso nei suoi tradizionali fondamenti e consolidate abitudini a causa dalle più varie e in certi casi discutibili innovazioni. Poi pensava il senso pratico ed estetico a far selezione delle novità, e dunque si faceva l’abitudine a ciò che in un primo momento era parso così strano ed insolito. Una volta assimilata, la novità attendeva a sua vota di essere superata e sostituita da altra “stranezza” ancora. È anche per tali motivi che dapprima abbiamo lasciato le caverne e poi non indossiamo più le sottogonne di crinolina.

A riguardo dell’abbigliamento, pensiamo ai maglioni a girocollo che sostituirono massicciamente le camicie. Ebbene furono una novità soprattutto negli anni 1960-'70, e oggi un capo di vestiario simile lo parta quasi esclusivamente – e forse non a caso – un noto farmacologo. Nelle spiagge, ricordiamo come il bikini fu percepito all’inizio quale azzardo, ma vedere oggi un costume a pezzo intero è quasi una rarità. Per non dire dei cappotti, largamente sostituiti dai piumini, e non troppo frequente è anche l’uso della gonna. Eccetera.

lunedì 17 agosto 2015

Aveva ragione Stalin


Anche se non ce ne rendiamo sempre conto, quando guardiamo la tv o leggiamo un giornale, c'è in questo semplice e quotidiano atto uno squilibrio di potere immediato, nel senso che telespettatori e lettori non sono in grado di verificare ciò che viene detto e scritto, tanto più se il loro atteggiamento è passivo e acritico rispetto alle notizie. Sul peso che esse hanno o possono avere nella formazione della cosiddetta opinione pubblica, ossia sul giudizio che viene a formarsi rispetto a un certo fatto, mi pare non sia il caso d’insistere. Né abbiamo esatta cognizione su come viene selezionato il flusso di informazioni, né su chi controlla le nostre comunicazioni.

Per quanto riguarda le notizie sui temi economici non siamo messi meglio di quelle che riguardano la politica estera, sulla quale abbiamo in generale un atteggiamento che definire asettico, rispetto alle notizie di casa nostra, è un eufemismo. E tuttavia nessuno potrebbe negare il flusso massiccio di notizie economiche che quotidianamente ci sommergono. E con esse i dati su questo e quello. Tuttavia è sulla qualità e la correlazione di quelle notizie che bisognerebbe indagare, per non dire poi dei fin troppi interessati e sempre “autorevoli” commenti che le accompagnano.

domenica 16 agosto 2015

Manager da spiaggia


Questa mattina s’apriva uno squarcio tra le nubi, ad est, per cui si poteva stare al sole. Le nubi però non si sono mai diradate del tutto e a mezzogiorno è caduta qualche goccia. Sennonché tra la battigia e il mio ombrellone s’è piazzato, di buonora, un tipo con la testa rasata e oblunga, in bermuda a fioroni, con le cuffie ficcate negli orecchi e il suo smartphone. Per un’oretta ci ha tenuto compagnia con un flusso ininterrotto di notizie su amministratori, banche, fidi, tassi, somme rotonde, spese per le pulizie e consulenti. Non si sa naturalmente con chi parlasse e se effettivamente fosse in comunicazione con qualcuno. Nemmeno con l’iPod a tutto volume si riusciva ad attutire la fastidiosa logorrea punteggiata di anglismi, alcuni d'improbabile attinenza.

A sentirlo (e non potevi evitarlo) sembrava proprio uno dei tanti manager che dormono poco, si svegliano presto e portano il peso dell’umanità sulle proprie spalle, salvo venire a spiaggiarsi in riva all’Adriatico frequentato da proletari sempre meno agiati e piccoli evasori esagitati. Finalmente è arrivata sua moglie, con una bandana gypsy, piazzandosi solo due ombrelloni più in là. La diretta telefonica del manager ha avuto subito termine con un lapidario: “Ci sentiamo, ciao”. Dopo di che la recita teatrale, su altri argomenti, è ricominciata trovando una spalla nei vicini d’ombrellone.

L'inviata del TG3 e l'operaio dell'Elettrolux


La nota multinazionale Kraft, quella delle sottilette per intenderci, s’è fusa con il colosso americano Heinz Co, poco noto qui da noi ma un’istituzione nelle tavole degli americani. E subito sono stati annunciati 2500 licenziamenti nel Nord America. L’affare è stato orchestrato da Warren Buffett Berkshire Hathaway.

Il produttore di computer cinese Lenovo ha annunciato 3200 licenziamenti concentrati alla Motorola Mobility, società già acquisita da Google e ora ceduta a Lenovo. A sua volta Motorola Mobility ha annunciato 5000 licenziamenti nella sua sede centrale di Libertyville (Chicago). Altri trecento dipendenti perderanno il posto di lavoro con la chiusura della filiale della società a Plantation, Florida. Avranno più tempo per godersi il clima e la spiaggia.

Il produttore di smartphone HTC ha annunciato che tagliarà 2250 posti di lavoro, ossia il 15 per cento della sua forza lavoro globale, entro la fine dell'anno. L'azienda sta cercando di tagliare i costi del 35 per cento. Non gli stipendi dei massimi dirigenti però.

sabato 15 agosto 2015

Buon ferragosto, schiavi


Dichiara la ministra Lorenzin da poco mamma di due gemelli:

Il tema della denatalità va visto come questione culturale, sociale ed economica. Un Paese come il nostro con una media di 1,3 figli per donna rischia uno svuotamento che già tra vent'anni non ci permetterà di affrontare il welfare. Bisogna prendere consapevolezza del problema e cominciare ad affrontarlo in modo concreto …

Troppo tardi. Questo problema andava affrontato, per le incombenze di rito, molti anni or sono, almeno due o tre decadi indietro. E tuttavia non sarà seriamente affrontato né oggi e nemmeno domani. La Lorenzin questo problema non lo avverte di suo, avrà la colf e la bambinaia, e del resto lei non conta un cazzo e la sua “consapevolezza” vale quanto un condom bucato.

Come ogni altro problema, anche questo andrebbe affrontato da un punto di vista scientifico, incominciando col dire – citando Marx – che una legge demografica astratta esiste soltanto per piante e animali, ma per quanto riguarda la società umana non esiste una presunta “legge naturale” della popolazione. È la domanda di lavoro, in ultima analisi, che determina l’incremento o la diminuzione della popolazione “operosa”.


venerdì 14 agosto 2015

L'estasy per i momenti di crisi politica


Alla vigilia di ferragosto cosa c’è di meglio di un trip come questo, sull’astensionismo elettorale di oltre ottant’anni fa? Roba che l’“ecstasy killer” passa per monacolina.

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La grande affermazione elettorale della formazione völkisch di Hitler, nelle elezioni anticipate improvvidamente convocate il 14 settembre 1930 da Heinrich Bruning nella speranza di ottenere un parlamento più malleabile, fu possibile grazie a una combinazione di eventi tra i quali la diminuzione degli astenuti non ebbe un ruolo marginale. Infatti, nel 1928 aveva partecipato al voto il 75,6 degli iscritti nelle liste, mentre nel 1930 i votanti furono l’81,9 per cento, cioè quasi due milioni e mezzo di votanti in più. Inoltre il corpo elettorale dal 1928 al 1930 crebbe di 2.700.000 unità, ossia giovani che votavano per la prima volta.

giovedì 13 agosto 2015

Nella condizione che conosciamo bene


Il Fondatore di Repubblica risponde al Fustigatore di Solgenitsyn "soprattutto per ringraziarlo per le parole di amicizia e di stima, che contraccambia con identici sentimenti", il quale a sua volta aveva risposto al Fondatore "in uno sforzo di dialogo, nuovo segno della loro amicizia". La forma ha la sua importanza, nonostante i tempi e anzi in ragione di questi. E che a occuparsi a tutta pagina di certi temi siano dei nonagenari, non privi d’influenza, è pure un segno dei tempi.

Infatti, uno dei due parla di legge elettorale Acerbo, che fu applicata per la prima e ultima volta il 6 aprile 1924, ossia esattamente il giorno stesso in cui egli nacque. L’altro, ebbe ad affermare che “il GUF era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste”. E che un’articolazione del Partito Nazionale Fascista, cui si aderiva provenendo dalla Gioventù italiana del littorio, fosse un “vivaio antifascista”, pur vestendo orgogliosi, come il Fondatore e il Fustigatore, la divisa con i pantaloni a sbuffo alto e la camicia nera, è cosa diventata di senso comune, soprattutto dal dopoguerra.

mercoledì 12 agosto 2015

Come se l'autore ...


“[…] come se l’autore avesse improvvisamente cessato
di aver fiducia nell’intelligenza e nella pazienza del lettore.”

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Prima che la notizia la divulghi Renzi con un suo hashtag contro il decadentismo che non aiuta la “crescita”, segnalo che oggi cade il 60° anniversario della morte di Thomas Mann.

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“Quando nel 1901 apparvero I Buddenbrook [Verfall einer Familie: Decadenza di una famiglia], l’aristocrazia mercantile era ben lungi dal prevedere il suo rapido declino, credeva forse di avere altri settecento anni davanti a sé”. Così scriveva Cesare Cases nell’Introduzione al romanzo di Mann. Qualche pagina dopo: “Nulla permette di supporre che l’autore di questo libro creda nella fine dei valori borghesi, nemmeno in una fine di fatto, e non di diritto, a opera degli Hagenström”, cioè dei nuovi padroni del civico numero 4 della Mengstraße.

Si deve credere, come già ebbe a suggerire Giuseppe Tomasi, che il processo storico proceda come “una lenta sostituzione di ceti” che infine lascia “tutto com’è”? La ragione profonda non è analizzata e viene colta solo in superficie. Fu già Marx a porla in chiaro con una riflessione su cui anche troppi marxisti o sedicenti tali hanno fatto finta di nulla:

[…] in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone […].

Per converso di una nuova distribuzione del potere. Sempre nell’Ideologia tedesca, nel secondo capitolo, scrive:

Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi […].


martedì 11 agosto 2015

Terra incognita


Non si sa se ridere o disperarsi quando, con cadenza mensile, vengono commentati i dati sulla trasformazione dei contratti che vedono aumentare quelli a tempo indeterminato. Il contratto a tempo indeterminato, di fatto, non esiste più, nemmeno per i vecchi contratti. Il licenziamento senza reintegro diventa possibile per la totalità dei dipendenti nelle aziende quando queste, dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, salgono sopra la quota dei 15 dipendenti (comma 3 dell’articolo 1 del decreto 23/2015 attuativo del Jobs Act). Negli altri casi, laddove le nuove assunzioni non comportino il superamento della soglia dei 15 dipendenti, avviene la stessa cosa, ossia non c’è mai reintegro in caso di licenziamento, salvo il giudice stabilisca che il licenziamento è discriminatorio (articolo 9, comma 1, del decreto 23/2015). Non solo, il nuovo contratto prevede un indennizzo più basso per le imprese sotto i 15 dipendenti in caso di licenziamento illegittimo. In buona sostanza in un modo o nell’altro possono licenziare a prescindere dal tipo di contratto e liquidare il lavoratore licenziato illegittimamente  (!!) con poche migliaia di euro.

Tutto ciò per effetto di una legge voluta e approvata dal Partito democratico, sia dalla sua componente maggioritaria e sia dai cosiddetti “dissidenti”. E ciò la dice lunga su tante cose che riguardano la società italiana, e non solo sulla natura di quel partito.

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domenica 9 agosto 2015

Peppone e le vacanze proletarie


A Luigi, che ha la pazienza di chi legge fino in fondo.

Questa è l’epoca della sovrabbondanza. Non per tutti, sappiamo. Ed è anche l’epoca della sovrabbondanza di significati. Ogni oggetto della nostra riflessione è sovraccaricato d’interpretazioni. E fin troppo spesso accade di doverci occupare più delle innumerevoli interpretazioni degli interpreti che non delle cose stesse.

Se chiedessimo a delle persone, anche selezionate e inclini a un atteggiamento diacronico, di spiegare in che cosa consista la “dittatura del proletariato”, tema peraltro improbabile anche in stagioni meno afose di questa, riceveremmo giudizi connotati di forte negatività se non altro perché il termine “dittatura” evoca spontanea idiosincrasia. E però non ci si aspetti, quanto al concetto nella sua determinazione propriamente teorica, di raccogliere chissà quali cogenti risposte.

È difficile revocare in dubbio l’idea, davvero coriacea, che la nostra società occidentale non sia esattamente quale essa ama rappresentarsi, ossia un ordinamento improntato a sostanziale libertà e retto con i crismi della democrazia. Del resto, chi potrebbe negare che non siano tutelati i diritti fondamentali dell’uomo? Nessun uomo può metterne in catene un altro se non per motivi di legge, né può costringerlo a qualsiasi cosa contro la sua volontà.

E tuttavia per costringere un uomo a sottomettersi alla volontà di un altro non servono né la violenza esplicita e tantomeno le catene. È paradossale ma questa è una grande conquista, non solo sul piano delle libertà formali, che distingue la nostra società da quelle del passato. Nessuno ci frusta o ci bastona per costringerci a lavorare. Lo facciamo di nostra sponte, sospinti da quella leggera brezza che chiamiamo “bisogno”, cioè per motivi di sopravvivenza.

Mentre il lavoro dello schiavo e del servo antichi è percepito d’emblée per ciò che rappresenta nella sua forma esplicita di sottomissione a un proprietario, la vendita del lavoro al capitale appare come un atto libero e volontario, come uno scambio alla pari tra un venditore e un acquirente. Per contrasto viene l’idea che il lavoro salariato, la vendita del lavoro al capitale, sia una forma esteriore alla produzione capitalistica. Una forma destinata a durare eternamente.

Di questo sistema noi accettiamo la lingua e le sue leggi, e però non appena analizziamo approfonditamente le leggi sulle quali poggia, scopriamo un mondo che non immaginavamo, non almeno in tali termini. Se prendiamo in considerazione la separazione tra capitale e lavoro, dunque la divisione del lavoro stessa, il concetto di scambio e di concorrenza, ci accorgiamo che le cose stanno effettivamente in tutt’altro modo da come comunemente si prospettano.

Pur valendosi dalla stessa lingua, quella dell’economia politica, Marx ha mostrato come l’operaio decada a merce, come questa merce venga sfruttata dal capitale e come la miseria dell’operaio stia in rapporto inverso con la potenza e la qualità della sua produzione, e infine come il risultato di questo modo di produzione sia l’accumulazione in poche mani di gran parte della ricchezza sociale (*).

Non è casuale che gli economisti, i quali decantano il ruolo magnifico e progressivo della proprietà privata, non spieghino affatto in che cosa esattamente consista il capitalismo se non mistificandolo per ciò che non è. Nelle loro formule generali palesano l’aspetto materiale, ma non colgono le leggi del processo nello svolgimento della loro necessità. Non perché siano tutti degli stupidi, benché a riguardo della stupidità di taluni si resti basiti, ma a motivo della loro posizione di classe.

Quando mai un economista si prenderà la briga di dirci qual è il fondamento dell’antagonismo tra capitale e lavoro? Abbiamo sentito dire da un qualsiasi di costoro che tale antagonismo poggia sullo sfruttamento dell’operaio? Ci raccontano dell’importanza che ha la produttività in rapporto al profitto, di come l’interesse del capitalista sia la ragione suprema, fatta passare per interesse dell’operaio e dell’intera società, e con ciò l’economista presuppone invece di spiegare e dimostrare.

*

Lo Stato, ossia la forma di governo della società, ha subìto storicamente diversi stadi di sviluppo e di trasformazione, e tuttavia non servono poderosi studi per dire che cos’è essenzialmente: è il risultato dalla separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione; dalla divisione sociale del lavoro, dalla separazione del lavoro manuale da quello intellettuale, dalla ineguale distribuzione di fatiche e privilegi, come intrinseca necessità della riproduzione di queste stesse condizioni.

Le sue metamorfosi vanno lette in relazione al movimento contraddittorio della proprietà e alle varie fasi di sviluppo che essa ha attraversato. E ciò vale anche per l’epoca in cui domina il capitale nelle sue proprie determinazioni, dalla concorrenza pura al monopolio, e da questo all’attuale capitale monopolistico multinazionale (**). Oggi lo Stato e gli ordinamenti interstatali sono i garanti dei rapporti fondamentali di sfruttamento e alienazione entro la morsa regolatrice imposta dal movimento del plusvalore relativo (cioè la tendenza al massimo sfruttamento).

Chiaro che per la borghesia lo Stato rappresenti il “suo” Stato, pur nel carattere conflittuale di tale rapporto (lo possiamo ben scorgere nella questione fiscale), mentre per il proletariato il rapporto si presenta diversamente. Qui la questione si complica perché viene introdotto un concetto apparentemente neutro, quello di “società civile”, che meriterebbe ben più ampia riflessione. Senza dover ripercorrerne la storia, che si dipana dal filosofo tedesco August Ludwig von Schlözer e poi passa per Hegel, è essenziale ricordare il rovesciamento di modellizzazione che di tale concetto ne fece Marx a partire dall’Ideologia tedesca.

Per Marx diventa chiaro che la “bürgerliche Gesellschaft” non è altro che la “forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi”, “teatro di ogni storia” e che in tutti i tempi costituisce la base dello Stato e di ogni sovrastruttura idealistica, “comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive”.

Dice dunque Marx che alla base delle formazioni sociali sta l’attività complessa di produzione della vita; che quest’attività è multilaterale e storicamente determinata; che nel suo svolgersi gli individui concreti entrano tra loro in rapporti dotati di un’oggettività materiale, e con ciò si costituiscono in classi sociali; che tali rapporti, in relazione al movimento espansivo delle forze produttive, sono costretti a ridefinirsi perennemente; sicché giunge sempre un momento nel processo storico in cui la loro interna contraddizione esplode in un rivolgimento rivoluzionario “assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, lotta politica, ecc”.

Dunque Marx avanza la tesi scientifica fondamentale alla base del materialismo storico: l’automovimento di una formazione sociale è, in ultima istanza, determinato dallo sviluppo delle forze produttive nel loro rapporto dialettico di unità e di lotta con i rapporti di produzione e di scambio. Più precisamente la relazione tra base economica e Stato viene rischiarata nella sua genesi, cioè a partire dalla divisione del lavoro: “con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come ‘universale’, ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso”.

Questa “scissione fra interesse particolare e interesse comune”, questo “antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo”, è scissione-antagonismo tra interessi di classi sociali diverse, delle quali una domina tutte le altre, ed è all’origine del fatto che “l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria”.

Lo Stato come comunità illusoria o come surrogato di comunità è, dunque, per Marx, l’organizzazione che le classi dominanti si sono date per difendere i loro privilegi particolari, i loro particolari interessi, rappresentati come generali, universali, come “interesse generale illusorio sotto forma di Stato”.

*

In generale il criterio fondamentale che distingue le classi è il posto che gli individui che le costituiscono occupano nella produzione sociale e in conseguenza del loro rapporto con i mezzi della produzione (***). La caratteristica fondamentale che distingue, nella società moderna la classe dei proprietari (la borghesia) dal proletariato è data dal fatto che quest’ultimo è privo dei mezzi di produzione e per vivere deve vendere la propria forza-lavoro.

Per girare intorno a questa semplice verità e imbrogliare le carte si escogitano le più incredibili e fantasmagoriche formulazioni “sociologiche”. Non c’è differenza sostanziale nel rapporto tra le classi dei proprietari e quella dei produttori sia nell’antico e sia nel moderno, se non per il fatto, come osservava Marx, che «Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).

Pertanto, la proprietà sui mezzi della produzione, in quanto potere di governo sul lavoro e sui suoi prodotti, diventa il vero Principe della situazione. Il capitalista – osserva Marx nei Manoscritti – possiede questo potere non in virtù di qualità personali o umane, ma poiché è proprietario del capitale. Il potere d'acquisto del suo capitale, che nulla può contrastare, è il suo potere.

*

Dunque, la questione si arricchisce (o si complica, secondo i gusti) ulteriormente se si tiene conto delle determinazioni contraddittorie dei rapporti di classe, degli interessi antagonistici tra le classi, e della determinazione di “comunità illusoria”:

“La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena”.

Per spezzare questa catena è necessario conquistare il potere politico. Chiaro che nella situazione in cui veniamo a trovarci la conquista del potere politico per via elettorale è impossibile. Non solo perché i meccanismi elettorali sono sotto il controllo della borghesia, ma soprattutto perché la conquista del potere politico non è semplicemente l’entrare nella “stanza dei bottoni”, poiché quei “bottoni” sono già programmati per scopi in definitiva sempre riconducibili al mantenimento e alla riproduzione dello stato di cose vigente.

Senza sovvertire le basi economiche su cui poggia l'esistenza delle classi e quindi il dominio di classe, si resterà sempre nella solita merda! In ciò Marx era stato chiarissimo, laddove nel Manifesto del partito comunista scriveva: “[…] la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi fini”.

Alla luce dell’esperienza rivoluzionaria della Comune del 1871, scrive:

“Non fu dunque una rivoluzione contro questa o quella forma di potere di Stato, legittimista, costituzionale, repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo aborto soprannaturale della società; fu la riappropriazione del popolo e per il popolo della propria vita sociale” (La guerra civile in Francia, Primo abbozzo di redazione).

E qui fa capolino, per farla assai breve, il concetto di dittatura rivoluzionaria del proletariato (questa la dizione completa, signore e signori). Nella Critica al programma di Gotha, Marx scrive:

“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.

Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”.

Questo passaggio, di portata storica epocale, non potrà essere immediato, ma sarà necessario un periodo di transizione in cui vi sarà lotta contro le resistenze della vecchia classe dominante. Non una dittatura pura e semplice, statica e conservativa del potere, bensì una dittatura rivoluzionaria che ha lo scopo di eliminare i presupposti economici e sociali su cui fonda la divisione in classi e con essa lo Stato inteso, per dirla in modo semplificato, come organizzazione del dominio di una classe sulle altre. Il comunismo non potrà porsi a livello di Stato ma di società.

Lo stesso concetto era stato espresso molti anni prima sulla Neue Rheinische Zeitung, in una serie di articoli dedicati all’insurrezione di Berlino del 1848:

“Ogni stato di cose provvisorio dopo una rivoluzione esige una dittatura e una dittatura energica. Fin dall’inizio abbiamo rimproverato a Camphausen di non aver agito da dittatore, di non aver immediatamente abbattuti ed eliminati i resti delle vecchie istituzioni. Così, mentre Camphausen si cullava in sogni costituzionali, il partito vinto rafforzava le posizioni nella burocrazia e nell’esercito, anzi, qua e là, osava persino la lotta aperta” (****).

Come si vede, Marx rimprovera al primo ministro renano, il liberale Camphausen, di non aver agito come in ogni rivoluzione borghese, ossia di non aver instaurato un’energica dittatura per sbarazzarsi delle vecchie istituzioni feudali e aristocratiche. Basti ricordare che se la Rivoluzione dell’Ottantanove non avesse imposto la propria dittatura, l’ancien régime non si sarebbe certamente fatto da parte spontaneamente.

Il 5 marzo 1852, scrivendo a Weydemeyer, Marx precisava che la dittatura del proletariato è l’esito necessario della lotta di classe:

"Per quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna, né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto l’evoluzione storica di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1. che l'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta delle classi necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi (*****).

Dal punto di vista delle dinamiche dello sviluppo capitalistico, connesse segnatamente allo sviluppo della tecnologia e alla sempre maggiore sostituzione del lavoro vivo con lavoro passato, e dunque nell’ambito della tendenza divaricantesi della contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, Marx dimostra la necessità e con essa la possibilità di questa trasformazione (tema che ho già trattato in altri post).

Pertanto la dittatura rivoluzionaria del proletariato, come già in passato quella borghese, non è figlia di una teoria ma della necessità e delle condizioni storiche che la promuovono. Lenin in Stato e Rivoluzione sintetizza bene:

“In Marx non vi è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall'antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra”.

Contro ogni fumisteria riformistica borghese Lenin è molto chiaro:

“Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo-borghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo(il grassetto è mio).

Aveva un bel dire Marx che chi “vede nella repubblica democratica il regno millenario e non si immagina nemmeno che appunto in questa ultima forma statale della società borghese si deve decidere definitivamente con le armi la lotta di classe”. Noi oggi vediamo in quale cul de sac sia precipitato questo povero mondo retto da dinamiche divenute irrazionali e distruttive, in quale indecisa contraddizione sia piombata la grande classe degli schiavi, di come non sappia risolversi tra il suo compito storico di liberazione e le mille seduzioni con le quali in ogni momento viene accalappiata. Del resto, per educazione, tradizione, abitudine, riconosciamo come leggi naturali ovvie le esigenze di questo modo di produzione, obbedienti e perfino ossequiosi alle sue regole di sottomissione.

Godiamoci dunque queste spicciole giornate di ferie, di pausa tra un periodo e l’altro di lavoro e di totale alienazione, questo interludio di diversa distrazione e di consueto rimbambimento, tanto la nostra scelta l’abbiamo già fatta, o meglio, ce la servono pronta. E del resto quale pazzo metterebbe anche solo per un istante a rischio la propria situazione? Anche se, possiamo esserne certi, il prossimo futuro, sotto l’incalzare degli eventi, ci metterà sempre più in una condizione di cui già ora possiamo cogliere, se non si è troppo distratti, qualche corposa anticipazione.

*

Post scriptum

Dobbiamo dar retta a ciò che diceva Peppone nel film che sto ora ascoltando più che vedendo, ossia che “il socialismo porterà la libertà al proletariato oppresso”? Sarà per questa strada che procederà la Storia? Dipende. Nel Tardo Antico aspettavano la fine dei tempi, la cosiddetta “parusia”; noi del Tardo Capitalismo non abbiamo da aspettare che il periodo dei saldi.

Guareschi, che pure è stato uno scrittore di valore universale, mosso da uno struggimento di patetica superiorità morale, aveva una concezione assai ingenua del comunismo, e non gliene possiamo fare una colpa più di quanto si possa assolvere l’intellighenzia gaudente e sedicente comunista del tempo. Emerge in Guareschi, riletto (rivisto) oggi, l’incompatibilità di un’etica e di un costume superati. E che però rimpiangiamo lo stesso, in qualche modo. Perché siamo superati a nostra volta da un mondo impazzito che non riconosciamo più.

*

Seneca, scrivendo dei Germani nel De Providentia (IV-15), diceva: “Da loro l’inverno è perpetuo, un cielo fosco li opprime, il terreno infecondo produce appena di che sfamarsi, hanno tetti di paglia e di fronde per ripararsi dalle intemperie. E ti sembrano da compiangere? Non è infelice chi regola la propria esistenza in conformità alle leggi della natura”.

Essi soli sono veramente liberi, come avrà ad osservare, ben prima, Lucano nel Pharsalia: “La libertà s’è ritirata di là del Tigri, del Reno; è retaggio degli sciti e dei germani; ma sull’Italia [Ausoniam] non volge più lo sguardo …” .

Penseranno i cosiddetti barbari, colpiti da editti crudeli e da spoliazioni, genti forti e sventurate, a far quadrare i conti. Non era forse fondata la loro pretesa, il diritto di ereditare il potere, sulla degenerazione romana?

Non voglio annoiare oltre, buone vacanze.


(*) Dunque, lo dico a illuminazione di certi sciocchini: la miseria dell’operaio occidentale non va parametrata con il relativo benessere di oggi rispetto all’omologo di cento anni prima, né sulla quantità dei consumi e dei trastulli rispetto a quelli di un operaio bengalese.

(**) Non rientra negli scopi di questo post, pur avendo un rilievo importante, l’esposizione di alcune tesi sulle diverse forme di potere sia statuale che sovranazionale che caratterizza in questa fase il sistema imperialista delle multinazionali. In passato, per un certo periodo, è prevalsa l’idea che l’azione rivoluzionaria del proletariato poteva raggiungere il fine di conquistare il potere politico per poi distruggere lo Stato imperialista e istaurare la dittatura del proletariato, dunque per trasformare il modo di produzione capitalistico in modo di produzione comunista e la formazione sociale in una “comunità reale”. Tale concezione, pur non erronea nelle sue linee di principio e che ho condiviso, trova in questa fase storica una barriera nel livello raggiunto dalle contraddizioni sociali in rapporto alla coscienza delle masse e dunque nel livello di dominio e controllo delle opzioni.

(***) E non dunque e semplicisticamente se essi siano ricchi o poveri.

(****) MEOC, VII, articolo del 14 settembre 1848, p. 445. Ludolf Camphausen (1803-1890), banchiere di Colonia, uno  dei capi della borghesia liberale renana; nel 1847 membro della Dieta riunita; primo ministro prussiano (marzo-giugno 1848), ambasciatore di Prussia presso il potere centrale provvisorio (luglio 1848-aprile 1849).


(*****) Was ich neu tat, war: 1. nachzuweisen, dass die Existenz der Klassen bloß an bestimmte historische Entwicklungsphasen der Produktion gebunden ist; 2. dass der Klassenkampf notwendig zur Diktatur des Proletariats führt; 3. dass diese Diktatur selbst nur den Übergang zur Aufhebung aller Klassen und zur klassenlosen Gesellschaft bildet (MEW, 28, p. 507).

sabato 8 agosto 2015

[...]


Riconosco fondamentalmente due tipi di persone: quelle che stimo, e le altre. Tra quelle che stimo, vi sono le persone che stimo molto e quelle che stimo lo stesso. Tra le persone che si stimano molto non c’è bisogno di pensarla allo stesso modo su tutto. Però su alcune cose importanti, anche non dette, i sentimenti fanno esattamente lo stesso percorso. Su questo si fonda il rapporto di stima. Si stima, almeno per quanto mi riguarda, anzitutto e inscindibilmente l’intelligenza e l’onestà. Due qualità riconoscibili anche a distanza. Perciò si può voler bene e stimare persone che non si sono mai conosciute direttamente, appartenenti ad altre storie.

*


L’ultima persona che ho stimato molto tra quelle conosciute direttamente, l’ultima persona amica a me e alla mia famiglia, non c’è più da quasi trent’anni. Proprio di questi giorni caldi d’estate decideva che poteva bastare. Più volte in questi anni, rimproverandomi e straziandomi, ho pensato a che cosa avrei potuto fare per evitare ciò che è successo. Tuttavia dovevo, credo di non dirlo per assolvermi, rispettare la sua vita privata, non mettermi in mezzo a faccende troppo intime. Certe decisioni si prendono in solitudine e vanno rispettate.

venerdì 7 agosto 2015

Immobili


Possiamo pensare ciò che vogliamo, ma la realtà ci scavalca e ci lascia senza parole, senza fiato. Qui non si tratta solo della rottura di armonia con l’ambiente storico circostante, di un’irrazionalità dalle spiegazioni pseudo-pratiche, ma siamo in corrispondenza di una condizione sociale e ideologica ben precisa. Ciò significa essenzialmente che la società dominante, la putrescente società del capitale, ha saputo a tutti i livelli della realtà difendere e anzi promuovere la sua logica mercantile molto meglio di quelli che credevano di poterla controllare e indirizzare.

Siamo imbucati in una grande crisi, i segni ci sono tutti, abbondanti. Si tratta dell’esistente e delle sue diverse forme di accettazione. Non c’è più un luogo nel pianeta dove sia possibile esprimere le possibilità non solo di un cambiamento ma anche più semplicemente di conservare ciò che ci è stato trasmesso, poiché non esiste più un luogo dove prevalga la ragione sull’interesse privato più sordido e patologico. Siamo immobilizzati dentro questa merda e non ne veniamo più fuori.