domenica 9 agosto 2015

Peppone e le vacanze proletarie


A Luigi, che ha la pazienza di chi legge fino in fondo.

Questa è l’epoca della sovrabbondanza. Non per tutti, sappiamo. Ed è anche l’epoca della sovrabbondanza di significati. Ogni oggetto della nostra riflessione è sovraccaricato d’interpretazioni. E fin troppo spesso accade di doverci occupare più delle innumerevoli interpretazioni degli interpreti che non delle cose stesse.

Se chiedessimo a delle persone, anche selezionate e inclini a un atteggiamento diacronico, di spiegare in che cosa consista la “dittatura del proletariato”, tema peraltro improbabile anche in stagioni meno afose, riceveremmo giudizi connotati di forte negatività se non altro perché il termine “dittatura” evoca spontanea idiosincrasia. E però non ci si aspetti, quanto al concetto nella sua determinazione propriamente teorica, di raccogliere chissà quali cogenti risposte.

È difficile revocare in dubbio l’idea, davvero coriacea, che la nostra società occidentale non sia esattamente quale essa ama rappresentarsi, ossia un ordinamento improntato a sostanziale libertà e retto con i crismi della democrazia. Del resto, chi potrebbe negare che non siano tutelati i diritti fondamentali dell’uomo? Nessun uomo può metterne in catene un altro se non per motivi di legge, né può costringerlo a qualsiasi cosa contro la sua volontà.


E tuttavia per costringere un uomo a sottomettersi alla volontà di un altro non servono né la violenza esplicita e tantomeno le catene. È paradossale ma questa è una grande conquista, non solo sul piano delle libertà formali, che distingue la nostra società da quelle del passato. Nessuno ci frusta o ci bastona per costringerci a lavorare. Lo facciamo di nostra sponte, sospinti da quella leggiera brezza che chiamiamo “bisogno”, cioè per motivi di sopravvivenza.

Mentre il lavoro dello schiavo e del servo antichi è percepito d’emblée per ciò che rappresenta nella sua forma esplicita di sottomissione a un proprietario, la vendita del lavoro al capitale appare come un atto libero e volontario, come uno scambio alla pari tra un venditore e un acquirente. Per contrasto viene l’idea che il lavoro salariato, la vendita del lavoro al capitale, sia una forma esteriore alla produzione capitalistica. Una forma destinata a durare eternamente.

Di questo sistema noi accettiamo la lingua e le sue leggi, e però non appena analizziamo approfonditamente le leggi sulle quali poggia, scopriamo un mondo che non immaginavamo, non almeno in tali termini. Se prendiamo in considerazione la separazione tra capitale e lavoro, dunque la divisione del lavoro stessa, quindi il concetto di scambio e di concorrenza, ci accorgiamo che le cose stanno effettivamente in tutt’altro modo da come comunemente si prospettano.

Pur valendosi dalla stessa lingua, quella dell’economia politica, Marx ha mostrato come l’operaio decada a merce, come questa merce venga sfruttata dal capitale e come la miseria dell’operaio stia in rapporto inverso con la potenza e la qualità della sua produzione, e infine come il risultato di questo modo di produzione sia l’accumulazione in poche mani di gran parte della ricchezza sociale (*).

Non è casuale che gli economisti, i quali decantano il ruolo magnifico e progressivo della proprietà privata, non spieghino affatto in che cosa esattamente consista il capitalismo se non mistificandolo per ciò che non è. Nelle loro formule generali palesano l’aspetto materiale ma non colgono le leggi del processo nello svolgimento della loro necessità. Non perché siano tutti degli stupidi, benché contro la loro stupidità di taluni si resti disarmati, ma a motivo della loro posizione di classe.

Quando mai un economista borghese si prenderà la briga di dirci qual è il fondamento della divisione tra capitale e lavoro? Avete mai sentito dire da un qualsiasi di questi soloni che tale antagonismo poggia sullo sfruttamento dell’operaio? Ci raccontano dell’importanza che ha la produttività in rapporto col profitto del capitale, di come l’interesse del capitalista sia la ragione suprema, fatta passare per interesse dell’operaio e dell’intera società, e tuttavia l’economista presuppone ciò che invece dovrebbe spiegare e dimostrare.

*

Lo Stato, ossia la forma di governo della società, ha subìto storicamente diversi stadi di sviluppo e di trasformazione, e tuttavia non servono poderosi studi per dire che cos’è essenzialmente: è il risultato dalla separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione; dalla divisione sociale del lavoro, dalla separazione del lavoro manuale da quello intellettuale, dalla ineguale distribuzione di fatiche e privilegi, come intrinseca necessità della riproduzione di queste stesse condizioni.

Le sue metamorfosi vanno lette in relazione al movimento contraddittorio della proprietà e alle varie fasi di sviluppo che essa ha attraversato. E ciò vale anche per l’epoca in cui domina il capitale nelle sue proprie determinazioni, dalla concorrenza pura al monopolio, e da questo all’attuale capitale monopolistico multinazionale (**). Oggi lo Stato e gli ordinamenti interstatali sono i garanti dei rapporti fondamentali di sfruttamento e alienazione entro la morsa regolatrice imposta dal movimento del plusvalore relativo (cioè la tendenza al massimo sfruttamento).

Chiaro che per la borghesia lo Stato rappresenti il “suo” Stato, pur nel carattere conflittuale di tale rapporto (lo possiamo ben scorgere nella questione fiscale), mentre per il proletariato il rapporto si presenta diversamente. Qui la questione si complica perché viene introdotto un concetto apparentemente neutro, quello di “società civile”, che meriterebbe ben più ampia riflessione. Senza dover ripercorrerne la storia, che si dipana dal filosofo tedesco August Ludwig von Schlözer e poi passa per Hegel, è essenziale ricordare il rovesciamento di modellizzazione che di tale concetto ne fece Marx a partire dall’Ideologia tedesca.

Per Marx diventa chiaro che la “bürgerliche Gesellschaft” non è altro che la “forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi”, “teatro di ogni storia” e che in tutti i tempi costituisce la base dello Stato e di ogni sovrastruttura idealistica, “comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive”.

Dice dunque Marx che alla base delle formazioni sociali sta l’attività complessa di produzione della vita; che quest’attività è multilaterale e storicamente determinata; che nel suo svolgersi gli individui concreti entrano tra loro in rapporti di contraddizioni dotati di un’oggettività materiale e con ciò si costituiscono in classi sociali; che tali rapporti, in relazione al movimento espansivo delle forze produttive, sono costretti a ridefinirsi perennemente; sicché giunge sempre un momento nel processo storico in cui la loro interna contraddizione esplode in un rivolgimento rivoluzionario “assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, lotta politica, ecc”.

Dunque Marx avanza la tesi scientifica fondamentale alla base del materialismo storico: l’automovimento di una formazione sociale è, in ultima istanza, determinato dallo sviluppo delle forze produttive nel loro rapporto dialettico di unità e di lotta con i rapporti di produzione e di scambio. Più precisamente la relazione tra base economica e Stato viene rischiarata nella sua genesi, cioè a partire dalla divisione del lavoro: “con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come ‘universale’, ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso”.

Questa “scissione fra interesse particolare e interesse comune”, questo “antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo”, è scissione-antagonismo tra interessi di classi sociali diverse, delle quali una domina tutte le altre, ed è all’origine del fatto che “l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria”.

Lo Stato come comunità illusoria o come surrogato di comunità è, dunque, per Marx, l’organizzazione che le classi dominanti si sono date per difendere i loro privilegi particolari, i loro particolari interessi, rappresentati come generali, universali, come “interesse generale illusorio sotto forma di Stato”.

*

In generale il criterio fondamentale che distingue le classi è il posto che gli individui che le costituiscono occupano nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione (***). La caratteristica fondamentale che distingue, nella società moderna la classe dei proprietari (la borghesia) dal proletariato è data dal fatto che quest’ultimo è privo dei mezzi di produzione e per vivere deve vendere la propria forza-lavoro.

Per girare intorno a questa semplice verità e imbrogliare le carte si escogitano le più incredibili e fantasmagoriche formulazioni “sociologiche”. Non c’è differenza sostanziale nel rapporto tra le classi dei proprietari e quella dei produttori sia nell’antico e sia nel moderno, se non per il fatto, come osservava Marx, che «Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).

Pertanto, la proprietà sui mezzi della produzione, in quanto potere di governo sul lavoro e sui suoi prodotti, diventa il vero Principe della situazione. Il capitalista – osserva Marx nei Manoscritti – possiede questo potere non in virtù di qualità personali o umane, ma poiché è proprietario del capitale. Il potere d'acquisto del suo capitale, che nulla può contrastare, è il suo potere.

*

Dunque, la questione si arricchisce (o si complica, secondo i gusti) ulteriormente se si tiene conto delle determinazioni contraddittorie dei rapporti di classe, degli interessi antagonistici tra le classi, e della determinazione di “comunità illusoria”:

“La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena”.

Per spezzare questa catena è necessario conquistare il potere politico. Chiaro che nella situazione in cui veniamo a trovarci la conquista del potere politico per via elettorale è impossibile. Non solo perché i meccanismi elettorali sono sotto il controllo della borghesia, ma soprattutto perché la conquista del potere politico non è semplicemente l’entrare nella “stanza dei bottoni”, poiché quei “bottoni” sono già programmati per scopi in definitiva sempre riconducibili al mantenimento e alla riproduzione dello stato di cose vigente.

Senza sovvertire le basi economiche su cui poggia l'esistenza delle classi e quindi il dominio di classe, si resterà sempre nella solita merda! In ciò Marx era stato chiarissimo, laddove nel Manifesto del partito comunista scriveva: “[…] la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi fini”.

Alla luce dell’esperienza rivoluzionaria della Comune del 1871, scrive:

“Non fu dunque una rivoluzione contro questa o quella forma di potere di Stato, legittimista, costituzionale, repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo aborto soprannaturale della società; fu la riappropriazione del popolo e per il popolo della propria vita sociale” (La guerra civile in Francia, Primo abbozzo di redazione).

E qui fa capolino, per farla assai breve, il concetto di dittatura rivoluzionaria del proletariato (questa la dizione completa, signore e signori). Nella Critica al programma di Gotha, Marx scrive:

“Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.

Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”.

Questo passaggio, di portata storica epocale, non potrà essere immediato, ma sarà necessario un periodo di transizione in cui vi sarà lotta contro le resistenze della vecchia classe dominante. Non una dittatura pura e semplice, statica e conservativa del potere, bensì una dittatura rivoluzionaria che ha lo scopo di eliminare i presupposti economici e sociali su cui fonda la divisione in classi e con essa lo Stato inteso, per dirla in modo semplificato, come organizzazione del dominio di una classe sulle altre. Il comunismo non potrà porsi a livello di Stato ma di società.

Lo stesso concetto era stato espresso molti anni prima sulla Neue Rheinische Zeitung, in una serie di articoli dedicati all’insurrezione di Berlino del 1848:

“Ogni stato di cose provvisorio dopo una rivoluzione esige una dittatura e una dittatura energica. Fin dall’inizio abbiamo rimproverato a Camphausen di non aver agito da dittatore, di non aver immediatamente abbattuti ed eliminati i resti delle vecchie istituzioni. Così, mentre Camphausen si cullava in sogni costituzionali, il partito vinto rafforzava le posizioni nella burocrazia e nell’esercito, anzi, qua e là, osava persino la lotta aperta” (****).

Come si vede, Marx rimprovera al primo ministro renano, il liberale Camphausen, di non aver agito come in ogni rivoluzione borghese, ossia di non aver instaurato un’energica dittatura per sbarazzarsi delle vecchie istituzioni feudali e aristocratiche. Basti ricordare che se la Rivoluzione dell’Ottantanove non avesse imposto la propria dittatura, l’ancien régime non si sarebbe certamente fatto da parte spontaneamente.

Il 5 marzo 1852, scrivendo a Weydemeyer, Marx precisava che la dittatura del proletariato è l’esito necessario della lotta di classe:

"Per quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna, né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto l’evoluzione storica di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1. che l'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta delle classi necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi (*****).

Dal punto di vista delle dinamiche dello sviluppo capitalistico, connesse segnatamente allo sviluppo della tecnologia e alla sempre maggiore sostituzione del lavoro vivo con lavoro passato, e dunque nell’ambito della tendenza divaricantesi della contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, Marx dimostra la necessità e con essa la possibilità di questa trasformazione (tema che ho già trattato in altri post).

Pertanto la dittatura rivoluzionaria del proletariato, come già in passato quella borghese, non è figlia di una teoria ma della necessità e delle condizioni storiche che la promuovono. Lenin in Stato e Rivoluzione sintetizza bene:

“In Marx non vi è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall'antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra”.

Contro ogni fumisteria riformistica borghese Lenin è molto chiaro:

“Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo-borghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo(il grassetto è mio).

Aveva un bel dire Marx che chi “vede nella repubblica democratica il regno millenario e non si immagina nemmeno che appunto in questa ultima forma statale della società borghese si deve decidere definitivamente con le armi la lotta di classe”. Noi oggi vediamo in quale cul de sac sia precipitato questo povero mondo retto da dinamiche divenute irrazionali e distruttive, in quale indecisa contraddizione sia piombata la grande classe degli schiavi, di come non sappia risolversi tra il suo compito storico di liberazione e le mille seduzioni con le quali in ogni momento viene accalappiata. Del resto, per educazione, tradizione, abitudine, riconosciamo come leggi naturali ovvie le esigenze di questo modo di produzione, obbedienti e perfino ossequiosi alle sue regole di sottomissione.

Godiamoci dunque queste spicciole giornate di ferie, di pausa tra un periodo e l’altro di lavoro e di totale alienazione, questo interludio di diversa distrazione e di consueto rimbambimento, tanto la nostra scelta l’abbiamo già fatta, o meglio, ce la servono pronta. E del resto quale pazzo metterebbe anche solo per un istante a rischio la propria situazione? Anche se, possiamo esserne certi, il prossimo futuro, sotto l’incalzare degli eventi, ci metterà sempre più in una condizione di cui già ora possiamo cogliere, se non si è troppo distratti, qualche corposa anticipazione.

*

Post scriptum

Dobbiamo dar retta a ciò che diceva Peppone nel film che sto ora ascoltando più che vedendo, ossia che “il socialismo porterà la libertà al proletariato oppresso”? Sarà per questa strada che procederà la Storia? Dipende. Nel Tardo Antico aspettavano la fine dei tempi, la cosiddetta “parusia”; noi del Tardo Capitalismo non abbiamo da aspettare che il periodo dei saldi.

Guareschi, che pure è stato uno scrittore di valore universale, mosso da uno struggimento di patetica superiorità morale, aveva una concezione assai ingenua del comunismo, e non gliene possiamo fare una colpa più di quanto si possa assolvere l’intellighenzia gaudente e sedicente comunista del tempo. Emerge in Guareschi, riletto (rivisto) oggi, l’incompatibilità di un’etica e di un costume superati. E che però rimpiangiamo lo stesso, in qualche modo. Perché siamo superati a nostra volta da un mondo impazzito che non riconosciamo più.

*

Seneca, scrivendo dei Germani nel De Providentia (IV-15), diceva: “Da loro l’inverno è perpetuo, un cielo fosco li opprime, il terreno infecondo produce appena di che sfamarsi, hanno tetti di paglia e di fronde per ripararsi dalle intemperie. E ti sembrano da compiangere? Non è infelice chi regola la propria esistenza in conformità alle leggi della natura”.

Essi soli sono veramente liberi, come avrà ad osservare, ben prima, Lucano nel Pharsalia: “La libertà s’è ritirata di là del Tigri, del Reno; è retaggio degli sciti e dei germani; ma sull’Italia [Ausoniam] non volge più lo sguardo …” .

Penseranno i cosiddetti barbari, colpiti da editti crudeli e da spoliazioni, genti forti e sventurate, a far quadrare i conti. Non era forse fondata la loro pretesa, il diritto di ereditare il potere, sulla degenerazione romana?

Non voglio annoiare oltre, buone vacanze.


(*) Dunque, lo dico a illuminazione di certi sciocchini: la miseria dell’operaio occidentale non va parametrata con il relativo benessere di oggi rispetto all’omologo di cento anni prima, né sulla quantità dei consumi e dei trastulli rispetto a quelli di un operaio bengalese.

(**) Non rientra negli scopi di questo post, pur avendo un rilievo importante, l’esposizione di alcune tesi sulle diverse forme di potere sia statuale che sovranazionale che caratterizza in questa fase il sistema imperialista delle multinazionali. In passato, per un certo periodo, è prevalsa l’idea che l’azione rivoluzionaria del proletariato poteva raggiungere il fine di conquistare il potere politico per poi distruggere lo Stato imperialista e istaurare la dittatura del proletariato, dunque per trasformare il modo di produzione capitalistico in modo di produzione comunista e la formazione sociale in una “comunità reale”. Tale concezione, pur non erronea nelle sue linee di principio e che ho condiviso, trova in questa fase storica una barriera nel livello raggiunto dalle contraddizioni sociali in rapporto alla coscienza delle masse e dunque nel livello di dominio e controllo delle opzioni.

(***) E non dunque e semplicisticamente se essi siano ricchi o poveri.

(****) MEOC, VII, articolo del 14 settembre 1848, p. 445. Ludolf Camphausen (1803-1890), banchiere di Colonia, uno  dei capi della borghesia liberale renana; nel 1847 membro della Dieta riunita; primo ministro prussiano (marzo-giugno 1848), ambasciatore di Prussia presso il potere centrale provvisorio (luglio 1848-aprile 1849).


(*****) Was ich neu tat, war: 1. nachzuweisen, dass die Existenz der Klassen bloß an bestimmte historische Entwicklungsphasen der Produktion gebunden ist; 2. dass der Klassenkampf notwendig zur Diktatur des Proletariats führt; 3. dass diese Diktatur selbst nur den Übergang zur Aufhebung aller Klassen und zur klassenlosen Gesellschaft bildet (MEW, 28, p. 507).

10 commenti:

  1. "A Luigi, che ha la pazienza di chi legge fino in fondo"
    non c'é solo luigi che ti legge fino in fondo...
    e sei sicura che legge questo post sino in fondo?
    di sicuro la quarta nota proprio non la capisce...
    buon ferragosto
    franco valdes piccolo proletario di provincia

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  2. Cara Olympe,
    non so se ti potra'essere di qualche conforto,ma sappi che oltre a Luigi,anche il sottoscritto ha letto il tuo post,due volte,per tentare di scorgere anche eventuali sfumature,che data l'eta' ,ma anche una strutturale predisposizione della mia capoccia,sovente mi sfuggono ad una prima lettura.
    Sostanzialmente concordo e l'unica cosa che mi sento di aggiungere e'che bisognera' prestare attenzione all'evolversi della situazione economica mondiale congiuturale,con minaccia di altra crisi,ed esibizioni muscolari militari,che si fanno sempre piu'frquenti, (e'la frequenza che puo'essere indicativa,non tanto il fatto che esistano).
    Di sicuro due cose il paesello nostro ,potra'trovarsi nella periferia di un eventuale ciclone,la'dove i venti soffiano piu'forte.
    Inutile pensare che i vacanzieri si preoccupino,sperano sempre e per il momento le loro radicate convinzioni ,non li portano a pensare che la colpa sia degli immigrati.
    caino

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  3. Da sempre leggo i suoi articoli molto interessanti, oggi commento perché dopo aver letto quest'ultimo, d'impulso ho detto a me stessa "non succederà mai" e sono andata a rileggere cosa dice Olavo de Carvalho, filosofo brasiliano.

    I comunisti non possono realizzare una economia comunista. Se hanno una immensa facilità nell’ingreggiare persone perché lottino per questo fine irrealizzabile, è proprio perché è irrealizzabile, che è come dire: inaccessibile a qualsiasi verifica oggettiva dei risultati. Non esisterà mai una economia comunista della quale i suoi creatori dicano: “Ecco qui il comunismo realizzato. Potete giudicarci e dire se abbiamo o no mantenuto le nostre promesse”. È nella natura più intima dell’ideale comunista essere una promessa indefinitamente autorimandabile, immune, perciò, da qualsiasi giudizio umano. Il suo prestigio quasi religioso viene proprio da questo: il comunismo porta il Giudizio Finale dal cielo alla terra, ma senza fissare la data.
    Stimo il suo pregevole lavoro e mi scuso per l'intrusione, saluti Wanda

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    1. Cara Wanda, non mi sorprende che la pubblicistica borghese tenda a consegnarci il comunismo come un’utopia, tanto più dopo le esperienze del XX secolo. Il comunismo non è né un’utopia millenaristica e nemmeno una teoria. È la necessità che si offre come possibilità. Il comunismo non è un momento preciso della storia, non è una condizione definitiva, ma un processo. Non è il paradiso in terra, non è una società priva di contraddizioni. Non è una religione. Le dinamiche di trasformazione e transizione vanno studiate da un punto di vista scientifico. Grazie per il commento e l’attenzione. Cordiali saluti.

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  4. Le parole chiave..

    "..il comunismo non e'....
    E'la necessita' che si offre come opportunita'

    Questo fa paura a chi e' abitudinario delle proprie certezze e che le vede spaventosamente messe in discussione..
    Da qui lo sberleffo e la solita ritritata in stile popperiano..

    Hai colto nel segno,il Comunismo torna a far paura ai soliti noti e si percepisce..questo e'positivo.

    caino

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  5. Marx era una grande economista ( il più grande, secondo me ), un mediocre filosofo e un pessimo politico. Questa assurda formula della "dittatura...." non è altro che un'invenzione linguistica estemporanea, nata essenzialmente per motivi di propaganda politica. Prendendola sul serio non si fa certo un favore al genio di Treviri né sì favorisce una qualsivoglia prospettiva di emancipazione. Tutt'altro.

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    1. glielo ho già detto: aggiunga del tabacco a quello che fuma

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  6. Mi sa che piu' che fumare,qualcuno si mangi gustose insalate di peyote ,prima di scrivere.

    caino

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