A Luigi, che ha la pazienza di chi
legge fino in fondo.
Questa
è l’epoca della sovrabbondanza. Non per tutti, sappiamo. Ed è anche l’epoca
della sovrabbondanza di significati. Ogni oggetto della nostra riflessione è
sovraccaricato d’interpretazioni. E fin troppo spesso accade di doverci
occupare più delle innumerevoli interpretazioni degli interpreti che non delle
cose stesse.
Se
chiedessimo a delle persone, anche selezionate e inclini a un atteggiamento
diacronico, di spiegare in che cosa consista la “dittatura del proletariato”,
tema peraltro improbabile anche in stagioni meno afose, riceveremmo giudizi
connotati di forte negatività se non altro perché il termine “dittatura” evoca
spontanea idiosincrasia. E però non ci si aspetti, quanto al concetto nella sua
determinazione propriamente teorica, di raccogliere chissà quali cogenti
risposte.
È
difficile revocare in dubbio l’idea, davvero coriacea, che la nostra società
occidentale non sia esattamente quale essa ama rappresentarsi, ossia un
ordinamento improntato a sostanziale libertà e retto con i crismi della
democrazia. Del resto, chi potrebbe negare che non siano tutelati i diritti
fondamentali dell’uomo? Nessun uomo può metterne in catene un altro se non per
motivi di legge, né può costringerlo a qualsiasi cosa contro la sua volontà.
E
tuttavia per costringere un uomo a sottomettersi alla volontà di un altro non
servono né la violenza esplicita e tantomeno le catene. È paradossale ma questa
è una grande conquista, non solo sul piano delle libertà formali, che distingue
la nostra società da quelle del passato. Nessuno ci frusta o ci bastona per
costringerci a lavorare. Lo facciamo di nostra sponte, sospinti da quella
leggiera brezza che chiamiamo “bisogno”, cioè per motivi di sopravvivenza.
Mentre
il lavoro dello schiavo e del servo antichi è percepito d’emblée per ciò che
rappresenta nella sua forma esplicita di sottomissione a un proprietario, la
vendita del lavoro al capitale appare come un atto libero e volontario, come
uno scambio alla pari tra un venditore e un acquirente. Per contrasto viene
l’idea che il lavoro salariato, la vendita del lavoro al capitale, sia una
forma esteriore alla produzione capitalistica. Una forma destinata a durare
eternamente.
Di
questo sistema noi accettiamo la lingua e le sue leggi, e però non appena
analizziamo approfonditamente le leggi sulle quali poggia, scopriamo un mondo
che non immaginavamo, non almeno in tali termini. Se prendiamo in
considerazione la separazione tra
capitale e lavoro, dunque la divisione del lavoro stessa, quindi il concetto di
scambio e di concorrenza, ci accorgiamo che le cose stanno effettivamente in
tutt’altro modo da come comunemente si prospettano.
Pur
valendosi dalla stessa lingua, quella dell’economia politica, Marx ha mostrato come
l’operaio decada a merce, come questa merce venga sfruttata dal capitale e come
la miseria dell’operaio stia in rapporto
inverso con la potenza e la qualità della sua
produzione, e infine come il risultato di questo modo di produzione sia
l’accumulazione in poche mani di gran parte della ricchezza sociale (*).
Non
è casuale che gli economisti, i quali decantano il ruolo magnifico e
progressivo della proprietà privata, non spieghino affatto in che cosa
esattamente consista il capitalismo se non mistificandolo per ciò che non è.
Nelle loro formule generali palesano l’aspetto materiale ma non colgono le leggi del processo nello svolgimento
della loro necessità. Non perché siano tutti degli stupidi, benché contro
la loro stupidità di taluni si resti disarmati, ma a motivo della loro posizione di
classe.
Quando
mai un economista borghese si prenderà la briga di dirci qual è il fondamento
della divisione tra capitale e lavoro? Avete mai sentito dire da un qualsiasi
di questi soloni che tale antagonismo poggia sullo sfruttamento dell’operaio? Ci
raccontano dell’importanza che ha la produttività in rapporto col profitto del
capitale, di come l’interesse del capitalista sia la ragione suprema, fatta
passare per interesse dell’operaio e dell’intera società, e tuttavia l’economista
presuppone ciò che invece dovrebbe spiegare e dimostrare.
*
Lo
Stato, ossia la forma di governo della società, ha subìto storicamente diversi
stadi di sviluppo e di trasformazione, e tuttavia non servono poderosi studi
per dire che cos’è essenzialmente: è il risultato dalla separazione del lavoro
libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione; dalla divisione
sociale del lavoro, dalla separazione del lavoro manuale da quello
intellettuale, dalla ineguale distribuzione di fatiche e privilegi, come
intrinseca necessità della riproduzione di queste stesse condizioni.
Le
sue metamorfosi vanno lette in relazione al movimento contraddittorio della
proprietà e alle varie fasi di sviluppo che essa ha attraversato. E ciò vale anche per l’epoca in cui domina il capitale nelle sue proprie determinazioni,
dalla concorrenza pura al monopolio, e da questo all’attuale capitale
monopolistico multinazionale (**). Oggi lo Stato e gli ordinamenti interstatali
sono i garanti dei rapporti fondamentali di sfruttamento e alienazione entro la
morsa regolatrice imposta dal movimento del plusvalore relativo (cioè la tendenza al massimo sfruttamento).
Chiaro
che per la borghesia lo Stato rappresenti il “suo” Stato, pur nel carattere
conflittuale di tale rapporto (lo possiamo ben scorgere nella questione
fiscale), mentre per il proletariato il rapporto si presenta diversamente. Qui
la questione si complica perché viene introdotto un concetto apparentemente
neutro, quello di “società civile”, che meriterebbe ben più ampia riflessione.
Senza dover ripercorrerne la storia, che si dipana dal filosofo tedesco August
Ludwig von Schlözer e poi passa per Hegel, è essenziale ricordare il
rovesciamento di modellizzazione che di tale concetto ne fece Marx a partire dall’Ideologia tedesca.
Per
Marx diventa chiaro che la “bürgerliche
Gesellschaft” non è altro che la “forma di relazioni determinata dalle
forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi”, “teatro
di ogni storia” e che in tutti i tempi costituisce la base dello Stato e di
ogni sovrastruttura idealistica, “comprende tutto il complesso delle relazioni
materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo
delle forze produttive”.
Dice
dunque Marx che alla base delle formazioni sociali sta l’attività complessa di
produzione della vita; che quest’attività è multilaterale e storicamente
determinata; che nel suo svolgersi gli individui concreti entrano tra loro in
rapporti di contraddizioni dotati di un’oggettività materiale e con ciò si
costituiscono in classi sociali; che tali rapporti, in relazione al movimento
espansivo delle forze produttive, sono costretti a ridefinirsi perennemente;
sicché giunge sempre un momento nel processo storico in cui la loro interna
contraddizione esplode in un rivolgimento rivoluzionario “assumendo in pari
tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di
diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, lotta
politica, ecc”.
Dunque
Marx avanza la tesi scientifica fondamentale alla base del materialismo
storico: l’automovimento di una formazione sociale è, in ultima istanza,
determinato dallo sviluppo delle forze produttive nel loro rapporto dialettico
di unità e di lotta con i rapporti di produzione e di scambio. Più precisamente
la relazione tra base economica e Stato viene rischiarata nella sua genesi,
cioè a partire dalla divisione del lavoro: “con la divisione del lavoro è data
altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola
famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti
reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente
nell’immaginazione, come ‘universale’, ma esiste innanzi tutto nella realtà
come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso”.
Questa
“scissione fra interesse particolare e interesse comune”, questo “antagonismo
fra interesse particolare e interesse collettivo”, è scissione-antagonismo tra
interessi di classi sociali diverse, delle quali una domina tutte le altre, ed
è all’origine del fatto che “l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali
interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria”.
Lo
Stato come comunità illusoria o come
surrogato di comunità è, dunque, per Marx, l’organizzazione che le classi
dominanti si sono date per difendere i loro privilegi particolari, i loro
particolari interessi, rappresentati come generali, universali, come “interesse
generale illusorio sotto forma di Stato”.
*
In
generale il criterio fondamentale che distingue le classi è il posto che gli
individui che le costituiscono occupano nella produzione sociale e in
conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione (***). La caratteristica
fondamentale che distingue, nella società moderna la classe dei proprietari (la
borghesia) dal proletariato è data dal fatto che quest’ultimo è privo dei mezzi
di produzione e per vivere deve vendere la propria forza-lavoro.
Per
girare intorno a questa semplice verità e imbrogliare le carte si escogitano le
più incredibili e fantasmagoriche formulazioni “sociologiche”. Non c’è
differenza sostanziale nel rapporto tra le classi dei proprietari e quella dei
produttori sia nell’antico e sia nel moderno, se non per il fatto, come
osservava Marx, che «Lo schiavo romano
era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da
invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo
mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).
Pertanto,
la proprietà sui mezzi della produzione, in quanto potere di governo sul lavoro
e sui suoi prodotti, diventa il vero
Principe della situazione. Il capitalista – osserva Marx nei Manoscritti – possiede questo potere non
in virtù di qualità personali o umane, ma poiché è proprietario del capitale.
Il potere d'acquisto del suo capitale, che
nulla può contrastare, è il suo potere.
*
Dunque,
la questione si arricchisce (o si complica, secondo i gusti) ulteriormente se
si tiene conto delle determinazioni contraddittorie dei rapporti di classe,
degli interessi antagonistici tra le classi, e della determinazione di
“comunità illusoria”:
“La comunità apparente nella quale
finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e
allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la
classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena”.
Per
spezzare questa catena è necessario conquistare il potere politico. Chiaro
che nella situazione in cui veniamo a trovarci la conquista del potere politico
per via elettorale è impossibile. Non
solo perché i meccanismi elettorali sono sotto il controllo della borghesia, ma
soprattutto perché la conquista del potere politico non è semplicemente l’entrare
nella “stanza dei bottoni”, poiché quei “bottoni” sono già programmati per scopi
in definitiva sempre riconducibili al mantenimento e alla riproduzione dello
stato di cose vigente.
Senza
sovvertire le basi economiche su cui poggia l'esistenza delle classi e quindi il
dominio di classe, si resterà sempre nella solita merda! In ciò Marx era stato
chiarissimo, laddove nel Manifesto del
partito comunista scriveva: “[…] la classe operaia non può impossessarsi
puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto
per i suoi fini”.
Alla
luce dell’esperienza rivoluzionaria della Comune del 1871, scrive:
“Non fu dunque una rivoluzione contro
questa o quella forma di potere di Stato, legittimista, costituzionale,
repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo
aborto soprannaturale della società; fu la riappropriazione del popolo e per il
popolo della propria vita sociale” (La guerra civile in Francia, Primo abbozzo
di redazione).
E
qui fa capolino, per farla assai breve, il concetto di dittatura rivoluzionaria del proletariato (questa la dizione
completa, signore e signori). Nella Critica
al programma di Gotha, Marx scrive:
“Si domanda quindi: quale
trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini:
quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle
odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo
scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola
Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna.
Tra la società capitalistica e la
società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una
nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui
Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”.
Questo
passaggio, di portata storica epocale, non potrà essere immediato, ma sarà
necessario un periodo di transizione in cui vi sarà lotta contro le resistenze
della vecchia classe dominante. Non
una dittatura pura e semplice, statica e conservativa del potere, bensì una
dittatura rivoluzionaria che ha lo
scopo di eliminare i presupposti economici e sociali su cui fonda la divisione
in classi e con essa lo Stato inteso, per dirla in modo semplificato, come
organizzazione del dominio di una classe sulle altre. Il comunismo non potrà porsi a livello di Stato ma di
società.
Lo
stesso concetto era stato espresso molti anni prima sulla Neue Rheinische Zeitung, in una serie di articoli dedicati
all’insurrezione di Berlino del 1848:
“Ogni stato di cose provvisorio dopo
una rivoluzione esige una dittatura e una dittatura energica. Fin dall’inizio
abbiamo rimproverato a Camphausen di non aver agito da dittatore, di non aver
immediatamente abbattuti ed eliminati i resti delle vecchie istituzioni. Così,
mentre Camphausen si cullava in sogni costituzionali, il partito vinto
rafforzava le posizioni nella burocrazia e nell’esercito, anzi, qua e là, osava
persino la lotta aperta” (****).
Come
si vede, Marx rimprovera al primo ministro renano, il liberale Camphausen, di
non aver agito come in ogni rivoluzione borghese, ossia di non aver instaurato un’energica
dittatura per sbarazzarsi delle vecchie istituzioni feudali e aristocratiche.
Basti ricordare che se la Rivoluzione dell’Ottantanove non avesse imposto la
propria dittatura, l’ancien régime non si sarebbe certamente fatto da parte
spontaneamente.
Il
5 marzo 1852, scrivendo a Weydemeyer, Marx precisava che la dittatura del
proletariato è l’esito necessario della lotta di classe:
"Per quello che mi riguarda, a me
non appartiene né il merito di aver scoperto l'esistenza delle classi nella
società moderna, né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto
tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto l’evoluzione storica
di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto
l’anatomia delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare:
1. che l'esistenza delle classi è
soltanto legata a determinate fasi di
sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta delle classi
necessariamente conduce alla dittatura
del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il
passaggio alla soppressione di tutte
le classi e a una società senza classi” (*****).
Dal
punto di vista delle dinamiche dello sviluppo capitalistico, connesse
segnatamente allo sviluppo della tecnologia e alla sempre maggiore
sostituzione del lavoro vivo con lavoro passato, e dunque nell’ambito della
tendenza divaricantesi della contraddizione fondamentale del modo di produzione
capitalistico, Marx dimostra la necessità e con essa la possibilità di questa trasformazione
(tema che ho già trattato in altri post).
Pertanto la dittatura rivoluzionaria del proletariato, come già in passato
quella borghese, non è figlia di una
teoria ma della necessità e delle condizioni storiche che la promuovono. Lenin
in Stato e Rivoluzione sintetizza
bene:
“In Marx non vi è un briciolo di
utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No,
egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società
che sorge dall'antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra”.
Contro
ogni fumisteria riformistica borghese Lenin è molto chiaro:
“Colui che si accontenta di riconoscere
la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli
non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta
delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la
borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il
riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura
del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista
e il banale piccolo-borghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la
comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo” (il grassetto è mio).
Aveva
un bel dire Marx che chi “vede nella
repubblica democratica il regno millenario e non si immagina nemmeno che
appunto in questa ultima forma statale della società borghese si deve decidere
definitivamente con le armi la lotta di classe”. Noi oggi vediamo in quale cul
de sac sia precipitato questo povero mondo retto da dinamiche divenute
irrazionali e distruttive, in quale indecisa contraddizione sia piombata la grande
classe degli schiavi, di come non sappia risolversi tra il suo compito storico
di liberazione e le mille seduzioni con le quali in ogni momento viene
accalappiata. Del resto, per educazione, tradizione, abitudine, riconosciamo
come leggi naturali ovvie le esigenze di questo modo di produzione, obbedienti
e perfino ossequiosi alle sue regole di sottomissione.
Godiamoci
dunque queste spicciole giornate di ferie, di pausa tra un periodo e l’altro di
lavoro e di totale alienazione, questo interludio di diversa distrazione e di consueto
rimbambimento, tanto la nostra scelta l’abbiamo già fatta, o meglio, ce la
servono pronta. E del resto quale pazzo metterebbe anche solo per un istante a
rischio la propria situazione? Anche se, possiamo esserne certi, il prossimo
futuro, sotto l’incalzare degli eventi, ci metterà sempre più in una condizione
di cui già ora possiamo cogliere, se non si è troppo distratti, qualche corposa
anticipazione.
*
Post scriptum
Dobbiamo
dar retta a ciò che diceva Peppone nel film che sto ora ascoltando più che
vedendo, ossia che “il socialismo porterà la libertà al proletariato oppresso”?
Sarà per questa strada che procederà la Storia? Dipende. Nel Tardo Antico
aspettavano la fine dei tempi, la cosiddetta “parusia”; noi del Tardo Capitalismo
non abbiamo da aspettare che il periodo dei saldi.
Guareschi,
che pure è stato uno scrittore di valore universale, mosso da uno struggimento
di patetica superiorità morale, aveva una concezione assai ingenua del
comunismo, e non gliene possiamo fare una colpa più di quanto si possa
assolvere l’intellighenzia gaudente e sedicente comunista del tempo. Emerge in
Guareschi, riletto (rivisto) oggi, l’incompatibilità di un’etica e di un
costume superati. E che però rimpiangiamo lo stesso, in qualche modo. Perché
siamo superati a nostra volta da un mondo impazzito che non riconosciamo più.
*
Seneca,
scrivendo dei Germani nel De Providentia
(IV-15), diceva: “Da loro l’inverno è perpetuo, un cielo fosco li opprime, il
terreno infecondo produce appena di che sfamarsi, hanno tetti di paglia e di
fronde per ripararsi dalle intemperie. E ti sembrano da compiangere? Non è
infelice chi regola la propria esistenza in conformità alle leggi della
natura”.
Essi
soli sono veramente liberi, come avrà ad osservare, ben prima, Lucano nel Pharsalia: “La libertà s’è ritirata di
là del Tigri, del Reno; è retaggio degli sciti e dei germani; ma sull’Italia
[Ausoniam] non volge più lo sguardo …” .
Penseranno
i cosiddetti barbari, colpiti da editti crudeli e da spoliazioni, genti forti e
sventurate, a far quadrare i conti. Non era forse fondata la loro pretesa, il
diritto di ereditare il potere, sulla degenerazione romana?
Non
voglio annoiare oltre, buone vacanze.
(*)
Dunque, lo dico a illuminazione di certi sciocchini: la miseria dell’operaio occidentale
non va parametrata con il relativo benessere di oggi rispetto all’omologo di
cento anni prima, né sulla quantità dei consumi e dei trastulli rispetto a quelli
di un operaio bengalese.
(**)
Non rientra negli scopi di questo post, pur avendo un rilievo importante,
l’esposizione di alcune tesi sulle diverse forme di potere sia statuale che
sovranazionale che caratterizza in questa fase il sistema imperialista delle
multinazionali. In passato, per un certo periodo, è prevalsa l’idea che
l’azione rivoluzionaria del proletariato poteva raggiungere il fine di
conquistare il potere politico per poi distruggere lo Stato imperialista e
istaurare la dittatura del proletariato, dunque per trasformare il modo di
produzione capitalistico in modo di produzione comunista e la formazione
sociale in una “comunità reale”. Tale concezione, pur non erronea nelle sue
linee di principio e che ho condiviso, trova in questa fase storica una
barriera nel livello raggiunto dalle contraddizioni sociali in rapporto alla coscienza
delle masse e dunque nel livello di dominio e controllo delle opzioni.
(***)
E non dunque e semplicisticamente se essi siano ricchi o poveri.
(****)
MEOC, VII, articolo del 14 settembre 1848, p. 445. Ludolf Camphausen
(1803-1890), banchiere di Colonia, uno dei capi della borghesia liberale renana; nel 1847 membro
della Dieta riunita; primo ministro prussiano (marzo-giugno 1848), ambasciatore
di Prussia presso il potere centrale provvisorio (luglio 1848-aprile 1849).
(*****)
Was ich neu tat, war: 1. nachzuweisen,
dass die Existenz der Klassen bloß an bestimmte historische Entwicklungsphasen
der Produktion gebunden ist; 2. dass der Klassenkampf notwendig zur Diktatur
des Proletariats führt; 3. dass diese Diktatur selbst nur den Übergang zur
Aufhebung aller Klassen und zur klassenlosen Gesellschaft bildet (MEW, 28, p.
507).
"A Luigi, che ha la pazienza di chi legge fino in fondo"
RispondiEliminanon c'é solo luigi che ti legge fino in fondo...
e sei sicura che legge questo post sino in fondo?
di sicuro la quarta nota proprio non la capisce...
buon ferragosto
franco valdes piccolo proletario di provincia
Cara Olympe,
RispondiEliminanon so se ti potra'essere di qualche conforto,ma sappi che oltre a Luigi,anche il sottoscritto ha letto il tuo post,due volte,per tentare di scorgere anche eventuali sfumature,che data l'eta' ,ma anche una strutturale predisposizione della mia capoccia,sovente mi sfuggono ad una prima lettura.
Sostanzialmente concordo e l'unica cosa che mi sento di aggiungere e'che bisognera' prestare attenzione all'evolversi della situazione economica mondiale congiuturale,con minaccia di altra crisi,ed esibizioni muscolari militari,che si fanno sempre piu'frquenti, (e'la frequenza che puo'essere indicativa,non tanto il fatto che esistano).
Di sicuro due cose il paesello nostro ,potra'trovarsi nella periferia di un eventuale ciclone,la'dove i venti soffiano piu'forte.
Inutile pensare che i vacanzieri si preoccupino,sperano sempre e per il momento le loro radicate convinzioni ,non li portano a pensare che la colpa sia degli immigrati.
caino
Da sempre leggo i suoi articoli molto interessanti, oggi commento perché dopo aver letto quest'ultimo, d'impulso ho detto a me stessa "non succederà mai" e sono andata a rileggere cosa dice Olavo de Carvalho, filosofo brasiliano.
RispondiEliminaI comunisti non possono realizzare una economia comunista. Se hanno una immensa facilità nell’ingreggiare persone perché lottino per questo fine irrealizzabile, è proprio perché è irrealizzabile, che è come dire: inaccessibile a qualsiasi verifica oggettiva dei risultati. Non esisterà mai una economia comunista della quale i suoi creatori dicano: “Ecco qui il comunismo realizzato. Potete giudicarci e dire se abbiamo o no mantenuto le nostre promesse”. È nella natura più intima dell’ideale comunista essere una promessa indefinitamente autorimandabile, immune, perciò, da qualsiasi giudizio umano. Il suo prestigio quasi religioso viene proprio da questo: il comunismo porta il Giudizio Finale dal cielo alla terra, ma senza fissare la data.
Stimo il suo pregevole lavoro e mi scuso per l'intrusione, saluti Wanda
Cara Wanda, non mi sorprende che la pubblicistica borghese tenda a consegnarci il comunismo come un’utopia, tanto più dopo le esperienze del XX secolo. Il comunismo non è né un’utopia millenaristica e nemmeno una teoria. È la necessità che si offre come possibilità. Il comunismo non è un momento preciso della storia, non è una condizione definitiva, ma un processo. Non è il paradiso in terra, non è una società priva di contraddizioni. Non è una religione. Le dinamiche di trasformazione e transizione vanno studiate da un punto di vista scientifico. Grazie per il commento e l’attenzione. Cordiali saluti.
EliminaLe parole chiave..
RispondiElimina"..il comunismo non e'....
E'la necessita' che si offre come opportunita'
Questo fa paura a chi e' abitudinario delle proprie certezze e che le vede spaventosamente messe in discussione..
Da qui lo sberleffo e la solita ritritata in stile popperiano..
Hai colto nel segno,il Comunismo torna a far paura ai soliti noti e si percepisce..questo e'positivo.
caino
RispondiEliminaMarx era una grande economista ( il più grande, secondo me ), un mediocre filosofo e un pessimo politico. Questa assurda formula della "dittatura...." non è altro che un'invenzione linguistica estemporanea, nata essenzialmente per motivi di propaganda politica. Prendendola sul serio non si fa certo un favore al genio di Treviri né sì favorisce una qualsivoglia prospettiva di emancipazione. Tutt'altro.
glielo ho già detto: aggiunga del tabacco a quello che fuma
EliminaMille Grazie.
RispondiEliminaa lei, caro
EliminaMi sa che piu' che fumare,qualcuno si mangi gustose insalate di peyote ,prima di scrivere.
RispondiEliminacaino