Oggi ci rompono il cazzo col
referendum scozzese, laddove gli scozzesi dovevano scegliere se rimanere sotto
la dittatura della borghesia inglese oppure passare sotto la cappella
dell’élite locale. Resta comunque acquisito un fatto, e cioè che le burocrazie
statali sono un ostacolo alla libertà dei popoli.
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C’è un forte accanimento contro ogni forma di "eresia", non solo da parte della classe egemone (e questo va da sé), ma
anche da parte di tutti quei proletari che sono stati convinti che solo
il denaro sia adatto a governare il mondo. La nostra è una società plasmata
secondo le aspirazioni dei padroni, secondo il loro modello culturale, facile
da assimilare, che è diventato quello dell’uomo comune, laddove i problemi
importanti ma complessi e noiosi sono messi da parte nelle coscienze e
nell’intimità degli individui per lasciare spazio allo stesso e medesimo
massaggio, quello pubblicitario, quello dei nuovi eroi della comunicazione,
vuoi travestiti da politici o da specialisti di qualunque altra cosa.
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Chi accetta passivamente questo sistema
è per il mantenimento della schiavitù.
L’abolizione sostanziale di ciò che resta dell’art. 18, o
qualunque nome vorranno affibbiare a tale nefandezza, serve per licenziare
quella minoranza di schiavi che ancora gode (oh, se gode!) di un contratto a tempo
indeterminato per assumere poi altri schiavi privi di diritti se non quello di
sgobbare per quattro soldi.
Scriveva un antico proprietario di
schiavi:
Illiberales autem et sordidi quaestus mercennariorum omnium, quorum
operae, non quorum artes emuntur; est enim in illis ipsa merces auctoramentum
servitutis. […] Opificesque omnes in sordida arte versantur; nec enim quicquam
ingenuum habere potest officina (De officiis, I, CL).
Passarono molti secoli prima che il
principio della libertà individuale assumesse un carattere universale iscritto
solennemente negli statuti dei popoli, consentendo così al servo di vendersi
davvero liberamente.
Un cittadino ateniese o romano
avrebbe riso della cosa e invece noi schiavi del mondo moderno consideriamo
questo come il più alto traguardo raggiunto, come il bene più prezioso che
abbiamo, non potendone vantare altri.
Anche un economista borghese, come
Maffeo Pantaleoni, in un’epoca culturalmente molto più libera dell’attuale,
poteva scrivere:
Allorché un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri,
questo individuo è lo schiavo degli altri (La caduta della Società
Generale di Credito mobiliare Italiano, UTET, 1988).
Il più grande pensatore moderno, a
sua volta, scriveva:
Lo schiavo
romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al
suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal
continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto (Il
Capitale, I, cap. XXI).
Il contratto è quindi il mezzo che
formalizza la schiavitù. Il primo passo per affrancarsi dalla schiavitù
salariata è abolirne le forme concrete e quelle giuridiche sulle quali essa
poggia. Per fare questo è necessario abolire la classe sociale che ha interesse
a mantenere lo statu quo: la borghesia. È facilmente intuibile che la borghesia
non si farà cancellare per vie amministrative, anche perché essa, attraverso lo
Stato, controlla l’uso legale della forza.
*
Un antico proprietario di schiavi
– escluso ogni eventuale scrupolo morale – avrebbe mai potuto ammettere che il
modo di produzione schiavistico portasse in sé il germe della propria
dissoluzione? E il feudatario ecclesiastico – costringendo le plebi a un mero e
precario stato di sussistenza – non voleva forse confermare che l’immutabilità di
quell’ordine sociale corrispondeva a quanto stabilito dal padreterno? Infine,
un moderno proprietario di schiavi salariati potrebbe tollerare che l’aumentata
produttività del lavoro possa tradursi in una diminuzione della durata del tempo
di lavoro e con ciò alludere alla rimodellazione delle forze produttive, della
tecnica e della scienza entro un nuovo quadro di razionalità fondato sulla
liberazione del lavoro e il rispetto della natura?
Rilegga la prima parte del post, vi sono delle sviste grammaticali che è un peccato.
RispondiEliminaLa saluto.
a parte il salto di una consonante in "travestiti", però non vedo altre sviste grammaticali, perciò mi farebbe piacere me le segnalasse per eventualemnte correggerle. molte grazie e saluti
Eliminaora ho visto che c'è anche un "una" in vece di "un", ma si tratta, come già ebbi modo di dirle qualche giorno addietro, di errori di battuta, non di errori grammaticali (peraltro sempre possibili). lei questi errori di battuta fa bene a segnalarmeli, e perciò la ringrazio sinceramente.
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