lunedì 22 settembre 2014

Ancora su Piketty


È possibile che la nota posta alla fine risulti più interessante del post stesso, per quanto la comprensione della nota risulti connessa alla lettura del post. Si cerchi comunque di apprezzare l’impegno e la fatica profusi in un paio d’ore di ricerche nei recessi di memoria e di scaffali.

*

Ho minacciato i lettori di questo blog di voler scrivere un secondo post in relazione al libro di Thomas Piketty; sennonché, leggendo un’intervista rilasciata dello stesso economista, nella quale ammette candidamente di non aver letto Marx perché “difficile” e “poco interessante”, il mio buon proposito iniziale è stato posto in seria difficoltà.



Tuttavia, tra l’altro, mi ha colpito una singolare dichiarazione dello stesso Piketty, ossia la sua rinuncia a leggere Marx – del quale però si occupa con giudizi severi nel suo libro – poiché nelle sue opere mancherebbero i “dati”. Per “dati” presumo a buona ragione che Piketty si riferisca alla lunga teoria di grafici, tabelle, statistiche ed equazioni che di solito accompagnano i farfugliamenti degli accademici borghesi.

E dunque in risposta all’osservazione di Piketty ho rispolverato qualche volume dei “classici” dell’economia politica, e qualche altro, dei primi economisti “volgari”, l’ho riportato alla luce dal proprio nascondiglio.

Ebbene, nei due grossi volumi di Adam Smith (che meriterebbero di essere letti anche per il loro valore storiografico), Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, bisogna arrivare a pagina 255 per scorgervi alcune tabelle cronologiche dei prezzi del grano, le quali non hanno nulla a che vedere con l’indagine vera e propria condotta da Smith. Poi, nulla più.

Nella benemerita collana dell’Isedi, trovo i Principi di Ricardo, in cui non v’è nulla che possa assomigliare, nemmeno lontanamente, ai “dati” ai quali si riferisce Piketty. Dunque nemmeno Ricardo andrebbe studiato. Né vi è riscontro di nulla del genere nel grosso volume dei Nuovi principi di economia politica di Simonde de Sismondi.

Tra gli economisti “classici” che fanno uso di dati numerici c’è William Petty e François Quesnay nel suo Tableau économique, e del resto trattandosi per lo più di lavori dove, per esempio, vi sono rappresentate le spese e i prodotti “onde poter valutare le conseguenze di attività di governo”, è del tutto normale in simili resoconti che ci si affidi a delle cifre.

Nella altrettanto benemerita collana della Utet, dove tra gli altri figura anche una “suggestiva” traduzione de Il Capitale di Marx, più volte riedita, si rinvengono le Armonie economiche di Bastiat, il quale non si cura di fornire “dati” alla Piketty, per quanto si preoccupi di far diventare il capitalismo un “sistema di armonie” e il migliore dei mondi possibili. È l’economista “più illustre” del secondo periodo dell’economia volgare [*].

Nel poderoso volume di 778 pagine, edito nel 1843 a Bruxelles su due colonne, come usava a quel tempo, del Cours complet d’économie politique di Jean-Baptiste Say (Marx più volte non ha nei suoi riguardi parole benevoli e di stima), non si rintraccia un solo “dato”, salvo una specie di diagramma, con un triangolo e una scala, a pagina 169. Say deve ammettere a denti stretti le contraddizioni del capitalismo e teorizza le sue crisi dovute a “sproporzionalità” (per Malthus è il “sottoconsumo”).

E di qui in poi, cioè dal quarto periodo dell’economia volgare, numeri e diagrammi si possono rintracciare abbondanti presso gli economisti che fanno da anello di congiunzione con quelli attuali, per esempio nella stravagante opera di W. Stanley Jevons dal titolo Economia politica, laddove l’autore tenta di porre “in analogia la teoria dello scambio con la teoria della leva” [sic!]. La sua esposizione economica è posta in analogia con la geometria, ed il fatto che su di lui e la sua opera sia sceso un silenzio di tomba è l’unica cosa significativa che lo riguardi.

Alla stessa stregua l’austriaco K. M. Enger e L. Walras in Francia, che teorizzano il cosiddetto “individualismo metodologico”, secondo cui i processi economici possono essere analizzati compiutamente partendo dall’esame del comportamento del singolo individuo isolato, il fantomatico “homo æconomicus”. In tal modo – come succede poi in altre “scienze" borghesi – l’oggetto dell’analisi passa dall’ambito delle relazioni sociali (oggettive), esterne agli individui, alla sfera delle relazioni soggettive, donde anche la denominazione di “economia soggettivistica”. Il delirio poi continua con la cosiddetta “teoria soggettivistica del valore” di cui faccio grazia al lettore che si sia avventurato fin qui.

Nel volume di Arthur Pigou (siamo ormai quasi ai nostri giorni), Economia del benessere, già dal titolo si evince l’intento apologetico dell’autore, il quale non si esime dall’uso di un bel po’ di algebra a dimostrare la sua e altrui “soddisfazione economica”. Nelle 650 pagine spese faticosamente dall’autore per corroborare lo scopo, si narra anche di “accordi volontari” tra operai e padroni in cui prevarrebbe “lo spirito di amichevole cooperazione” (Utet, 1947, p. 384).

Come si vede, man mano che la teoria dai classici procede verso gli attuali ecomerdisti alla Piketty, prende sempre più piede l’impiego di “dati” che secondo le intenzioni avrebbero lo scopo di offrire una parvenza di scientificità e di oggettività alla “teoria”, come se i numeri, di per sé, potessero assolvere dalle mende teoriche e mettere d’accordo la realtà con le più bischere congetture. E ciò non succede solo nell’ambito dell’economia politica.

È molto probabile che Piketty, oltre a non aver letto Marx, non abbia preso visione di prima mano nemmeno dei classici, così come possiamo inoltre essere certi che egli non abbia cognizione di altri autori qui menzionati.

A questo punto dovrei occuparmi più dappresso del libro di Piketty, a cominciare dalla nota a pagina 25, ma il post è già troppo lungo, è sopraggiunta la stanchezza e un po’ di tedio per queste cose (avendo ben altro da leggere), e dunque resta appesa la minaccia di un prossimo post dedicato all’inutile librone di Piketty.

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[*] I più importanti esponenti del pensiero economico classico sono: William Petty (1623-87), David Hume (1711-76), i Fisiocratici (tra i quali il citato François Quesnay, 1694-1774), Adam Smith (1723-90) e David Ricardo (1772-1823).

Dopo i classici, il successivo primo periodo dell’economia volgare (1820 – 1830) è l’espressione teorica della borghesia vittoriosa, divenuta conservatrice, e quindi preoccupata non di analizzare scientificamente il modo di produzione esistente, ma piuttosto di abbellirlo e renderlo coerente.

Il secondo periodo dell’economia volgare (1830 – 1840) è l’epoca successiva alla “Rivoluzione di luglio”, in cui le contraddizioni di classe tipiche del capitalismo cominciano a manifestarsi in forma sempre più acuta. Gli economisti perciò si preoccupano di cancellare anche gli ultimi residui del contenuto originario della teoria del valore-lavoro, e tale aspetto chiave della teoria economica va ben tenuto presente da chi desidera comprendere il senso ultimo di quanto detto nel post.

Il terzo periodo dell’economia volgare (1848 – 1870) è l’epoca dei contrasti di classe ormai dispiegati, laddove ogni teoria economica scientifica viene abbandonata e sostituita dalla semplice descrizione storica dei fenomeni (ovvio dunque il massiccio impiego di “dati”), detta per l’appunto “scuola storica” il cui più influente esponente è W. Roscher. È una teoria fittizia che abbandona completamente il terreno della realtà e approda a quello della psicologia soggettiva che avrà modo di prendere piede nel quarto periodo dell’economia volgare (1870 – 1900), di cui nel post ho già detto abbastanza, salvo che per la “scuola monetarista” che però non è tema del post, così come esula il quinto periodo dell’economia volgare, e cioè il keynesismo, e poi dopo i neo-monetaristi e i neo-ricardiani.



9 commenti:

  1. Oh, finalmente un po' di ordine - chiaro, sintetico e semplice - in un pezzo di storia dell'economia!

    Una sana picconata agli stranamore made in bocconi (cioè in usa) che da tv, radio, giornali pulpiti e cattedre varie, sbraitano cazzate a ripetizione nascondendosi dietro la confusione di un "latinorum" (rindondante numeri, dati, grafici, termini tecnici astrusi) creato appositamente per abbindolare le masse e compiacere i loro pagatori.

    Per ringraziarti della fatica (poichè so che apprezzi l'argomento), ti segnalo un video su come la necessità ha ribaltato l'agricoltura, ma non solo, a Cuba negli ultimi anni.

    Vivere senza petrolio – L’esperienza di Cuba

    http://www.pandoratv.it/?p=1158

    Ciao e veramente grazie, g

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    1. grazie a te di cuore, anche per il video (che vedrò stasera) ciao

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  2. ECOMERDISTI!!!

    Mi piace questo nuovo neologismo. Ah, ah, ah.

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  3. Passare da Hume e Ricardo a Pinketty è un bel salto con fratture constatando nel caso che il dibattito disciplinare ha subito, come altri temi nel nostro tempo, una profonda mimetica banalizzazione. Dilaga sino ad un candido strip tease intellettuale (testi "difficili e poco interessanti").
    Del resto commenti e critiche al netto dei testi è uno sport ben frequentato, non da ora, e per abbindolare le 'masse' di un Pinketty ce n'è d'avanzo. L'inglesorum ha soppiantato il latinorum, il direttore d'orchestra sa che tanto va bene ugualmente, il vero capolavoro è portare le cose a un punto tale che la 'massa' invoca ciò che essi desiderano, ed è contrario agli interessi generali, per rimozione e disperazione su ogni altra alternativa.

    Permanecer en Cuba. L'aveva sostenuto anche Ernesto Guevara de la Serna, non c'è cambiamento senza istruzione.E non solo.
    (poi parlandone dopo esserci stati è sempre buona cosa).

    lr



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    1. da molto tempo non servono più i campanelli pavloviani

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    2. Sulla disperazione, e per avere una panoramica - sempre parziale, considerando cervelli frullati a dovere da professionisti con i più disparati ingredienti - su certe generazioni e sulla loro "apatia no future", si può leggere il conterraneo Tommaso Pellizzari (nato nel 1967) "Movimento per la disperazione" (dei sempre astuti Baldini&Castoldi) che recita:

      "Non chiedetevi cosa può fare il vostro Paese per voi: non può fare niente, proprio niente. E risparmiatevi pure la fatica di chiedervi cosa invece potreste fare voi per il vostro Paese. Perchè, di nuovo, la risposta é: niente, proprio niente.
      Se da tempo avete smesso di farvi domande come queste, o se addirittura non ve le siete mai fatte, benvenuti nel Movimento per la disperazione."

      A Cuba mi piacerebbe moltissimo andare prima che scompaia Castro, non per una vacanza, ma per qualche tempo, credo che sarebbe molto istruttivo nel bene e nel male, ma fuori dai luoghi comuni.
      g

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    3. no, i giovani, compreso pellizzari, non possono fare nulla fino a quando scrivono e leggono questi libri.però possono ubriacarsi.

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  4. Da qualche tempo sento il bisogno di maneggiare una copia cartacea del Capitale (finora me la sono cavata con le versioni online, ma inizio ad avvertire diversi limiti nella consultazione e nel recupero di passaggi).
    Ho preso in considerazione proprio la versione UTET, per diverse ragioni: il fatto che la traduzione sia stata curata da Bruno Maffi mi sembra una garanzia; la copia in ebook è scaricabile gratuitamente; il prezzo complessivo è allettante.
    E' però bastato quel suo aggettivo ("suggestiva") sulla traduzione in esame per rimettere in dubbio l'acquisto :)
    Meglio evitare?
    Quale edizione reputa migliore tra quelle in commercio?

    Grazie per la pazienza, come sempre...

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